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L’ultima petizione che firmò senza nemmeno leggere di cosa si trattasse fu quella che chiedeva l’immediata esecuzione di tutti i firmatari di quella estrema petizione.
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R.i.P. Rifletti invece di Pigiare.
31 giovedì Mag 2018
Posted texticulos
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L’ultima petizione che firmò senza nemmeno leggere di cosa si trattasse fu quella che chiedeva l’immediata esecuzione di tutti i firmatari di quella estrema petizione.
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R.i.P. Rifletti invece di Pigiare.
25 venerdì Mag 2018
Posted texticulos
inAveva due facce, e nessuna di loro era sincera con me. A dirla tutta, credo che nessuna delle sue due facce fosse in grado di restare autentica nemmeno tra sé e sé. Figuriamoci tra sé e me.
Aveva due facce, e ognuna delle sue due facce aveva due facce, due facce, due facce…
Aveva due facce e ognuna delle sue due facce era un labirinto.
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Potrebbe essere l’incipit di un romanzo che non scriverò mai (anche per non correre il rischio di perdermi tra il primo capitolo e il fincipit o di incepparmi nel punto in cui l’autore scrive un incipit di un romanzo che non scriverà mai e che potrebbe essere l’ultimo capitolo del romanzo che sta scrivendo… Banalità da XX secolo…).
22 martedì Mag 2018
Posted idiomatica, inter ludi, riflessioni
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“Sapeva parlare in molte lingue, ma non ascoltava in nessuna.” (italiano)
“Sabía hablar en muchas lenguas, pero no escuchaba en ninguna.” (spagnolo)
“He could speak in many languages, but he did not listen in any of them.” (inglese)
“Sabia falar em muitas línguas, mas não escutava em nenhuma.” (portoghese)
“Sapeva parlà ‘nu cuofano ‘e lengue, ma nun ausiliava a nisciuna.” (napoletano, varietà San Giuseppe Vesuviano; per gentile concessione di Giorgio Veturo)
“Sapeva parlà ‘i tanti manere, ma ‘i nisciuna manera sive cazzo do fa’ sentì.” (napoletano, varietà frattese)
“Il savait parler beaucoup langues, mais il n’écoutait aucune.” (francese scolastico; per gentile concessione di Popolodipekino)
“Він вмів розмовляти на багатьох мовах, проте не слухав жодної.” (ucraino, grazie a Tatiana Kolbayenkova)
“Sabía hablar muchos idiomas pero no sabía escuchar en ninguno.” (spagnolo bis, grazie ad Angela Bernal)
“Он разговаривал на многих языках, но не умел слушать ни на одном из них.” (russo, grazie a Natasha Natasha)
“Sok nyelven beszélt, de egyiken sem hallgatott”. (ungherese, grazie a Teréz Marosi)
“Ён размаўляў на многіх мовах, але не ўмеў слухаць ні на адной з іх.” (bielorusso, grazie a Natasha Natasha)
“Գիտեր խոսել շատ լեզուներով, բայց դրանցից ոչ մեկով լսել չգիտեր։” (armeno, grazie a Narine Barseghyan)
“Μπορείτε να με βοηθήσετε να μεταφράσω αυτή τη φράση σε άλλες γλώσσες ή διαλέκτους;” (greco, grazie ad Antonio Belardo)
“A savia parlè ‘n tante lengue, ma a scutava ‘n bel gnente.” (torinese, grazie a Mario E. R. Bianco)
“‘L sava parlè ‘n tanti maneri, ma la scutava nen d’autùt.” (torinese, variante monferrina, grazie a Mario Bianco)
“Sapìa parrari tanti parrati, ma no scutava cu nudda” (siciliano orientale, grazie a Massimo La Spina)
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Mi aiutate a tradurre in altre lingue? Avete traduzioni alternative a quelle fin qui proPOSTe?
