Assistere ad un concerto di Bollani al piano solo è come scivolare giù dalle pendenze delle montagne russe e poi risalire lenti prendendosi il tempo di vedere il panorama, sempre cangiante sempre intenso, e passare senza soluzione di continuità (a parte studiate pause sul tempo) da una nenia svedese ai ritmi sudamericani, dai cartoni animati al ragtime, dal riso alla commozione, e poi ricadere di nuovo giù a precipizio con un grido in gola fatto di gioia e ammirazione e l’incapacità di restare fermi sulle poltrone.
Il concerto di ieri all’Augusteo di Napoli si è aperto con una versione di Caravan che nell’intro sembrava riscritta dal Thelonious Monk più geometrico (Epistrophy, Misterioso, Evidence), ma poi si appoggiava su ritmi reiterati che più che a Ellington rimandavano (rimandavano me) ai toni rapsodici delle Odi al Duca di Abdullah Ibrahim (non so se Bollani abbia mai avuto modo di sentire Impressions on a Caravan di Ibrahim; non lo so e non mi importa saperlo; a me importa che sentendo l’uno risento l’altro e che entrambi fanno rivivere una sfaccettatura di un riferimento che è esterno ad entrambi ed è anche dentro di loro e dentro me).
Il secondo brano del concerto, eseguito con grande concentrazione, era tratto da quel pozzo di standard che è il musical My Fair Lady.
A seguire, simpatiche chiacchierate col pubblico, istrionismi, emozioni intense, imitazioni buffe e sapienti esecuzioni tratte da un vasto repertorio che abbraccia musica leggera, folcloristica, classica e jazz. Nessun tempo per annoiarsi (anche se, incredibilmente, alla mia sinistra, già al primo brano, un anziano signore russava rumorosamente e fuori tempo nonostante le mie frequenti gomitate e i calci agli stinchi (e alla mia destra se la ridevano di gusto)).
Esilarante la virtuosistica interpretazione del Choclo, il tango dei tanghi, con conclusione in stile carillon (nella parte finale del brano, Bollani mette in scena la delusione per la mancanza di note più acute di quelle offerte dalla tastiera, poi mima il movimento del carrello con la macchina da scrivere quando si è giunti a fine rigo, va “da capo” e continua a suonare El Choclo nel registro medio).
Commovente la rilettura della composizione di Modugno-Pasolini Che cosa sono le nuvole già cantata nei Visionari (Label Bleu, 2006) accompagnando la voce con un arpeggio della sola mano sinistra, e qua e là poche battute suonate anche con la destra. (Più tardi, tornerà a suonare con una sola mano alla volta, utilizzando l’altra per bere o fare gesti per parodizzare la musica facilona ed effettistica di Ludovico Einaudi). In mezzo, composizioni sue, di Pixinguinha e di Jobim (non poteva di certo mancare il cannibalismo brasiliano nei gusti di un musicista così eclettico e onnivoro).
Nel bis, assistiamo alla felice ripetizione di uno show di Bollani ormai classico consistente nell’inanellare brani a richiesta del pubblico (questo sfumare da un brano all’altro citando frasi e melodie come fossero pattern è una caratteristica jazzistica con cui Bollani strizza l’occhio all’ascoltatore attento anche nella sua ultima incisione ECM, dove, per esempio, nel bel mezzo di una A media luz tanguera è possibile ascoltare una frase bossanovistica di Desafinado). Sotto i nostri occhi e nelle orecchie incredule si dipanano surreali suite che mettono insieme Heidi, Gleda, O Sole mio, Rhapsody in Blue, Mi ritorni in mente, Maple Leaf Rag e una serie di composizioni immaginarie allo stile di Paolo Conte, Franco Battiato e Ludovico Einaudi. Un vero spasso.
Nel secondo bis una commovente Anema e core per salutare lo strepitante pubblico napoletano.
Ed ora, una piccola considerazione in appendice.
Si vede che nei geni di Bollani ci sono Carosone e Armstrong (non a caso, non di rado, gli sono state rivolte le stesse accuse di esibizionismo e gigioneria che si rivolgevano mezzo secolo fa al genio di New Orleans capace di far ridere ed emozionare tanto il pubblico jazzistico quanto quello di Tin Pan Alley o Sanremo). Ma io tra quei geni vedo volteggiare e fare capriole anche a spiritelli meno noti che riconducono inequivocabilmente al talento del grande Grock.
Come, non sapete chi è Grock?
Grock (al secolo Adrian Wettach; 1880–1959) è, per l’appunto, il padre putativo di Stefano Bollani, dei Les Luthiers, dei collettivi di Willem Breuker e delle Bande Osiris (con cui il nostro ha spesso suonato); un geniale clown musicista (pare suonasse 14 strumenti), passato dalle piste circensi ai palcoscenici teatrali, omaggiato da Chaplin, stracitato da Tati, inventore di un one-man-show che era una perfetta macchina per far ridere, un dispositivo svizzero per l’orologeria (non a caso il padre era svizzero ed orologiaio).
Il buon Grock, tra le altre cose, faceva un numero, imitatissimo, che mi pare una metafora di non so bene che: accingendosi a suonare un pianoforte a coda, e trovandosi seduto lontano dalla tastiera, avvicinava il pianoforte allo sgabello.
In questi giorni tante volte ho avvicinato anch’io il pianoforte allo sgabello e poi ho tirato entrambi, sgabello e pianoforte verso di me. Ma questa è un’altra musica e un’altra allegoria.
Salvador si credeva un padreterno e chiamò i suoi figli Adamo ed Eva e sua moglie Maria. Presto, in un alito di tempo, Adamo ed Eva perpetrarono la progenie e gli diedero stirpi di nipoti e pronipoti di diversa foggia e colore.
Le letture narrano che qualche millennio più tardi, sotto i suoi occhi onnipresenti, Maria tradì Salvador con un carpentiere a nome Giuseppe. Fu a quel tempo che venne alla luce il terzogenito, e lo chiamarono Salvatore come Salvador.
Si dice che Salvatore fosse tutto suo padre, tanto che di tanto in tanto v’è qualcuno, o sono in tanti, che lo confonde con lui e gli si rivolge implorante scambiando il progenitore col discendente o facendo di cotanta erba un fascio. Eppure Maria non seppe mai se quell’aulentissima creatura fosse figlia di Giuseppe o di Salvador. E non si convinse nemmeno quando Gabriele l’aviere venne a dirle che Salvatore era del divino marito e non del carpentiere.
Il fatto è che era molto tempo che la pia Maria non faceva conversazione né con l’uno né con l’altro. Si negava caparbiamente ad entrambi da quando il primogenito di Eva aveva ammazzato suo fratello, e lei era quasi impazzita dal dolore e aveva deciso di mettere un diaframma tra sé e il mondo. Non avrebbe voluto per nessuna ragione perpetrare quella razza, e aveva definitivamente chiuso le cosce a qualunque uomo da oltre venti mesi. Giaceva a giorni alterni con Giuseppe e Salvador, ma ad entrambi si negava furiosamente.
Al principio pensò che l’avevano penetrata di notte, nel sonno, a sua insaputa, e decise di uccidere come Medea quel figlio indesiderato gettatole dentro e strappatole dal ventre senza alcuna autorizzazione o consenso. Poi, catturata da un sorriso, cominciò ad affezionarsi a quella cosa animata, e decise di tenerla con sé, di nutrirla e allevarla. E Salvatore portò la croce della vita invocando e spergiurando suo padre senza mai sapere chi egli fosse in verità. E in verità, in verità vi dico, neanch’io saprei cos’altro dire, e mi nascondo dietro la foglia del mio fico.