cadiamo, cadiamo, precipitiamo giù da grattacieli, alte rupi e nuvole, ma finché non ci sfracelliamo al suolo, non ci siamo fatti ancora niente, e c’è sempre la speranza che ci spuntino improvvisamente le ali, o che il suolo si faccia cielo e il cielo mare in cui nuotare e naufragare senza paura di cadere, cadere, inesorabilmente sprofondare tra le gocce della pioggia torrenziale e la grandine che si frantuma sull’asfalto e si fa acqua perché acqua era che si asciuga al sole e torna niente come la cera sulle ali di Icaro che si acquattavano tra le righe di questo testo fin dalle prime parole e sono venute fuori ora che lentamente verso la fine del periodo cadiamo, precipitiamo e non ci siamo fatti ancora niente, perché niente fanno le parole che si asciugano da sole al sole, e nella testa non ti resta altro che la certezza che, comunque vada, ogni giorno, ogni momento, cadiamo, cadiamo e finché non ci sfracelleremo al suolo non ci saremo fatti ancora niente
17 Agosto, Vasto, nella piazza antistante il Castello Caldoresco, dopo la proiezione del Robin Hood disneyano, qualcuno comincia a volgere qualche sediolina verso un pianoforte a coda allontanandola dallo schermo di uno dei quattro palcoscenici a cielo aperto del Vasto Film Festival. Per imitazione, io, la mia compagna e altri facciamo lo stesso. Poco dopo, da una libreria, alle spalle della pedana e di fronte allo sparuto pubblico rimasto in piazza, vengono fuori i tre musicisti suonando una tammorra, un tamburo africano e qualche percussioncina latinoamericana. A ritmo lento ognuno prende il suo posto, gli spettatori da una parte e dall’altra Leonardo De Lorenzo from San Giuseppe Vesuviano alla batteria, il capogruppo Nicola Andrioli al pianoforte e Morena Brindisi accanto al microfono da cui comincia a intonare il canto continuando ad accompagnarsi sapientemente con vari strumentini a percussione. Il pubblico balneare è un po’ distratto, ma l’inizio è suggestivo e promettente, e le promesse non vengono tradite; tanto che, alla fine, chi resta, si riscalda e applaude forte.
Si scivola mellifluamente da un jazz con chiari accenti italo-francesi, alla musica brasiliana e salentina, seguendo il percorso artistico del giovane e bravo pianista e compositore di origine brindisina in pianta stabile a Parigi e reduce da un proficuo viaggio in Brasile da cui ha riportato tante belle melodie firmate Dorival Caymmi, Djavan e Paulinho da Viola (l’interpretazione un po’ afro della Dança da Solidão mi ha commosso in modo intenso e vibrante; sarà che la mia compagna, intanto, si era allontanata per andare ad assistere alla proiezione di Bagno turco in un’altra piazza del Film Festival: Desilusão, desilusão / Danço eu dança você / Na dança da solidão // …Meu pai sempre me dizia, meu filho tome cuidado / Quando eu penso no futuro, não esqueço o meu passado // Quando vem a madrugada, meu pensamento vagueia / Corro os dedos na viola, contemplando a lua cheia / Apesar de tudo existe, uma fonte de água pura / Quem beber daquela água não terá mais amargura. // Desilusão, desilusão / Danço eu dança você / Na dança da solidão).
Ma, bando alle parentesi sentimentali, torniamo alla musica. Nel corso del concerto il batterista fa il suo dovere, è bravo pure nei tempi brasiliani che reinventa a modo suo con piglio convincente; anche se si ha l’impressione che suoni da poco con questa formazione.
Molto più affiatati pianista e cantante. Morena Brindisi ha un bel timbro e usa bene il suo strumento, pur senza essere dotata di un’ampia estensione vocale (almeno stando a quanto ci ha fatto sentire a Vasto); d’altro canto, Anita O’Day insegna, l’estensione non è tutto, soprattutto quando si ha la sensibilità, il buon gusto e il giusto senso del ritmo per prendere l’ascoltatore e trasportarlo nell’altro mondo ricreato all’istante dal buon interprete di turno. Col tempo MB sarà più scaltra, meno preoccupata del pubblico e farà anche meglio. Ne sono sicuro.
Nicola Andrioli oltre al piano suona anche una diamonica da cui trae suoni da musette francese (in qualche brano usa la destra per percuotere il piano, mentre la sinistra percorre la tastiera della diamonica). Bella e malinconica la sua vena compositiva che a tratti ricorda certe armonie di Nino Rota; peraltro, mi pare di ricordare che il maestro Rota esplicò buona parte della sua attività didattica proprio nei conservatori pugliesi; e magari da quelle parti avrà studiato anche Andrioli, visto che a) è brindisino e b) è dotato di un tocco che denota una chiara ascendenza classica.
