La madre è sempre una e sola,
i padri, per tutti, tanti
(alcuni maschi e altre femmine,
qui il sesso non importa).
Nulla tolgo all’inseminatore
che per primo mi generò,
nutro per lui affetto profondo
perché fu padre primo e secondo,
ma so che poi sono venuti in molti
con in altri solchi il seme
(potrei parlar anche di speme
o frapporre una erre
tra spe e me,
ma non voglio divagare
né risultare melenso o volgare,
che già Vergara lo sono da me –
per parte di padre, si intende).
“Si può mai essere così coglioni”,
canta uno nei ricordi
“da creder possibili poteri buoni?”,
e cerco di far seguire
anche alle sue parole
le migliori intenzioni
di cui lastrico i solchi.
Ancora prima un altro disseminò
che nulla di umano mi è estraneo.
“Ama il tuo prossimo come te stesso
e fagli ciò che vorresti ti venisse fatto
in materia di gentilezza, furore e sesso”,
m’arrivò così un’altra semente,
e non è poco se non è niente.
Giunse un mattino il germe del fare
da una banda di padri muratori,
con storie di nonni e narratori,
per non dire di naviganti e attori,
che passarono di mare in mare,
e di male in male, senza a porto o verità
tendere o approdare;
perché dà più gusto il rum da tracannare
che un nemico in cui affogare.
Ma qui mi fermo
e attendo altro seme, ed altra speme,
che mi/ci possa fecondare,
perché se mi semini, semini il mondo,
e se t’insemino, insemino il mondo,
non solo te
(ma se t’è piaciuto il flusso
sei solo tu la troia senza perdenza;
la terra se ne sta là desolata e muta,
come prima del tempo).
gaetano vergara
(c)(c) 2006
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