Errare come i cavalieri erranti in cerca dell’arca.
Sperimentare. Provare nuove esperienze.
Interessarsi al processo più che alla meta.
Navigare senza rotta sulle tracce di Serendip.
Quando mi affacciai la sesta volta vidi che c’era il mare. Decisi allora che sarei partito per l’Occidente. Cercavo il senso della vita. L’avevo già chiesto a Orbasawa e a Lao Tse, ma non capivo il loro dialetto; forse ero troppo vecchio per capire, quella volta che vidi il mare.
Sul sentiero del porto, rubai due stampelle ad un mercante zoppo. Imparai allora che a quattro gambe si cammina lento. Feci una croce con le due vecchie grucce e le piantai in cima ad un monte.
Il terzo giorno mi gettai nell’acqua tra il dondolio delle onde. E mi lasciai cullare.
Quando raccolsero il mio corpo, sorrisi felice; ma sul vascello mi spogliarono di tutto. Capii che non conviene fidarsi dei pirati bretoni. Eppure, senza di loro, non avrei mai visto l’Europa.
Venezia era molto bella, ma avevo paura a calpestare quelle strade lastricate d’oro e d’avorio. I gioielli richiedono troppa attenzione. Da Oriente a Occidente cominciavo a intuire che senza si è più liberi, si cammina meglio.
Decisi di riprendere da lì le mie indagini.
In una calle sielnziosa ed oscura, chiesi ad un folle il senso della vita. Mi fece segno di entrare, ma non capivo le sue parole. Più tardi mi disse che era muto. Quando cercai di uscire era già troppo tardi. Restai rinchiuso novantaquattro anni tra le mura di quel sanatorio caliginoso e umido.
Dal momento che non erano in grado di capire il mio accento, conclusero che non potevo essere sano.
Studiarono il mio caso fino alla notte d’agosto in cui scappai a Praga.
Risoluto ad integrarmi con loro, mi arruolai a caccia di non so che; ma sui roghi bruciarono in tante, e tante bellissime. Quando il tanfo dei cadaveri cominciò a pervadere ogni angolo del paese, sentii che era il momento di lasciare quella terra.
Le mie ricerche continuarono nei campi di Francia.
Nella legione straniera passai da un massacro all’altro, bevendo bordeaux per dimenticare. Ma nemmeno in quei bicchieri si leggeva il senso della vita.
Disertai all’ombra del Partenone il giorno in cui Sibilla la zingara mi parlò dell’Egitto.
La Sfinge era più muta del pazzo di Venezia e dei saggi d’Oriente.
Chiesi a una piramide perché non parlasse. Poi inciampai in un decalogo e mi svegliai in un giardino spagnolo. Si parlava di Aristotele e Platone. Ma avevano entrambi ragione, e io non capivo il senso di tanto dibattere, combattere e dialogare.
Ricordo che uno di questi secoli, chiesi asilo politico ad un prete di Roma.
Nella pace del chiostro di un monastero lessi di Cusano, Espinoza ed altri eroici furori. Qualcuno mi convinse che il senso era scritto da qualche parte, giù al Nord, inciso nella roccia in caratteri gotici e consonanti gutturali.
Volai in Germania alle 12 e 40.
Appena toccai terra, mi si avventarono addosso invocando la morte del giudeo, e mentre imprecavano altre incomprensibili parole, digrignavano i denti come cani rabbiosi. Tornai in Ispagna, ma le cose non volsero al meglio. Ormai ero marchiato a fuoco come le vacche che ogni notte si vedono nere. Per salvare la pelle mi aggregai alla ciurma dell’ammiraglio Cristóbal, quando stava già per tramontare il secolo decimoquinto dall’abbandono delle grucce sul monte.
Avevamo scoperto l’America. Ma i miei compagni erano ansiosi di ritrovarsi più in là.
Tutta quell’ampiezza sterminata mi rapiva, ma dopo che arrivarono i teutonici e tornarono i bretoni, trovai mattoni su mattoni piantati davanti alla vastità del mio sguardo. Triste e stanco, mi inerpicai fino all’ultimo piano dell’Empire State Building ansioso di vedere cosa ci fosse oltre le nuvole. Ma il cielo era molto più su.
Nell’ultima stanza avevano appeso una collezione di foto dell’Himalaya. Solo dall’alto si poteva inquadrare l’Everest in tutta la sua grandezza.
Fui felice di essere stato spogliato di tutto e di non avere più oro né stampelle.
Decisi che non avrei più cercato il senso della vita.
Feci un viaggio in Oriente.
©©1986-2011