Anche quest’anno, come ormai vado facendo dal 2004, ecco a voi una stringata
Rassegna di quattro giorni di Jazz a Pomigliano
Questa era la XIII edizione di un festival che sembra un miracolo di creatività e organizzazione nell’epicentro del degrado e della munnezza campana. Quattro giorni di eventi ad ingresso gratuito nel bel Parco Pubblico di Pomigliano d’Arco.
Ho poco tempo, persino poca voglia, ma mi pare doveroso un breve resoconto ad uso e consumo degli appassionati e dei curiosi.

La serata del 10 luglio si è aperta con Maria Pia De Vito (voce) e Huw Warren (piano) che hanno offerto una esibizione di grande impatto emotivo con composizioni lievi e intense, sperimentali e pur sempre fruibili. Salti dalla musica concreta alla napoletanità. Reminescenze di Ella, Bob McFerrin e Totò. La De Vito è sempre più brava e dà il meglio di sé in queste formazioni più minimali in cui può mettere in scena le sue acrobazie e divertirsi un po’ anche col campionatore. Il sapiente accompagnamento di Hugh Warren mi ricorda quello di Mario Laginha con Maria João: reiterazioni, armonie suggestive, unisoni ritmici e melodici, percussioni sulle corde del pianoforte a coda. Per un momento, mi sono ritrovato in un concerto di Lisbona di almeno quindici anni fa (stessa struttura piano voce, simile spazio pubblico ed io che, allora come ora, ero innamorato d’un amore incosciente e sentivo quelle melodie con la sensibilità dei miei fremiti. Lì Maria e Mario, qui Maria Pia e Hugh. Ora risuonava nel jazz la canzone napoletana e mille riferimenti all’Africa e al Brasile; allora riecheggiava il fado e i medesimi mille riferimenti al Brasile e all’Africa. L’eterna Africa… Ma queste sono notazioni del tutto soggettive e personali che non possono trovare ulteriore spazio tra le righe limitate di un resoconto stringato).
A seguire, divertimento, free-style, teatralità e fisicità con l’allegro campionario di stili e ritmi offerto dall’ICP (Instant Composers Pool). Buffo e virtuoso il batterista Han Bennink, un ragazzaccio di 66 anni sempre pronto a passare dall’accompagnamento più tradizionale ad incursioni free e acrobazie circensi. Un po’ stanco Misha Mengelberg. Strepitosa versione rallentata, stile funeral march band, di Mood Indigo. Paaaa paaaa paapà Paaa paaa paa… Questo rodatissimo collettivo olandese è una macchina da guerriglia della musica che emoziona e diverte. Soprattutto dal vivo.
A fine serata, Cordoba Reunion, tra gli invasati (come dice il mio amico Alfredo del pubblico più fricchettone, ma simpatico, che solitamente sembra seguire solo l’ultimo concerto della serata in un invaso, un avvallamento del parco, nascosto tra alberi e rampicanti e particolarmente idoneo al consumo di erba e fumo). Esibizione onesta e dignitosa del buon Girotto con altri tre musicisti provenienti da Cordoba: una riuscita fusione di rock progressivo e jazz con svariati ritmi tradizionali argentini (non solo tango e milonga, ma anche danze meno universalmente note come zamba e cahacarera)
L’11 è stata la volta dell’Omaggio a Monk del Pieranunzi/Giuliani Quartet, che si è mosso sulle tracce di capolavori come I mean you, Pannonica, Straight no Chaser, ‘Round Midnight e Misterioso. Rosario Giuliani è molto bravo, ma mi è dispiaciuto che in questo contesto suonasse solo il contralto, avrei gradito risentire la voce suadente del suo sassofono soprano. Pierannunzi… suona da par suo, ma a volte sembra come se, preso da horror vacui, sentisse l’esigenza di far uscire dal suo piano troppe note, più del necessario. Sarebbe bastato molto meno per far risaltare le melodie sghembe, viscerali e suggestive dell’immenso Thelonious Monk. (Il mio amico Enzo ricordava opportunamente che Less is More).

Strepitoso e trascinante il Randy Weston African Rhythms Trio con Alex Blake al contrabbasso e Neil Clarke alle percussioni. Ne dirò poco, ma è stato il concerto che mi ha emozionato di più, quello che mi ha fatto dondolare la testa e muovere le gambe per tutto il tempo come un vecchio hipster. Randy Weston è un sulfureo gigante di 82 anni. M’è venuta voglia di risentire qualche suo vecchio disco. Alex Blake è un bassista spettacolare, che suona il suo strumento da seduto, tenendolo curiosamente inclinato e ricavandone accordi e suoni ritmici come se percuotesse e accarezzasse le corde di una chitarra. A fine concerto, Neil Clarke e l’afro-americano-pomiglianese Don Moye si sono seduti uno accanto all’altro, come due compagni di banco, facendo risuonare le quattro congas con avvincenti ritmi africani.
Il quintet Languages di Aldo Farias non ce l’ho fatto ad ascoltarlo, per sopravvenuta stanchezza.

