Sono quarantacinque giorni che non piove. Invece, quando andavo in fabbrica io, pioveva tutti i santi giorni. Prendevo il treno delle 6 e 25 bagnato fradicio. La pioggia ticchettava sui vetri mentre cominciavo ad asciugarmi al fiato della calca di centinaia di pendolari grondanti d’acqua come me. Arrivavo a destinazione prima che riuscissi a togliermi di dosso tutta quella umidità. E in realtà non è che fossi proprio veramente già arrivato, perché poi dovevo prendere il pulmino che mi portava fino a fuori il cancello della fabbrica; ancora sotto la stessa pioggia, perché pioveva, pioveva, pioveva sempre. Il più delle volte mi toccava lavorare coi piedi intirizziti. Montavo cavi e cornette guardando la pioggia che rigava i vetri e pensando alla povera gente che non aveva un tetto per coprirsi. Perché io ci pensavo alla povera gente sotto la pioggia. Il caporeparto ogni tanto mi vedeva distratto e cominciava a rimbrottare tutto incazzato. Ma in fondo era una brava persona. Mi diceva che dovevo essere più veloce, che non dovevo imbambolarmi, che se continuava così sarei stato tra i primi a essere segato. Perché c’era la crisi del settore. Tutti usano i cellulari, ora, diceva, e le cabine presto spariranno. E poi spariranno anche i telefoni di rete, e noi insieme a loro. Cazzo, c’aveva ragione il caporeparto. È venuta presto la crisi, come una tempesta. Ormai non serviamo più a niente noi che montavamo fili e cavi.
Anche il giorno che entrai in cassa integrazione pioveva a dirotto. E continuò a piovere per tutta l’estate. Poi venne settembre. Un settembre piovosissimo di tormente e temporali, il più piovoso che io ricordi da che sono nato. E il più nero. Alla crisi del settore si univa la crisi del paese, la crisi del continente, la crisi di tutto il mondo. Non saremmo mai più rientrati dalla cassa integrazione. Non avrei mai più messo piede in una fabbrica. Seguirono decine di cortei sotto la pioggia e chilometri consumati a cercare un nuovo posto, mentre gocciolava, pioveva, diluviava, pioveva tanto, pioveva sempre.
Ora è un mese e mezzo che ho deciso di intraprendere una mia attività. Sono in strada, in mezzo alle macchine che non si sa dove vadano né da dove vengano e mi sfrecciano davanti senza neanche guardarmi in faccia. Come fossi un palo della luce o uno di quei fottuti immigrati che mendicano e fanno finta di pulire i vetri. Ma io non chiedo la carità di nessuno. Io ho una mia attività. Vendo ombrelli. E sono quarantacinque giorni che non piove.