“No Google Translate, please”
Resto in ascolto! :)
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17 giovedì Mag 2018
Posted versiculos, vita civile
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Cantami, o Diva, degli infiniti lutti
dei Miceni, dei Troiani e degli Achei
e dei millanta altri popoli distrutti
mentre io mi facevo i fatti miei
11 venerdì Mag 2018
Posted riflessioni, vita civile
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Spero tanto che almeno qualcuno degli oltre 150 ragazzi che hanno partecipato stamattina al convegno sulla “Decrescita felice“ cambi qualcosa, anche una piccola cosa, dei suoi (dei nostri) comportamenti “terricidi”.
Tipo (traggo dalla dramatizzazione rappresentata dai ragazzi del “Filangieri”):
– Prendere l’auto per spostarsi di pochi metri. (Aufff)
– Scendere a comprare il latte col SUV e parcheggiare sui marciapiedi. (Aufff)
– Fare due chilometri in automobile per andare in palestra e mettersi a correre per un paio di chilometri su un tapis roulant, che ci fa muovere restando sempre nello stesso posto. (Aufff Aufff)
– Imbottigliati nel traffico, lamentarsi del traffico e non capire che SIAMO il traffico. (Aufff)
– Lasciare le lampadine accese alla luce del giorno. (Aufff)
– Far scorrere inutilmente litri e litri di acqua per lavarsi i denti, radersi o fare uno shampoo. (Aufff Auff)
– Avere in inverno il riscaldamento a palla e le finestre aperte. (Aufff)
– In estate accendere il condizionatore a 15 gradi e indossare una maglia sulla camicia per non prendere freddo. (Aufff)
– Comprare l’insalata in busta, pomodori già affettati in vassoio di polistirolo, le arance sbucciate e confezionate in vaschetta e l’acqua in bottiglie di plastica che attraversano da nord a sud tutto il Paese. (Aufff Aufff)
– Ammazzarsi di lavoro per avere sempre di più, e rimanere perennemente insoddisfatti di quello che abbiamo. (Aufff Aufff Aufff)
Dobbiamo renderci conto che la crescita della produzione di merci richiede una disponibilità crescente di risorse che non sono più ottenibili nella porzione di terra che abbiamo prosciugato.
Ci hanno insegnato solo a produrre e consumare. Ma non sappiamo nemmeno più sbucciarci un’arancia o lavarci l’insalata. E intanto la produzione si è spostata altrove.
Le fabbriche non hanno più operai, ma solo ammassi di ferraglia e teste quadrate. Nessuno ha più bisogno di noi. D’un tratto vogliono che siamo solo dei consumatori.
Le cose che sprechiamo si fanno da un’altra parte… La frutta che mangiamo viene da un’altra parte… I nostri vestiti… la nostra moto… tutto viene da un’altra parte… Anche queste sedie, questo tavolo e il telefonino che abbiamo sempre in mano…
Sembra tutta una barzelletta o un colmo senza soluzione…
A proposito, la sapete quella del cavallo?
Allora. C’è un tipo che va a comprare un cavallo. Ne vuole uno molto veloce.
Il venditore gli fa: “Questo è il più veloce che abbiamo, ma si muove solo se sente dire AUFFF e per farlo fermare deve gridare STOOOP!”. Il tizio decide di provarlo, si mette a cavallo e fa AUFFF. Subito il cavallo comincia a trottare. Dopo un po’ il tizio grida STOOOP e il cavallo si ferma. Di nuovo AUFFF AUFFF e il cavallo galoppa fuori dalla città e va sempre più veloce. Il tizio è soddisfatto: AUFFF, AUFFF, AUFFF…, finché, all’improvviso, si trova davanti a un burrone. Prontamente grida STOOOOP! Poi, guarda giù al precipizio e tira un sospiro di sollievo: …AUFFFFFF!
Siamo tutti un po’ così, senza briglia, in groppa a un cavallo al galoppo in prossimità di un burrone, e ogni metro di terra che sprechiamo ci avviciniamo ulteriormente al fondo del precipizio.
“Se una crescita ha conseguenze negative, il suo arresto, o quanto meno la sua diminuzione, assumono connotazioni positive. In relazione a una crescita ipertrofica, come quella di una massa tumorale, la decrescita appare come una benedizione divina.”
