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Continue discussioni su se considerare o meno il napoletano una lingua. Dal mio punto di vista il napoletano è un dialetto e il frattese, che io parlo correntemente, una sua variante. Il che non significa che il napoletano e la variante frattese siano meno di una lingua. Una lingua non è un sistema di comunicazione superiore a un dialetto, una lingua non è altro che un dialetto con un esercito e una marina (“A shprakh iz a dialekt mit an armey un flot”, Max Weinreich).
Per come la vedo e la sento io, il dialetto è un idioma proprio e particolare di un territorio più o meno vasto che non ha alle spalle un’egemonia politica tale da poterlo far imporre nelle scuole e nella burocrazia. Non posso andare al comune a chiedere un certificato di nascita in napoletano né posso iscrivere mia figlia a una scuola dove si studi su libri scritti in napoletano e con professori che parlano “comme l’ha fatto ‘a mamma“. Inoltre, un dialetto è molto meno codificato di una lingua. Infatti, dei dialetti esistono numerose varianti, nessuna delle quali si impone sull’altra come “corretta”.
Questo permette a un frattese di dire una frase come “Quanno seve piccerille, m’ascetave quanno vuleve je. Mo’ arrapo ‘e l’otto tutte ‘e juorne“. Laddove un napoletano di Napoli direbbe “Quanno ero piccerille, m’ascetave quanno vuleve je. Mo’ arapo ‘e l’otto tutte ‘e juorne“. Anche perché a Napoli “arrapo” vuol dire solo quell’altra cosa.
Io voglio continuare a parlare frattese e dire arrapi’ e non arapi’, asciette e non ascette, cannuccia e non mulletta, che sta’ ‘a fa? e non che sta facenno?, figliola e non guagliona, murtarella e non murtadella, susamiello e non roccocò, tortano e non casatiello, u’ nonno e non o’ nonno… per questo non vorrei che il napoletano diventasse una lingua né che a scuola dovessero imporre ai miei figli la variante del Vomero o quella di Forcella sulla mia di Frattamaggiore, quartiere Chiazzamantano.