Tra qualche ora calerà la Notte bianca di Napoli. Nell’attesa, mi intrattengo raccontandovi una riuscita rappresentazione de Le intellettuali di Molière per la regia di Arturo Cirillo. Ho assistito lo scorso mercoledì alla prima al Nuovo Teatro Nuovo, ma trovo solo ora un po’ di tempo per discettarne e rievocare alcune delle emozioni che mi ha suscitato.
Ero partito con lo scetticismo di chi teme che si troverà di fronte ad un allestimento salottiero di sapore archeologico. Ma è stato bello potersi ricredere di scena in scena.
Le intellettuali è uno spettacolo denso e buffo, basato su una classica commedia di Molière (Le femmes savantes) che la regia, la magistrale traduzione di Garboli e la recitazione hanno contribuito a riportare in tutta la sua modernità senza ricorrere ad inutili riattualizzazioni (tipo Don Chisciotte in panni no global, Otello talebano e Faust in gonnella) o eccessivi anacronismi (a parte le brioche scartocciate da bustine di plastica e la musica di accompagnamento che mette insieme clavicembalo ben temperato e chitarre elettriche distorte).
Nelle note di regia, Cirillo specifica opportunamente che “lo spettacolo non sposa una tesi, o un partito, si cerca di stare dalla parte di tutti e contro tutti, perché grazie alla grandezza di Molière ogni personaggio ha le sue ragioni che convivono con una bella dose d’ipocrisia. I moventi sono nobili i fini ignobili.”
Se vi fate una passeggiata al Teatro Nuovo di Napoli prima del 6 novembre, vi troverete al cospetto di un bel testo già di per sé pieno di spunti polemici sulla guerra dei sessi, il valore di uso e di scambio della cultura, il potere del sesso ed il sesso del potere, le acrobazie e le ambiguità del linguaggio, il fascino irresistibile della moda, la pedanteria, l’arroganza, l’arrivismo e l’ignoranza; il tutto rappresentato a un passo frenetico e convulso che ravvicina la parola di Molière ai ritmi ed ai (non-)sensi della contemporaneità.
La scenografia, essenziale ed allusiva, è fondata su grandi specchi deformanti usati in funzione di paravento e quinte; la gestualità è stilizzata, sincopata e coreografica; la recitazione, piena di citazioni, che vanno dalle mani portate alla fronte in deliquio à la Francesca Bertini alla parlata trattenuta e incespicata in stile Pietro De Vico. Il tutto pervaso da una teatralità che allude, come sempre in Molière, alla teatralità della vita stessa (doubling, travestimenti, marionettismo, ritmo serrato, passi di danza e tempi comici che nascondono sfondi di tragedia).
Lo spettacolo funziona come un bel motore di riflessioni profonde rappresentate con leggerezza delirante, ed alla fine nessuno ne esce vincente: né gli uomini (arrapati, arrivisti e arruffoni) né le donne (arrendevoli, velletarie e tiranne), né gli intellettuali (falsi e vacui) né i potenti (smaliziati e machisti); ciascuno sembra guidato dalla sua voglia di affermazione e da una scaltra volontà di potenza che annulla l’arbitrio altrui in un serrato duello verbale. In mezzo a tante parole, la scena di una schermaglia amorosa scandita dal ritmo di una sculacciata l’ho trovata perfino eccitante -anche se gli attori erano supervestiti in abiti e parrucconi à la Gatta Cenerentola sotto cui sudavano vistosamente.
Il regista, Arturo Cirillo, interpreta anche la parte di Trissottino, un intellettuale della tradizione dei Tartufo, uno di quei vacui uomini di cultura capaci di irretire donne saccenti e insoddisfatte di ogni età (tutti eredi delle vacue tirate del Dottor Balanzone, con tratti che si ritroveranno più tardi nel Mr. Casaubon di George Eliot, nel Rudin di Turgeniev e nell’estensore delle presenti note).
Bravi anche gli altri interpreti, impegnati in una recitazione acrobatica, citazionista e corale nella quale spiccano le voci di Giovanni Ludeno, nella parte del padre, e Monica Piseddu, che impersona magistralmente gli eccessi di Amanda, la figlia filosofa (nonostante un paio di innocenti papere forse indotte dalla tensione della prima napoletana). Nella edizione di Molière la parte della madre (Filaminta) era interpretata da un uomo, qui è il ruolo di Belisa (la zia zitellona) che viene recitato dall’attore Rosario Giglio; mentre nel finale è lo zio Aristo a fare da deus ex machina travestendosi da notaio, e con questo giungono a tre i ruoli interpretati da Michelangelo Dalisi: zio/notaio e Vadius, un poetastro noioso e vendicativo che in una buffa scena passa dal panegirico del collega Trissottino all’invettiva denigratoria.
Ovazione finale del pubblico generoso (tra cui, volentieri, mi includo).