Un(‘)intellettuale è una persona che prova ogni giorno a pensare l’impensato; ma, in quanto essere umano, può scivolare anche lui sul male banale della ripetizione del già detto.
Un(‘)intellettuale è un essere molto curioso, che ha letto molto, ma mai abbastanza, e ha incamerato e digerito quasi tutto quello che ha letto, sentito, detto o fatto; un(‘)intellettuale è un individuo che ha dialogato con tanti e preso qualcosa da tutti, senza mai rinunciare ad ascoltare (e leggere) con spirito analitico e caparbia volontà di distinguere le singole voci dal mucchio; un(‘)intellettuale è un(‘)intellettuale se non si accontenta dei luoghi comuni e delle parole d’ordine sciorinate negli spazi e nei tempi in cui vive, perché un vero intellettuale è abituat@ ad andare oltre e a rintanarsi dentro il suo guscio da intellettuale, per poi uscire e rientrare, uscire e rientrare, come uno stantuffo dal ritmo irregolare; un(‘)intellettuale è una pianta che ha radici nel passato e fusti rizomatici protési verso il presente e il futuro; un(‘)intellettuale è una persona con una visione, un punto di vista e una prospettiva personale e impersonalizzabile; in un certo senso, è anche un veggente, un(‘)intellettuale, ma un veggente sempre dubbioso delle sue (pre)visioni e critico verso le sue stesse critiche; un(‘)intellettuale non teme confronti limpidi e onesti e sa quando è il momento di zittirsi per fermarsi a raccogliere le forze e riflettere sui suoi errori; un(‘)intellettuale è fastidios@ e necessari@ come la pioggia e il vento che sposta i semi di terra in terra; un(‘)intellettuale è inutile e indispensabile come la cioccolata dopo il caffè e la grappa dopo la cioccolata; un(‘)intellettuale è tale se dubita anche dei suoi dubbi e ha ripensamenti sui suoi ripensamenti; un(‘)intellettuale è un uomo (o una donna) che ride anche del suo pianto; un(‘)intellettuale non si accontenta, ma gode, e non smetterà mai di godere finché avrà ossigeno per la sua materia cerebrale e sangue che scorre sotto pelle.
Un(‘)intellettuale è un apostrofo tra due parentesi inutili e fastidiose.
Un(‘)intellettuale è inconcludente come questo e ogni pensiero
Un(‘)intellettuale è una persona che prova ogni giorno a pensare l’impensato; ma forse questo l’avete letto già, se siete arrivati fino a qua (chissà poi perché).
Una selezione dei commenti suscitati da questa immagine sul Faccialibro (spero che nessuno si risenta nel vedere citate in questo luogo pubblico le loro parole provenienti da quell’altro pubblico luogo).
Alessandro S.
Niente di particolarmente innovativo però…
Io In politica (soprattutto in tempi di diffusa demagogia come questo) non conta l’essere innovativi o particolarmente creativi, conta sapersi rivolgere alle viscere della popolazione e farlo al momento giusto.
Mario R.
Ma poi cosa sono queste viscere della popolazione?
[…]
In realtà Salvini fa quello che la Lega ha sempre fatto, facendo leva su un mitico identitarismo, prima localistico e mano a mano perfezionato. La predica cattolica e antislamica nasce nel 2001. Quello che è cambiato è il contesto.
Io Credo che tu ti sia risposto da solo, Mario. Le viscere, la pancia, le budella della popolazione sono l’identarismo, la chiusura, il familismo, la rassicurazione rispetto alle paure per il nuovo. La pancia non riesce ad andare molto oltre il proprio ombelico. È endogamica. È legata all’animalità dell’uomo. Alla ripetizione del consueto.
Iolanda P.
Per tanti il crocefisso è nulla e talvolta un obbrobrio. Non a caso è : “scandalo per i giudei, stoltezza per i pagani”
Io Per altri ancora un simbolo identatario usato in modo demagogico per promuovere guerre di religione che servono anche a distrarre la gente dai loro veri problemi e dalla corruzione o dall’incompetenza di chi detiene il potere.
Don Mimmo
La croce non è mai un simbolo identitario: grida amore al nemico, accoglienza e fraternità…
Io Infatti, caro don Mimmo, io penso che tanti che si proclamano cattolici e brandiscono il crocifisso come un’arma ignorino la novità del Nuovo Testamento e siano fermi alla legge del taglione e all’occhio per occhio dente per dente veterotestamentario. Mi sembra strano che sia io, che sono relativamente lontano dalla chiesa, a dover ricordare i principi della Nuova Alleanza, il messaggio radicalmente contrario alla violenza del Vangelo, il passaggio dal popolo eletto all’ecumene, l’universalità del Discorso della Montagna, i principi di misericordia e accoglienza tanto spesso ribaditi da Papa Francesco. Vedo, invece, malafede in chi continua a usare la croce come simbolo identitario e strumento per chiudersi all’altro (o, come scrivo nel post, come un’arma per distrarre il popolo degli elettori dai loro veri problemi e dall’incompetenza o dalla corruzione dei governanti e, al tempo stesso, strizzare l’occhio alla parte più distratta dell’elettorato cattolico).
Raffaele A.
Stiamo ritornando al tempo delle crociate, quando la croce era sui mantelli degli invasori e risuonava deus vult, il grido di battaglia di Pietro l’Eremita nelle sue predicazioni per arruolare crociati per la crociata dei pezzenti.
