(interludio piuttosto enigmatico)
Prove di ascensione
28 domenica Ago 2005
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27 sabato Ago 2005
Posted otherstuff
inFrammenti della zia toccata e del nipote malvagio ma non troppo
Dis-corso wagneriano risciacquato tra le acque del fiume Gen(t)il(e)
Frammento della zia toccata
Ormai sono solo quello che ero e mi resta poco spazio anche per disperare.
Ho un vuoto dentro che nessuno può riempire.
Sono dentro un vuoto che non posso più riempire.
Sono solo vuoto dentro che non posso più colmare.
Una volta ci infilavo di tutto e per un attimo ero piena da volare; ci mettevo di tutto per scordare di volere.
Ma la vita qui è ferma e piatta.
E all’improvviso soffia un vento di bufera che ho paura anche a chiudere le finestre.
Quella notte mi sporsi per tirare un’anta e sentii la forza di cento uomini strapparmi verso il vuoto di fuori.
Da vuoto a vuoto.
Dio mio!
Ma neanche allora ebbi il coraggio di lasciarmi portar via.
Non è facile essere coraggiosi quando fuori infuria la bufera.
Frammento del nipote malvagio
Se fossi anch’io solo come un cane solo, sarebbe facilissimo scegliere se partire o restare, e mi allontanerei ora stesso; mi dileguerei come un’anguilla nel fiume; nessun dubbio, certo che lo farei! Mica me ne starei attaccato a queste mura scrostate ed alla puzza di carogna imputridita di una stanza in cui non lasci entrare il sole.
Io me ne andrei. Io me ne andrei ora stesso, se non fossi intrappolato come sono in una rete di relazioni che sono la vita, la mia vita. Ma tu…, a te cosa ti tiene? Perché non ti lasci dietro questa solitudine già usata. C’è tanto spazio per volare via. Perché non ti metti alla ricerca di qualche posto che possa riempire i vuoti in cui t’avvolgi e ti crogioli? Perché non te ne vai e ci lasci in pace, una buona volta?
Ripresa della zia
Facile per te che hai vent’anni e mille dolori di meno. Facile per te che hai gambe solide e cervello leggero.
Ma a me non c’è posto che mi possa ospitare. Io sono legata a queste mura come la mosca nella tela del ragno. Io sono parte della mobilia che ti lasciò tuo nonno. Sono l’armadio a specchio in cui ti rifletti. Non gettarmi via così e non avere paura di vederti come sei. Io sono le tue radici. Sono la sedia su cui ti siedi stanco ed il tavolo su cui sbatti il pugno. Sbatti il tuo pugno se vuoi. Sbatti il tuo pugno ed apri tutti i miei cassetti. Non lo vedi che sono tutta bagnata?
…
Perché mi guardi con quella faccia di cazzo?
Non capisci, non capisci!
…E poi mi chiedi cosa mi trattiene, brutto stronzo! Sei più stupido di tuo padre e di quel coglione di tuo nonno. Porco cazzo, siete voi il vuoto che ho intorno, siete voi a non sapermi riempire. Sei più stronzo di tuo padre e di quel coglione di tuo nonno, che non mi hanno mai capito e non hanno mai capito niente. Niente, niente ed il resto di niente!
Non lo vedi che fremo ed ho fame della sferza che contieni? Prendimi tutta e smettila di darmi consigli scipiti e già usati. Prenditi tutto, invece di sparlare come il nonno e come il padre che ti seminò nelle cosce carnose di quella puttana di tua madre. Inseminami tutta ed insegnami a volare, invece di ripetere parole, parole e parole colme di senno e prive di senso.
Ripresa del nipote
Smettila, smettila! E resta se vuoi. Taci, taci! Ti farò zittire io tappandoti la bocca che non sfiorò marito né zio.
Dio mio, ci perdonino i padri! Quello che non fecero loro, lo farò io. Ora stesso.
Fiato alle trombe ed in basso il sipario.
Qui non c’è più finzione che tenga, o ci trattenga.
[Si spengono le luci, una porta si chiude e si abbassa il telone rosso.