(Maurizio Pallante, “La felicità sostenibile”, Rizzoli 2009, p.19)
Aufff….
Anzi no, STOOOOOP!
Insomma, smettiamola di fare di più e cerchiamo di fare meglio.
08 martedì Mag 2018
Posted versiculos
inTag
Chi è senza peccato,
Pecchi,
E la smetta di lanciare pietre!
05 sabato Mag 2018
Posted riflessioni, vita civile
inImperversa nelle scuole, in rete e sulle riviste di didattica un dibattito che contrappone conoscenze e competenze; un luogo comune della retorica dei nostri tempi che finirà per diventare una sottospecie di genere letterario, una sorta di disputa medievale, tipo la “Razón de amor y los denuestos del agua y el vino“, la “Disputa dell’anima e del corpo”, il dibattito sulla superiorità dei chierici sui cavalieri o la superiorità dei cavalieri sui chierici, la “querelle des Anciens et des Modernes“, il sostegno a Bartali versus il sostegno a Coppi, la doccia di sinistra contrapposta al bagno di destra (o era il contrario?)…
Insomma, si cerca di affermare una parte annullando o escludendo l’altra, come se potesse esistere una competenza assoluta che prescinda da ogni conoscenza o come se si potessero acquisire delle conoscenze senza mettere in moto tutta una serie di competenze che servono a far sì che le conoscenze diventino parte stabile e integrante della nostra enciclopedia personale.
Mi viene in mente l’apologo indiano dei sei saggi ciechi che si trovarono per la prima volta nella loro vita al cospetto di un elefante e, per descriverlo, cominciarono a toccarlo.
Il primo saggio, avendogli toccato l’orecchio, definì il pachiderma come un grande farfalla.
Il secondo gli toccò la zampa e pensò al tronco di un albero.
Il terzo, con ancora la coda tra le mani, disse che l’elefante era simile a una corda.
Il quarto, dalla punta della zanna, pensò a una lancia acuminata.
Il quinto, palpandogli gli enormi fianchi, affermava che si trovavano al cospetto di una muraglia movente e il sesto, toccandogli la proboscide, assicurava che si trattasse di una specie di serpente.
Tutti illusi che la loro parziale rappresentazione potesse descrivere la totalità e la complessità dell’elefante.
Mi pare che, escludendo nel processo formativo una volta la conoscenza (il sapere) e un’altra la competenza (il saper fare), ci comportiamo proprio come i sei ciechi dell’apologo indiano.
Cerco di spiegare cosa intendo con degli esempi.
1. Un bambino che impara a vedere l’ora acquisisce una competenza che non può prescindere dal sistema numerico decimale e dalla numerazione per 5 (poco importa se parliamo di numerazione, progressione aritmetica, tabellina o tavola pitagorica).
2. Similmente, fare in modo che gli alunni sappiano fare un’analisi testuale non può prescindere dal far acquisire loro la conoscenza dei generi letterari, delle figure retoriche, della metrica e, al limite, anche delle coordinate culturali che ci permettono di riconoscere l’appartenenza di un autore a una determinata corrente letteraria…
3. Imparare i verbi della propria lingua o di una lingua straniera presuppone una serie di competenze molto raffinate che servono a inserirli in categorie che grosso modo chiamiamo tempi e modi e in sottocategorie che definiamo tempi semplici e tempi composti, voci attive e voci passive, modi definiti e modi indefiniti… E credo che non ci sia dubbio che comprendere il sistema verbale di una lingua aiuti anche alla sua memorizzazione ed all’uso corretto della consecutio temporum e dell’attrazione modale, in un naturale intreccio di competenza e conoscenza.
