Le 5 rose di Annibale, Francesco e Arturo (per non parlar di Monica)
Era l’inizio degli anni ’90. Annibale Ruccello era morto in un incidente automobilistico da tre o quattro anni. Francesco Silvestri mi invitò a cena da lui. Mentre cenavamo (o dopo cena, questo non lo ricordo bene), assistemmo alla versione cinematografica di Le cinque rose di Jennifer. Lui ne era il protagonista. Il film, diretto da Tomaso Sherman, veniva da un discreto successo di critica e pubblico ai Festival di Locarno, Barcellona e Annecy, ma la distribuzione nelle sale fu esigua. Mi emozionò molto quella visione. E, se è possibile, mi emozionò ancor di più sentire Francesco rievocare Annibale e la prima rappresentazione teatrale di quell’opera (al San Carluccio, mi pare), dove l’autore faceva la parte di Jennifer e Francesco quella di Anna.
Le cinque rose di Jennifer è la dolente storia di un travestito napoletano, tutta vissuta in una stanza, con la radio quasi sempre accesa e il telefono quasi sempre squillante (quasi sempre, perché quando il telefono squilla la radio si spegne, e quando le telefonate si chiudono la radio torna a suonare).
Tutta la pièce è incentrata sulla protagonista e sulla sua ossessiva attesa di Franco, un uomo del Nord conosciuto una sera in discoteca e da allora trasformato in un simulacro di ragione di vita (un volto immaginario in una cornice tragicamente vuota). Ogni volta che alza la cornetta, Jennifer pensa che sia Franco, ma ogni telefonata segna una ulteriore straziante delusione.
Non dirò molto di più della trama dell’opera, perché le 5 rose ha la struttura di un giallo psicologico: rischierei di rovinare l’effetto sorpresa a quanti assisteranno alla rielaborazione che sta portando oggi in scena Arturo Cirillo.
Quello che aggiungerò è che se lo spettacolo passerà per le vostre città, varrà la pena allontanarsi da questo monitor, spegnere la TV, lasciarsi alle spalle le porte di casa e correre al teatro.
Cirillo fa una rilettura dell’opera di Ruccello in cui si accentua il carattere introspettivo dell’azione scenica (di ogni azione scenica, mi verrebbe da dire, se non temessi di correre il rischio di assolutizzare una visione): è come se noi assistessimo a una rappresentazione dei ferventi desideri, delle solitudini atroci, delle ansie e delle angosce di Jennifer, senza che nulla di quanto vediamo e ascoltiamo abbia un corrispettivo nella realtà che circonda lei e noi per i 75 minuti di durata della rappresentazione. Fino alla fine, non sarà chiaro allo spettatore attento se l’azione stia avvenendo solo nella mente di Jennifer o se si stia svolgendo davanti ai suoi occhi, se quella radio e quel telefono che invadono incessantemente lo spazio acustico siano il frutto della sua solitudine o se sia piuttosto la realtà che bussa fuori da quella stanza angusta. (Gli spettatori distratti vedranno solo quello che si muove sulle tavole del palcoscenico, perché gli spettatori distratti solo questo vedono e nulla più di quello che sentono sentono).
Oltre alla voce della radio, in scena compare solo un secondo personaggio, Anna, un altro travestito, che nella rilettura di Cirillo diventa sempre più marcatamente un alter ego di Jennifer. In realtà, che si tratti di un suo riflesso (dialettico e contundente quanto si vuole, ma pur sempre un suo riflesso) risulta chiaro fin dalla prima scena, quando vediamo Jennifer con la borsa della spesa in mano passare davanti a degli specchi che proiettano l’immagine di Anna. Più tardi, nella sua terza e ultima apparizione, vedremo Anna vestita con l’abito nero luccicante e chicchissmo che Jennifer indossava qualche minuto prima (peraltro, nell’allestimento di Arturo Cirillo il ruolo di Anna è interpretato dalla bravissima Monica Piseddu in un gioco iperteatrale che mette in scena un travestito impersonato da una donna).
La recitazione è densa e intensa, eppure misurata, se si pensa a tante caricature di travestiti e femminielli che hanno imperversato tra i teatri e gli show nostrani. Da brivido la scena in cui Arturo/Jennifer fa il playback della voce di Mina sulle note di Ancora ancora ancora. Il suo corpo è tutto un fremito di emozioni che vibrano con la forza della verità esponenziale del teatro. Un fascio di neuroni percorre tutta tutta la platea, come se una scheggia di vita ci stia scuotendo ad uno ad uno dai piedi alle tempie.
Ed il finale arriva improvviso come uno schiaffo, anche per chi come me conosceva già la trama del testo di Ruccello.
Un sola piccola notazione critica. Francesco Silvestri era mooolto più intonato di Arturo Cirillo quando cantava sulle voce di Patty Pravo, Romina Power, Mina e Milva canzoni come Bambola, Caro amore (?), Se perdo te (?), Ancora ancora ancora, Bugiardo e incosciente, Quattro vestiti (ne trascrivo qui i titoli ad uso e consumo di un’amica che ha assistito allo spettacolo prima di me e mi ha chiesto di indicarle tutte le canzoni che riconoscevo e ricordavo). Ma forse ricordo male, forse Francesco nella versione cinematografica non cantava affatto, forse confondo il film con un altro suo spettacolo fatto di telefono, canzoni, struggenti emozioni e laceranti assenze (si chiamava Senza orgoglio né pudore -mi pare- e da una serie di discussioni su quello spettacolo ho imparato ad apprezzare un’arte che disconosce l’ironia e tende a coinvolgere lo spettatore nei sensi, nello stomaco e nel cuore prima che nella ragione).
E poi la rilettura ipnotica di Fin che la barca va ascoltata sul finale con la sua sola voce riverberata, riscatta anche il Cirillo canterino.