Mentre lo abbasso, mi sento ogni istante più fesso.
Anche adesso.
Tutto il resto è sesso.]
20 sabato Ago 2005
Posted texticulos, versiculos
in
Was sind das fur Zeiten, wo
Ein Gesprach uber Baume fast ein Verbrechen ist
Weil es ein Schweigen uber so viele Untaten einschliesst!
Quali tempi sono questi, quando
discorrere d’alberi è quasi un delitto
perché su troppe stragi comporta silenzio.
Bertolt Brecht, A coloro che verranno, 1938
I
Gli alberi in fila sul ciglio della strada, una folata di vento spazza via un foglio tra le foglie, un camion che lascia nell’aria un rumore di ferraglia. Sono le cinque del mattino ed io passeggio verso l’alba, mentre tu dormi tranquilla tra le lenzuola sfatte. Forse ora tendi una mano verso il mio cuscino e ti sorprendi di trovarlo vuoto; oppure distendi le braccia ed occupi diagonalmente tutto il letto. Magari all’improvviso sei assalita da un attimo di contentezza, e non sai ancora perché. Mentr’io passeggio verso l’alba prendendo a calci le foglie ad una ad una, indifferentemente.
II
Gli alberi in fila sul ciglio della strada, di fronte a me l’alba, mi chino per prendere in mano un foglio tra le foglie. Si calma il vento. Rallento il passo, dispiego il foglio e mi soffermo sulla scrittura che lo attraversa diagonalmente. Osservo i caratteri come di fronte ad un disegno astratto o a una foto fuori fuoco. Non provo neanche a leggere. Come se si trattasse di una lingua sconosciuta.
—-
A quest’altro punto, mi impunto, mi blocco sull’ultima frase, mi sento fuori fase e da là fuori mi grido dentro altri versi che vengono da non so dove:
“Dici di essere un libro aperto per me
ma so che dietro hai un mondo di fogli
che non mi fai sfogliare. […]
Figure cuneiformi, astratti geroglifici,
linee sconosciute con arcane illustrazioni […]
E dici di essere un libro aperto…”
17 mercoledì Ago 2005
Posted da lontano, otherstuff, vita civile
in
La scorsa settimana, in un giorno la cui data non voglio ricordare, sono ufficialmente invecchiato di un anno. Come mi capita spesso, ho celebrato il trapasso verso l’anno nuovo lontano da casa, con persone appena o da poco conosciute. Tipico per chi è nato nell’emisfero boreale sotto le stelle caduche di Agosto.
Ma non è questo il punto.
Se ne scrivo qui, ora, è per raccontare quanto sia stata bella quella con-celebrazione bella aldilà di ogni aspettativa; il fatto che i miei affezionati lettori possano essere indotti a formularmi posticipati auguri (dei quali eventuali, anticipatamente, ringrazio) è solo un effetto collaterale in-desiderato.
Ma veniamo al fatto.
Mi accompagnavano, intorno ad un paio di tavolini rotondi di un bar madrileno, amiche e compagni magrebini, iraniani, lituani, siriani, spagnoli, serbi e italiani (li cito da sinistra a destra a partire da este servidor, e, per l’amor del cielo, spero di non aver dimenticato nessuno). Tutti hanno condiviso con me mari di birra gelata (come si usa qui a Madrid) e chupitos di 999, un liquore d’erbe made in Lithuan (in verità, Simo non ha bevuto neanche un goccio, perché lui osserva alla lettera le prescrizioni del versicolo del Corano che proibisce bevande che alterino gli stati di coscienza; mentre gli altri musulmani, almeno in questo, si sono mostrati molto meno intransigenti e più gaudenti; o forse avevano più senso della storia, meno personalità, più personalità o più sete). In fondo, non abbiamo fatto altro che chiacchierare del mondo e di noi condendo la realtà con aneddoti e facezie; ma si è creato una bella atmosfera, di quelle in cui ognuno annulla temporaneamente il peso dei propri valori assoluti, perché risalti quanto siamo uguali, la buena gente, e quanto siano fottutamente diversi da noi i politici hideputas (contrazione di “hijos de puta“), i politici figli di puttana, dicevo, che si impegnano a sottolineare le differenze tra un naso dritto e uno curvo per farci sbranare come cani da combattimento. “Todos iguales, todos diferentes“, diceva un vecchio slogan che ho sentito una ventina di anni fa proprio qui o in qualche altro posto della penisola a forma di pelle di toro tendida en el sentido de su longitud de occidente a oriente y en el sentido de su anchura del septentrión al mediodía (cfr. Strabone).