D’altronde, nemmeno la tanto vagheggiata buona scuola dei tempi che furono era tutta basata sulle conoscenze. Il vecchio liceo classico (quello che formava la classe dirigente), non insegnava solo le declinazioni greche e latine e la vita e le opere di Cicerone e Demostene, ma soprattutto offriva agli alunni le competenze per leggere un testo in lingua latina o greca, ragionare sulla sua struttura e tradurlo in buon italiano. E anche lo studio della filosofia e della letteratura non si basava su semplici nozioni da mandare a memoria, ma tendeva a fornire capacità di ragionare sui sistemi, operare confronti, esprimere giudizi critici…
Non ha senso parlare di scuola della conoscenza o di scuola della competenza. A scuola si imparano cose e si impara a fare cose. Come nella vita. Dove appendiamo quadri al muro dopo aver conosciuto il muro, i quadri, i chiodi e il martello e dopo aver imparato a martellare senza puntarci il martello sul dito. Ahi!
01 martedì Mag 2018
Posted musiche, recensioni, vita civile
inÈ una settimana che sto pubblicando su FB e su Tumblr una selezione di video di versioni sghembe, creative, inaspettate e originali di alcune delle mie canzoni preferite. Un brano veramente bello si presta a continue riletture e reinterpretazioni che ci fanno scoprire ogni volta sapori nuovi e sfumature che ci erano sfuggite.
Oggi, in coincidenza con la festa dei lavoratori, ho scelto una serie di cover di “Construção”, capolavoro assoluto di Chico Buarque; una delle più belle canzoni mai scritte; un testo eccezionale con una struttura unica e inscindibile dal senso del brano; una costruzione del testo che sembra ripetersi davanti ai nostri occhi, “mattone su mattone, in un disegno logico“, come la costruzione edile in cui è impegnato nell’ultimo giorno della sua vita il lavoratore che è il protagonista del brano.
La descrizione di una tragica giornata portata avanti con 41 versi di 14 sillabe ciascuno, tutti terminanti con parole sdrucciole che danno al canto un ritmo ripetitivo che sembra ricalcare la giornata di questo operaio che negli ultimi versi della prima parte del brano inciampò nel cielo come un ubriaco fradicio / e fluttuò nell’aria come se fosse un passero / e finì a terra come un sacco flaccido / e agonizzò in mezzo al passaggio pubblico; / morì contromano disturbando il traffico; e nella seconda parte della canzone, con un leggero slittamento di senso: inciampò nel cielo come se sentisse musica / e fluttuò in aria come se fosse sabato / e finì a terra come un pacco timido, / agonizzó in mezzo al marciapiede naufrago; / morì contromano disturbando il pubblico; e, infine, nella terza e ultima parte, fluttuò in aria come se fosse un principe / e finì a terra come un pacco ubriaco; / morì contromano disturbando il sabato.
La descrizione tragica e mozzafiato di un fatto comune e unico come una morte sul lavoro condotta con un andamento crescente e un testo ipnotico, “mattone su mattone, in un disegno magico“; come se fossimo improvvisamente sprofondati in un incubo.
La prima versione di questo capolavoro è stata pubblicata in un album del 1971 che contiene anche una cover brasiliana di “4 marzo 1943” di Paolo Pallottino e Lucio Dalla (qui intitolata “Minha Historia”) e un bellissimo brano scritto con Vinícius de Moraes che ho sempre considerato la fonte di ispirazione di “Poster” di Claudio Baglioni, una cover non dichiarata; insomma, un plagio, non so quanto volontario (l’originale di Buarque-De Moraes si chiama “Valsinha”, andatevelo a sentire, magari nella versione italiana realizzata da Sergio Bardotti e cantata nel ’72 sia da Patty Pravo che da Mia Martini; sempre di cover d’autore si tratta, e negli anni ’60 e ’70, in Italia, se ne facevano tante e molte, belle assai).
In ogni modo, la versione di “Construção” che riporto qui è quella di Mônica Salmaso, un’interprete brasiliana molto dedita al canzoniere di Chico Buarque de Hollanda.
Ma vi consiglio di ascoltare anche la versione spagnola del cantautore uruguaiano Daniel Viglietti.
E, ancora di più, quella in italiano (sempre tradotta da Bardotti) interpretata in modo intenso, struggente e creativo da Enzo Jannacci:
Perché di lavoro si può anche morire.