con qualche foto rubata ieri
Il Pomigliano Jazz Festival è giunto alla sua dodicesima edizione di concerti gratuiti suonati a tre al giorno nel bel parco cittadino. E anche quest’anno programma ricco e mi ci ficco.
Ieri sera, inaugurazione festivaliera con grandi punte di interesse e qualche momento di emozione intensa.
Il primo concerto in programma è stato la presentazione dell’ultimo cd prodotto da Itinera, l’etichetta discografica di Pomigliano Jazz.
Si tratta di The Gray Goose, un progetto ispirato al songbook di Hanns Eisler e Bertold Brecht e realizzato da un inedito quartetto costituito da Francesco D’Errico al pianoforte, Claudio Lugo al sax soprano e ai laptop, Don Moye alla batteria e ai cori e Hartmut Geerken, anziano folletto tedesco dedito a recitare brani suoi e di Brecht e a suonare, suonicchiare e martirizzare strane tastiere e vari strumenti etnici, tra cui uno zummarah egiziano a doppia ancia e un cordofono che percuote come un ossesso con un battente per timpano.
Tutto il concerto è permeato di teatralità e di caratteristica gestualità dionisiaca da avanguardia free. D’Errico intreccia i suoi accordi alle suggestioni sonore di Lugo ed alle note, ai rutti e ai singulti prodotti dalla voce e dagli objets trouvés di Geerken. Nell’ultimo brano, si alza per “preparare” le corde del pianoforte a coda (che più tardi riceve un’altra gradevole sferzata da Gaslini che applica sulle corde un foglio ottenendone un suono para-chitarristico). Grande fisicità esprimono sul palco tutti i musicisti, ma soprattutto Don Moye e Lugo, che vediamo contorcersi al sax in consonanza con gli arpeggi che suona inserendo sapientemente note del registro grave che fanno da perno ad evoluzioni ipnotiche e aggressive che ricordano Ayler, Garbarek e Zorn.
I testi di Brecht sono scelti tra i più sensibili ai temi di denuncia sociale, e scandalizza e impressiona l’attualità di certi passaggi (anche quando il quartetto non si preoccupa di attualizzarli facendo il verso a Condolezzi Risi Risi o parlando dei barbari d’America). Particolarmente suggestivi una Solidarity Song, un The Poplar Tree on Karlplatz, una Praise of illegal Work, una Zuppa ed il brano sull’invincibile e immangiabile papera grigia che dà il titolo all’intero progetto.
Convince poco qualche intervento un po’ episodico di Geerken alle percussioni, ma nel complesso il concerto è interessante e tocca vette emozionanti e momenti di grande impatto sonoro nei quali il drumming di Don Moye lascia ricordare le performance più trascinanti dell’Art Ensemble of Chicago, che insieme alle avanguardie europee ed all’ultimo Don Cherry paiono essere un imprescindibile punto di riferimento del gruppo. (Mentre scrivo sto ascoltando il cd del progetto che ho acquistato stesso ieri al PMJ Festival: gli strumentini suonati da Geerken, come mi aspettavo, sono più integrati al contesto, anche se, naturalmente, come in ogni documentazione sonora della musica free si perde quel puzzo di sudore e la traspirazione di quella gioia di creare davanti al pubblico che può passare solo attraverso la dimensione live).
Tra gli spettatori di ieri molte facce annoiate e qualcuno che impreca tra i denti contro il tedesco (che ci mette la faccia, la voce e la calata teutonica, e sembra pure essere il frontman del gruppo. D’altro canto, cosa c’è di più facile che sparare su un tedesco urlante e infoiato?)
A seguire, sempre sul palco centrale del Parco di Pomigliano, il Giorgio Gaslini Chamber Trio.
L’imprescindibile maestro del jazz italiano è accompagnato da due validi musicisti che sarebbe riduttivo considerare una semplice sezione ritmica, due giovani roberti (Roberto Bonati al contrabbasso e Roberto Dani alle percussioni), cui vengono affidati anche importanti momenti solistici.
Dani siede dietro una piccola batteria con appeso un triangolo e al suolo qualche percussione metallica. Il suo è un modo di percuotere pelli e piatti molto particolare, altamente espressivo, con tocchi raffinati scelti con sapienza alternando bacchette, spazzole, battenti e mani. L’uso suggestivo e coloristico dello strumento, la raffinata concezione della dinamica delle percussioni, l’originalità dell’approccio a pelli e piatti e, soprattutto, la peculiare capacità di suonare i silenzi mi hanno fatto ricordare le migliori performance del buon vecchio Joey Baron.
Bravissimo anche Bonati, contrabbassista di chiara estrazione classica che mostra di conoscere lo strumento in tutti i suoi risvolti alternando al tradizionale pizzicato jazzistico un sapiente uso dell’archetto ed intrecciando con scioltezza le sue note alle linee disegnate dalla mano sinistra del maestro Gaslini.
Le composizioni che ci hanno fatto ascoltare ricalcano l’idea di Gaslini della “musica totale”, in cui tutta la linea del linguaggio jazz, dal blues delle origini al free più radicale, si incontra con scioltezza con la tradizione classica europea senza mai snaturarla né snaturarsi. E neanche si sdegnano incontri con la musica pop o con il rock; perché, come ricorda il popolare adagio, l’unica vera distinzione è tra la musica buona e quella cattiva, e siccome dal letame nascono fiori, il buono può nascere in ogni campo e in ogni ambito dell’umana creatività; e così, disgraziatamente, anche il maleodorante e il cattivo (anche se io non so fino a quando potremmo aspettare qui a Napoli e dintorni la nascita dei fiori dal lerciume che ci inonda le strade; ma questa è un’altra storia, e Pomigliano ieri sembrava pulita come una cittadina dell Scandinavia).
Una scorsa al repertorio fa fede di questa concezione eclettica e dell’assoluta mancanza di steccati e confini tra note e note: si va da una suite dello stesso Gaslini (Africa Libera, Addis e Homo Meccanicus) a Yucatan di Sun Ra e a Batterie di Carla Bley; per poi passare al capolavoro dei Doors Light my fire a alla Sicilienne di Fauré e concludere con un divertente Latin Genetics di Ornette Coleman e una Fabbrica della Musica sempre composta dal grande maestro milanese.
A me il concerto è piaciuto molto, a tratti mi sono proprio arrecreato, entusiasmato, appassionato. E questa volta anche il resto del pubblico è apparso più soddisfatto.
Ma mai quanto ha goduto dopo, spostandosi al palco dell’invaso del parco pomiglianese, per esporsi alla musica facile facile da ascoltare ma di funambolica esecuzione e molto ben arrangiata del quintetto di Roberto Fonseca.
Be’, ascoltando questi musicisti presentati come la nuova generazione del Buena Vista Social Club cubano, mi sono divertito anch’io; sebbene non abbia resistito fino alla fine.
Ho apprezzato soprattutto i primi brani, quelli in cui ancora le congas non marcavano i ritmi più tipicamente e ritritamente caraibici e le armonie sembravano voler fare il verso alla scale arabe e napoletane.
Virtuosi tutti i musicisti, da Javier Zalba (clarinetto, flauto, sassofoni) a Omar González (basso), Emilio del Monte (congas e altre percussioni) e Ramsés Rodriguez (batteria). Molto bravo il leader, anche alla voce milton-nascimentiana che creava un’atmosfera oleosa alla Pat Metheney group. Ma si è fatto tardi, e io cominciavo ad avere sonno. E a una certa ora, niente meglio che il silenzio.
[Le immagini da ferme: 1, 2, 3, 4, 5]