Affermi e ripeti di non appartenere a nessuna razza. Di non avere colore. Di non essere di nessun ceto. Affermi e ripeti di essere senza fedi e religione. Di non avere sesso. Né appartenenze. L’accento siciliano è solo un accidente, un puro caso, come il cazzo che porti tra le gambe e che ti piace tenere tra le mani. Tue o altrui che siano non importa. O ancor più infilzare in qualche culo, maschile o femminile non importa: senza distinzioni, senza preferenze e senza appartenenza.
L’unica certezza è il desiderio. Ma non la sua soddisfazione. Non il suo prolungamento. Ogni impulso è un dovere che presto fugge via. Neve fra le dita. Che hai e non hai.
Fermati un momento. Guardati le mani. Guarda come sei conciato. Guardati allo specchio. Che poi ti viene voglia di ridere e sei riacquistato alla vita. E al gusto di esserci. E dove c’ è gusto non c’ è perdenza.
Se ci fosse perdenza, se non ci fosse gusto, non ci avresti pensato due volte. A togliertela. La vita. Ma a volte basta anche il solo desiderio. Il solo desiderio. E si illumina l’esistenza. E torna il sorriso. E ti recuperi al ritmo dei giorni tuoi. Sembri anche più bello. Più curato. Più caricato. Dopo una risata. O dopo una cacata.
Liberazione. Libera azione. Liberamente. Libera mente. Libera mente in libero stato. Liberato. Senza più vincoli né leggi. Senza più vicoli né greggi. Senza un senso rivelato alla ragione. Solo, assolutamente solo. Solo como un perro solo / Ando a la deriva / y me dan por loco / Solo como un cero solo / Solo como en un suicidio / Solo tengo un tango / pa’ contar mi exilio. [*]
Esule. Emigrante. Straniero e solo. Emigrante nella terra dove sei nato. Emigrante fuori dalla terra dove sei nato. Trascini la giornata e la vita è altrove. ¿Ma dov’è altrove?
Giri a sud dell’utopia e ritorni dentro te o tra le gambe tue. Ci fosse almeno un culo in cui perdersi. Un ventre in cui immergersi. Una mano da portare sulle tue strade. Una bocca da zittire, da riempire, da sfamare; da sfogare, da strozzare. Una bocca da baciare, da leccare, da sfiorare. Una bocca. Una bocca da guardare. Una bocca. Una bocca da odorare, da toccare, da ascoltare.
“E’ stato bello… Mi passi le sigarette sul comodino?” “Ma che c’entrano le sigarette sul comodino. Che cazzo c’entrano le sigarette sul comodino?” Le sigarette sul comodino. Fu per questo che l’ammazzò. Solo per questo.
“Signor giudice, non c’ è altra ragione. Ci conoscevamo solo da tredici giorni. Ma io le volevo bene. Quella notte fu la prima volta. Io le volevo molto bene. Signor giudice.”
Tu invece non l’avresti ammazzata.
Magari avresti preso anche tu una sigaretta dal pacchetto. E l’avresti fumata insieme. O da solo, nel bagno. Guardandoti l’uccello floscio tra le gambe. E magari ti si sarebbe riacceso il desiderio.
Ma lui no. Lui non avrebbe potuto sopportare quel fumo a letto, quell’indifferenza; come se nulla fosse accaduto. La testa cominciò a tremargli, le tempie a pulsare con violenza: quasi che il cervello volesse schizzargli fuori dal cranio. Milioni di schegge di materia grigia sui muri, sui mobili, sul letto e sulle lenzuola bianche; sui suoi occhi, sulle sue gambe e sul ventre suo. Non avrebbe potuto sopportarlo. Si precipitò fuori dal letto. L’afferrò con rabbia. Gettò via accendino, lenzuola e sigarette. La scaraventò sulla moquette. “Stronza! se hai voglia di sugare, succhiati questo…” E le premette la testa sul suo cazzo afferrandola per i capelli. Mentre lei gemeva a denti stretti. Sconvolta.
Furioso le diede una ginocchiata sotto il mento, e calci dappertutto. Mobili per aria, sul letto, sul suo corpo. Lei non riuscì nemmeno a gridare. Quelle voci che si sentirono erano solo la sua. Era lui che gridava e piangeva.
I vicini accorsi nella stanza insanguinata lo trovarono immobile, in ginocchio, con la testa poggiata contro il muro e in mano un paralume di ottone stile ottocento.
Delirò che lei era incinta. Che aveva ammazzato non lei, ma il mostro affumicato.
“I signori della corte sanno che non è vero. Sanno che lei non era incinta. Lui parlava della pancia di lei rigonfia di un seme non suo. Del figlio del vizio, vizioso e viziato. Del mostro affumicato che sarebbe nato di lì a poco. Ma lei non era incinta. Per altro, le foto dimostrano che la povera signora aveva un fisico da mannequin. Poteva pesare sì e no un cinquantaquattro chili; ed era alta quasi un metro e settanta.
Solo la follia ha potuto annebbiare le capacità percettive del mio disgraziato cliente, fino a fargli vedere quest’esile signora come una mammona pronta a sgravidare il mostro. Il mostro affumicato. I periti psicologici stabiliranno il perché di quest’ansia distruttiva. Perché ha visto in lei una donna incinta e si è innescata la mania omicida? Noi con la nostra limitata giustizia terrena non siamo in grado di stabilirlo. E non mi pare possibile giudicare ciò che non si capisce. Ciò che esula dalle nostre capacità percettive.”
Una donna incinta che fuma, fa fumare anche il suo bambino. Una donna incinta che si droga, droga anche il suo bambino. Il fumo passivo. I neonati eroinomani. I sieropositivi dalla nascita. Slogan e messaggi si stampano nella memoria di menti sane e malate. E annebbiano la nostra percezione della realtà. La visione dei fatti.
[*]
Sono versi tratti liberamente e in ordine sparso da un tango di Fernando E. Solanas. Negli ultimi tempi, l’Autore cantava spesso questo e altri tanghi dichiarandosi sempre più addentro alla poetica disperata e delirante di tante canzoni rioplatensi (N.d.R.).
gaetano vergara © 1993
[dalla raccolta di racconti inediti N.d.A.]