Qua dentro siamo in una camera d’eco, un porto sicuro,
un giro di persone che pensano più o meno le stesse cose, condividono la stessa visione del mondo e si amplificano reciprocamente i pensieri,
sicuri che quelli degli altri non saranno mai tanto divergenti dai nostri.
Ci diamo l’un l’altro pacche sulle spalle e ci scambiamo pollici in erezione confondendo la nostra cameretta con la realtà di un mondo complesso e composito.
Siamo in una camera ad eco che è anche la nostra prigione di vetro.
Ma noi no, non siamo per niente trasparenti, qua dentro.
E di certo neanche fuori.
I sogni svaniscono, si ispessiscono le barriere, gli egoismi crescono e si diffondono in un contagio epidemico e stizzoso. Laddove c’erano ampi spazi e natura più o meno incontaminata si costruiscono recinzioni e muraglie, le frontiere diventano via via più dure e insormontabili e ognuno si isola con modalità sempre più intime e profonde nell’ambito ristretto dei cazzi suoi.
In mezzo a questa irsuta indifferenza, sento che è il momento di farmi da parte e innalzare un mio personale Homat Magen, un muro difensivo che mi faccia da scudo contro il presente.
Faccio girare sul piatto il primo disco di Charlie Haden con la Liberation Music Orchestra e lo lascio suonare come se fosse ancora viva la speranza, come se non fosse mai finita la voglia di cambiare il mondo abbattendo frontiere e costruendo ponti-relazioni-e-legami che non siano solo sedicenti cerchie di amicizie con in mezzo frapposti uno schermo e una tastiera.
I sassofoni di Gato Barbieri e Dewey Redman suonano irridenti come un quadro di George Grosz, mentre una sequela di rasgueados e arpeggi di chitarra flamenca annunciano i sogni collettivi della repubblica spagnola prima che Franco spezzasse l’incanto, con la complicità delle truppe nazifasciste e degli aerei della Luftwaffe “Legión Cóndor” che bombardarono la popolazione inerme di Guernica, Madrid, Valencia, Barcellona e altre località iberiche meno note e celebrate.
Le trombe di Don Cherry e Michael Mantler svettano squillanti e dolenti su un tappeto di legni ed ottoni. Un assolo di contrabasso di Charlie Haden e una rapsodia di insieme sospesa tra la musica bandistica e il free più estremo e militante ci raccontano del Quinto Regimento e delle Brigadas Internacionales. Accorsero da mezzo mondo in aiuto del governo repubblicano spagnolo, come se quello fosse un fatto loro; perché quello ERA un fatto loro, ed era anche il preambolo della seconda guerra mondiale, la più cruenta e cieca contrapposizione armata che si possa ricordare.
Torno alla musica. Nel 1969, quando si è registrato questo capolavoro dell’arte engagé, non imperversavano ancora i professionisti del turntable che missano i suoni del presente con vecchi vinili e frasi pescate chissà dove; ma, in sottofondo, alla fine del lato A, sentiamo un frammento originale di “Ay Carmela (Viva la Quinta Brigada)” sapientemente intrecciato con le note suonate dalla Liberation Music Orchestra una trentina di anni dopo. Piccole intuizioni militanti.
Giro il disco sul piatto (una volta si faceva così, come per le tortillas e le frittate di maccheroni) ed ascolto l’inno al Che.
Mi commuovo, ma non so dire se piango per la morte di Ernesto Guevara o per le prolungate esequie di quelle speranze che parevano ancora così vive e appassionate agli sgoccioli degli anni ‘60. In una decina di minuti di intime celebrazioni, il contrabbasso di Charlie Haden cita “Hasta siempre” e per un po’ sentiamo anche Carlos Puebla che canta “Aprendimos a quererte…”, un altro remix seguito dai flauti multietnici di Don Cherry e da un nuovo struggente momento free, un frastornante preludio che ci prepara (per contrasto) a un lirico concerto per pianoforte e orchestra composto da Ornette Coleman e dedicato agli orfani di guerra: e qui il piano di Carla Bley (arrangiatrice e co-direttrice dell’album) la fa da padrone.
Accidenti, anche questa è l’America a stelle e strisce!
Nella traccia seguente, i musicisti si schierano in due fronti contrapposti parodiando con suoni graffiati e sberleffi mingusiani le divisioni ideologiche del Partito democratico tra il ‘68 e ‘69. Alla fine sembra che l’abbia vinta la parte che canta We Shall Overcome, Noi Trionferemo, il gospel laico di Pete Seeger che ha fatto da “inno” ai movimenti pacifisti fin dai primi anni ‘60… ma nella breve traccia finale quella marcia trionfale sembra trasformarsi in una marching band funebre: il basso tuba, i sassofoni e il trombone, suonano seguendo un tempo lento e strascicato, una specie di triste presagio che mi riporta alla realtà di oggi. Noi trionferemo… I do believe… Oh, deep in my heart, I do believe we shall overcome some day.
La musica è finita. Mi metto alla ricerca di altri mattoni per costruire il mio muro per difendermi dagli assalti di un presente ogni giorno più sgradevole e aggressivo. Sarà pure che invecchio…