Mi è piaciuto particolarmente un brano in lingua spagnola e titolo italiano (Amico… non ricordo che) scritto a quattro mani da Andrioli e Brindisi (che lo interpreta con una intensa leggerezza che mi fa pensare al Brasile di Marisa Monte, più che a riferimenti più strettamente jazzistici).
Tutto lo spettacolo è pervaso da una vena che oggi si usa dire etnica, ma io parlerei piuttosto di trasversalità e arte dell’incontro, visto che da sempre la musica ha trovato alimento incrociando il Nord col Sud, l’Est con l’Ovest e il popolare col classico. Suoni un brano brasiliano, lo fondi con un ritmo salentino e scopri una volta di più che negli altri c’è qualcosa di te stesso. Così finisci per ricordare anche quanto rispetto meritiate tu e loro. E chi ti ascolta profondamente condivide con te questa elementare sapienza e si compiace di stare seduto a sentirti e porta il ritmo dondolandosi sulla sedia e muovendo i piedi come morso da una tarantola brasiliana che ha studiato jazz a Parigi e ascolta i dischi di Coltrane, Texier e Veloso Caetano. E per un po’ la tarantola compie il miracolo del sollevamento dai pesi.
(Dopo il concerto quattro chiacchiere in fretta coi musicisti. Devo raggiungere la mia meravigliosa compagna a cui, ironia della sorte e nemesi delle muse, il film di Ozpetek non è nemmeno piaciuto granché: sarà stata l’ora tarda, l’oscurità di certe scene e il sonno incombente. “Cacchio, il concerto ti avrebbe sicuramente preso di più: c’era ritmo da ballare sulla sedia e belle melodie; non era quel jazz di cui non si capisce il motivo du-dad-du-dad …”. Poi, beijos, abraços e fim da solidão, fine della solitudine, almeno per il momento. I due si allontanano di spalle danzando lievemente come in un muto di Charlot. E lui vorrebbe dire qualcos’altro su quello che ha sentito, ma rimanda le parole al rientro sul blog dopo un’assenza non abbastanza lunga, porca miseria!)
– Specchio, specchio delle mie brame,
vecchio secchio di falso rame,
dimmi ora ciò che sarà
di mia stanca civiltà.
– Racchio vecchio pieno di fame,
scarabocchio di letame,
fatti subito più in là!
Non vedi che mi togli la vista
con la tua sete arrivista?
– Secchio vecchio, specchio babà,
sono io che d’acqua t’ho riempito
e questo è ora il tuo saluto?
Risponderò presto al tuo invito
rendendoti sordo, vuoto e muto.
– Oh natura, questo è impazzito,
se io finirò lui sarà finito;
finito, finito, finito..!
Jacques: All the world’s a stage,
And all the men and women merely players;
They have their exits and their entrances,
And one man in his time plays many parts…
– Auguri.
– …
– Ma mi senti? Mi hai riconosciuta?
– [Lunga pausa, poi un timido:] …Sì.
– Felice compleanno. Credevi che mi fossi dimenticata?
– [Pausa.] Ah, sì… grazie.
– Come va?
– [Cambiando tono.] Come vàa? È il compleanno più bello della mia vita!
– Ah, mi fa piacere, sono contento per te. Ma dove sei ora?
– Nel posto più bello di tutta la mia vita.
– Ah, ho capito… non hai voglia di parlare…
– No, no… È una bella giornata, sono in un posto meraviglioso, è il compleanno più bello della mia vita e questa è… la più bella vita della mia vita.
[Dove sia lei, noi, seduti sulle nostre poltrone, non lo possiamo intendere. Ci arriva solo la sua voce. Lui, invece, è nell’appartamento al settimo piano che arredarono insieme. Ma non la può vedere quella mobilia, e in fondo è meglio così, perché in realtà aveva scelto tutto lei. Intendiamoci bene, non è che siano da buttare quei divani neri sulle pareti verdi e il tavolo ovale di cristallo, solo che ora gli sembra tutto maledettamente estraneo e distante; anche quella voce che continua a sibilare dal suo cellulare. Come se quello non fosse il suo spazio né questo il suo tempo.
Se ne sta seduto sul davanzale con la faccia rivolta verso il mondo di fuori e le gambe penzolanti nel vuoto, e si lascia scivolare lentamente, lentamente.]
– Ma tu mi vuoi ancora bene?
– …
– Pulcino mio, non vorresti la tua gallinella di nuovo lì accanto a te?
[…] Last scene of all, […]
Sans teeth, sans eyes, sans taste, sans everything. (Shakespeare, As You Like It, 2. 7)