Come ho detto qua e là, sono già un paio di settimane che vi scrivo da Madrid (I beg your pardon,  sembra l’inizio di un reportage dal fronte); ed a Madrid resterò ancora per qualche giorno [mi mantengo nel vago perché considero la vaghezza come una cifra caratteristica del blog, salvo nelle parentesi dove si lasciano scivolare schegge di realtà, dati di fatto e considerazioni ironiche (tra queste due pareti curve potrei perfino farmi scappare che rientrerò in Italia a fine Agosto. Ecco!, (non) volevo dirlo, l’ho detto.)]

palacio

Madrid è vitale, attraente e interessante come qualcuno di voi ha scritto nei commenti ai post sottostanti. Una città che offre molto a chi ci vive e a chi ci passa. Lei, però, non fa mostra di aspettarti a cosce aperte come tante capitali marinare sparse tra l’Atlantico ed il Mediterraneo. Qui el agua es poca (y el pato no flota); fluisce stanco solo lo scarso Manzanares che fu cantato da don Lisander come espressione geografica di estremo Occidente (a fronte dell’orientale Reno); ed a me mi mancano gli scrosci delle onde e il volo obliquo dei gabbiani. Ma ve bene così; più  che bene. La città offre molto… Qualche ora fa, per esempio, l’Orchestra ed il Coro della Staatkapelle di Berlino hanno presentato nella Plaza Mayor nientepocodimenoche la Nona Sinfonia in Re minore opera n.125 di Beethoven; insomma, quella celeberrima corale che è stata assunta a inno dell’Europa Unita (a tutt’oggi la migliore scelta politica del gruppo dei 6 arrivato a 25 con l’idea che ‘cchiu simmo, ‘cchiu belli parimmo e ‘cchiu ricche ce facimmo, comm’a chilli american’ ‘e sfaccimm’). Dirigeva Daniel Barenboim, nientepocodimenoche.

La piazza era gremita e noi siamo arrivati un po’ in ritardo (noi eravamo una serba, una perugina, un siriano y este servidor que aquí os está escribiendo ahora). I musicisti li vedevamo di sghimbescio, ma avevamo giusto di fronte Filippo III, orgoglioso sul suo cavallo perennemente intento nell’atto di incedere con lo zoccolo sinistro sollevato maestosamente dal suolo (come usano fare i cavalli regali).

Nonostante la posizione sfavorevole, siamo stati subito avvolti dalla gioia della musica. Sul finale, in tutta la piazza riverberava un’onda di emozione che si è concretizzata in un lungo applauso che il maestro Barenboim non ha voluto coronare con un bis (era molto sudato, il caldo di Madrid è un padre implacabile che non fa distinzione tra talenti ed incapaci).

Madrid, dicevo, offre molto…, ma non è stato sempre così. Immaginatevela dopo la guerra civile (non meno incivile delle altre), quando ancora risuonano le bombe e la desolazione.


INSOMNIO

  Madrid es una ciudad de más de un millón de cadáveres (según las últimas estadísticas).

A veces en la noche yo me revuelvo y me incorporo en este nicho en el que hace 45 años que me pudro,

y paso largas horas oyendo gemir al huracán, o ladrar los perros, o fluir blandamente la luz de la luna.

paso largas horas gimiendo como el huracán, ladrando como un perro enfurecido, fluyendo como la leche de la ubre caliente de una gran vaca amarilla.

Y paso largas horas preguntándole a Dios,  preguntándole por qué se pudre lentamente mi alma,

por qué se pudren más de un millón de cadáveres en esta ciudad de Madrid,

por qué mil millones de cadáveres se pudren lentamente en el mundo.

Dime, ¿qué huerto quieres abonar con nuestra podredumbre?

¿Temes que se te sequen los grandes rosales del día, las tristes azucenas letales de tus noches?


Sono versi di Dámaso Alonso (storico eterodosso, acuto filologo e sensibile poeta madrileno nato nel 1898 e morto nel 1990). Sono tratti da Hijos de la Ira, libro pubblicato in prima edizione nel ’44.

Oso tentare una traduzione che vorrebbe funzionare anche come riattualizzazione e localizzazione critica.

Insomma, INSONNIA


Roma è una città di più di un milione di cadaveri (secondo le ultime statistiche).

A volte nella notte io mi rigiro e mi rialzo in questa nicchia in cui imputridisco da 45 anni,

e passo lunghe ore sentendo gemere l’uragano, o latrare i cani, o fluire blandamente la luce della luna.

E passo lunghe ore gemendo come l’uragano, latrando come un cane infuriato, fluendo come il latte dalla mammella calda di una grande vacca gialla.

E passo lunghe ore chiedendo a Dio, chiedendogli perché imputridisce lentamente la mia anima,

perché imputridiscono più di un milione di cadaveri in questa città di Roma,

perché mille milioni di cadaveri imputridiscono nel mondo.

Dimmi, che orto vuoi concimare con la nostra putrescenza?

Temi forse che ti si secchino i grandi roseti del giorno, i tristi gigli letali delle tue notti?


Beh, per ora mi fermo qui, a furia di scriver d’insonnia, mi si chiudono gli occhi dal sonno.