La prima esibizione del 12 è stata quella del Marco Cappelli IDR (Italian Doc Remix) con ospiti Marc Ribot, Dj Logic e Marcello Colasurdo (ex Zezi). Un progetto sfociato anche in un cd pubblicato dall’etichetta di Pomigliano Jazz Itinera e nato dall’incontro delle musiche popolari apportate dal chitarrista locale Marco Cappelli con i “nuovi suoni” di un gruppo di musicisti newyorkesi (Nea Polis meets Nuova York). Il risultato è una insalata di ritmi e melodie nu jazz, klezmer, popolari, funky e dance che qualche volta può risultare indigesta e qualche altra molto stuzzicante e gradevole. Devo dire che in questo momento li sto ascoltando su disco e funzionano meglio che dal vivo, dove alcuni brani sono risultati un po’ fracassoni anche per uno scorretto missaggio dei volumi. Sentiti dalle casse del mio modesto hi-fi, i ritmi newyorkesi si sposano meglio con le tarantelle (la celebre montemaranese), i canti a fronna, i documenti parlati e le salmodie.

Subito dopo è arrivata la Gil Evans Orchestra. Il peggio del festival, con Miles Evans che usurpa il cognome di suo padre e il nome di Davis.
Al terzo brano, non ce l’ho fatta a continuare a sentire. E non si trattava di stanchezza, stavolta.
M’è dispiaciuto soprattutto vedere sacrificata in mezzo a quell’orchestrina pop la tromba del buon vecchio Lew Soloff che ricordo in meravigliose band di Charles Mingus con ben altri arrangiamenti e accompagnatori. E mentre mi allontanavo per andare a bere una birra, storpiavano Goodbye Pork Pie Hat, e Charles e Gil si rivoltavano e torcevano nelle rispettive tombe insieme ai miei sensibili intestini.

Infine, l’interessante proposta sperimentale di musica e voce recitante della Nublu Orchestra diretta da Butch Morris. La migliore esibizione della terza serata, in bilico tra jazz e classica contemporanea. Peccato che l’invaso non fosse lo scenario più adeguato per quella musica che necessitava di maggior concentrazione e di un impianto audio che permettesse di far apprezzare meglio il flusso di suoni che passava dalla chitarra elettrica di sinistra a quella di destra attraversando, come un corso d’acqua, i fiati disposti al centro, di fronte al direttore che guidava e reinventava i suoni come un guru di bianco vestito.

L’ultimo giorno è stato quasi interamente dedicato alla O.N.J. (Orchestra Napoletana di Jazz) diretta da Mario Raja e formata da una lunga serie di valenti musicisti campani, tra i quali cito a memoria e a gusto Marco Sannini (tromba), Raffaele Carotenuto e Alessandro Tedesco (tromboni), Giulio Martino e Gianni D’Argenzio (sassofoni tenore), Marco Zurzolo (contralto), Nicola Rando (baritono), Andrea Rea (pianoforte), Pasquale Bardaro (vibrafono), Aldo Vigorito (contrabbasso) e Salvatore Tranchini (batteria).
Il concerto si è aperto con un breve omaggio di Marco Zurzolo al compianto Mario Schiano, geniale, graffiante e inirrigimentabile padre storico del free jazz italiano, anzi, no, napoletano.
Nel corso dell’esibizione si sono aggiunti Raiz (ex Alma-Megretta), Meg (ex 99 Posse), Maria Pia De Vito, Famouodou Don Moye e il trio di Randy Weston. Naturalmente, sono stati soprattutto i due cantanti pop (va be’ lo so che gli Alma sono un gruppo dub e i 99 una posse rap/raggamuffin) ad attirare il pubblico meno jazzistico. A mio parere, l’operazione è riuscita meglio con Raiz (la voce di Meg era amplificata male, a volume troppo alto, ed era falsata da una serie di effettacci che producevano uno spiacevole suono da festa di piazza.)
Il concerto, molto lungo, ha avuto momenti esaltanti (un brano da Ex-Voto di Marco Zurzolo, qualche intervento di Maria Pia De Vito e Randy Weston, la reinterpretazione di due classici napoletani: Era de Maggio e Carmela), ma non mi ha convinto del tutto. Nel jazz, l’arrangiamento orchestrale di brani già noti è un’arte complessa basata sulla destrutturazione e ristrutturazione di una composizione per farne risaltare alcune sue qualità che possono essere armoniche, melodiche o ritmiche. È come se io dovessi trovare una nuova chiave di lettura per raccontare una storia già mille volte sentita. A mio parere, la chiave di lettura del maestro Raja era troppo tendente ad emulare lo swing americano, tanto da risultare piuttosto falsa; come se io ora raccontassi la storia di cui sopra con un ridicolo accento americano (ma senza quella consapevolezza auto-ironica che poteva avere ieri un Mario Schiano e oggi uno Stefano Bollani o un Daniele Sepe).
Inoltre, veniva lasciato troppo poco spazio all’estro improvvisativo dei singoli musicisti, costretti a esibirsi in assoli che duravano lo spazio di poche battute. Insomma, avrei preferito sentire meno brani, ma più approfonditamente sviscerati e suonati.
L’ultimo concerto, quello del Flavio Dapiran quintet, non sono riuscito ad ascoltarlo per rischio overdose. E chissà quanti di voi sono riusciti a leggere i miei sbariamienti critici fin qui.