D’ora in avanti, mi sono detto ad alta voce, nessuno di noi potrà più restare indifferente se gli bisbiglieranno dalla televisione che c’è stato un terremoto in Serbia o un’invasione dell’Iran. Nessuno di noi potrà più sentire estranee le vicende dell’altro, dopo aver condiviso tanti bicchieri colmi di sentimenti e idee. E se qualcuno lo dimenticasse, che si dimentichi, da qui in poi, anche di far parte della razza umana, e se ne vada a pisciare sui muri e a mangiare con il grugno infilzato nella ciotola. Se ne vada a leccare prono e affettuoso la catena che lo rende schiavo, se così gli piace. Oppure, nel crogiolo dell’oblio, si dimentichi pure di alimentarsi e muoia d’accidia come chi porta a spasso il suo fottuto cadavere.
12 venerdì Ago 2005
Posted otherstuff
inundici otto cinque – Stamattina
mi vesto di valori assoluti,
scendo di casa, aspetto il treno
e mi lascio scoppiare nel metrò.
01 lunedì Ago 2005
Posted da lontano, immagini
in
Antes que el sueño (o el terror) tejiera
Mitologías y cosmogonías,
Antes que el tiempo se acuñara en días,
El mar, el siempre mar, ya estaba y era.
(Jorge Luis Borges, El Mar)
Nel periodo estivo, la gran parte della penisola iberica soffre grandi problemi di siccità, ed io, quando sono lontano dal mare, soffro la mancanza dello scroscio delle onde e del vento che soffia sull’acqua i suoi racconti di marinai e terre lontane.
Immaginatevi come devo sentirmi ora che mi trovo da un mese al centro esatto di questa meravigliosa e secchissima pianura. (Via via, non voglio farmi compatire. Di solito non sono di quelli che “si lamentano e fottono”. Considerate le parole che precedono questa parentesi come un espediente retorico un po’ affrettato per introdurre il seguente discorsetto e qualche foto vacanziera).
La vita che si riversa per le strade e la “buena gente” che non manco mai di incontrare da queste parti, mi aiuta ad affogare tra le parole la mancanza di onde e distese d’acqua. Ma, per Giove, quanto è scarso il Manzanares!
Meno male che un po’ più in là scorre il Tago, quel Tajo (con j aspirata) che va a morire in Atlantico, dalle parti di Lisbona, dove lo chiamano Tejo (con la “j” sibilante postpalatare sonora, quasi come la “g” di gente toscana). E meno male che seguendo il suo flusso azzurro sulla cartina, tre amici e io abbiamo pensato la scorsa settimana di trascorrere immersi nelle acque del Tajo la festa nazionale di Santiago (patrono di Spagna e matamoros su bianco cavallo bianco).
Esplorando esplorando, abbiamo deciso di dirigerci verso un posto chiamato Mar de Castilla, a un centinaio di chilometri ad est di Madrid, tra Guadalajara e quell’Alcarria che Cela diceva essere “un hermoso país dónde la gente no le da la gana ir“; e lo diceva con ragione, visto che, nonostante l’esodo del giorno di Santiago, non abbiamo trovato traffico nel percorso e neanche un’anima viva quando ci siamo immersi nel bacino di Entrepeñas.
Nell’affollata Spagna, quelle acque limpide e solitarie sembravano chiazze azzurre spruzzate da un dio capriccioso sul giallore di un panorama arido e desolato da “paisaje para después de la batalla” -come recita il titolo di un libro di Juan Goytisolo che casualmente portavo in gita con me in quel fausto giorno di festa.