Si va dove si crede di poter migliorare la propria vita. Come i meridionali che andavano a Torino. Come i laureati italiani a Londra o a Berlino. Come gli ebrei del vecchio testamento alla ricerca della terra promessa, dell’arca perduta o di un po’ di pace nella tempesta. Come le mafie che non conoscono frontiere. Come i colonizzatori europei in Africa, in America o ovunque li portasse la loro brama di ricchezza e di potere. Come i neo-colonizzatori cinesi, statunitensi ed europei, sempre pronti a consumare un altro campo, un altro mare e un’altra montagna, dopo essersi chiusi alle spalle la porta di casa a quattro mandate e tre chiavistelli per assicurarsi che non passi lo straniero. Zu Zu Zum!
(Ma lo straniero passa, scavalca i portali e aggira le barriere, ora che ha perso la sua terra, il suo mare e la montagna; ma lo straniero passa, a stenti e a fatica passa, non sapendo che aldilà del muro lo aspetta un altro sfruttamento che per il suo corpo passa e attraversa la sua mente e la nostalgia che sente per la sua terra e la gente perduta; ma lo straniero passa e un altro falso equilibrio si sconquassa a favore di chi lucra sull’emergenza o fomenta la paura.)
Ciascuno va o vuol andare dove confida di poter cambiare vita e meglio fare il suo cammino, sì come da qui s’andava a Marcinelle o Torino.
[…]
Chi puote va e non lo puoi fermare se va per fame, brama o ingordigia cercando uscite dalla zona grigia che è dentro di noi o nell’inedia più nera che non lo sai di giorno se arriva la sera.
Da dove veniamo e da dove vengono le formiche anche dopo che ho riempito la casa di Baygon e otturato l’ultimo buco del muro?
Dio esiste? E, se esiste, ha davvero la barba bianca come Merlino, Albus Silente e Babbo Natale?
Dove andiamo quando moriamo e quando sono chiusi tutti i bar e le osterie?
C’è vino dopo la morte?
In inferno, di sicuro, non avremo più il problema dell’accendino, ma siamo certi che laggiù ci siano tabaccai e distributori automatici di sigarette?
Qual è il nostro ruolo nel mondo e a cosa servono i commentatori nei salotti televisivi?
Se Adamo, Eva e i loro figli erano i primi essere umani a popolare la terra, da dove caspita sono venuti i loro discendenti?
Da un’altra costola del padre? Da un accoppiamento che, date le esiguità delle combinazioni, poteva facilmente essere incestuoso? Da sotto un cavolo? Da una provvidenziale cicogna che passava di lì di frequente per evitare che si unissero la madre coi figli, le figlie col padre e i fratelli con le sorelle?
Oppure c’erano già le inseminazioni artificiali e le cliniche della fecondità del professor Antinori?
Se Noè è partito da Israele, i pinguini e le foche, l’arca, l’hanno raggiunta a nuoto?
C’erano anche i pesci, le balene e le rane coi rospi in quella salvifica arca e, se c’erano, li tenevano in un acquario, in un laghetto artificiale o in un acquitrino?
Ma, secondo Matteo 5:39, se dopo che porgo l’altra guancia il mio interlocutore mi dà un altro ceffone, debbo continuare a porgere ad infinitum? E, se sì, dopo la prima è la seconda, dove caspita le prendo le altre guance da porgere?
Se non debbo attenermi ad un’interpretazione letterale dei testi sacri, posso anche pensare che Dio è il Big Bang e i 10 comandamenti il regolamento del mio condominio?
Se amo il mio prossimo come me stesso e poi gli tocco i genitali, è masturbazione?
Se faccio la guerra agli infedeli in nome di Dio, la pace a chi la dedico? A Satana e a Belzebù?
Ieri, oltre alla 229esima ricorrenza dalla presa della Bastiglia, era il 97esimo anniversario della proclamazione della condanna a morte di Sacco e Vanzetti e il 122esimo anniversario della nascita del militante anarchico spagnolo Buenaventura Durruti.
Due facce opposte e complementari del movimento anarchico.
Stante alle ultime parole rilasciate ai giudici da Bartolomeo Vanzetti nel 9 aprile del 1927,* i due lavoratori italiani giustiziati negli Stati Uniti sono un esempio di anarchismo nonviolento, almeno quanto il rivoluzionario spagnolo lo era di un insurrezionalismo armato e militante.**
Un po’ come la linea armata e il diritto all’autodifesa proclamato da Malcom X contro la linea pacifista e nonviolenta propugnata da Martin Luther King per affermare negli anni ’60 i diritti civili della popolazione nera statunitense.
Beninteso, qualunque anarchico vuole l’abolizione della violenza e della sopraffazione dell’uomo sull’uomo come fine, ma una buona parte del movimento accetta la violenza come mezzo (almeno come mezzo usato dallo schiavo per insorgere e liberarsi dalle sue catene, secondo la linea resa popolare da Enrico Malatesta che proponeva un uso della forza proporzionata alla lotta in atto, ovvero una modalità strumentale all’uscita dallo stato di sudditanza e di oppressione e finalizzata all’approdo a una società priva di ogni forma di sopraffazione dell’uomo sull’uomo).
È un problema non di poco conto che personalmente mi sono posto fin da quando, a 18 anni, mi rifiutai di attenermi a un modello allora invalso tra gli obiettori di coscienza per chiedere il servizio civile alternativo a quello militare.***
Nel modello si dichiarava una cosa tipo: “sono obiettore di coscienza perché sono assolutamente contrario all’uso delle armi”. Io, da malatestiano, sostenni che “ero contrario all’uso delle armi imposto da un’entità esterna alla mia coscienza per la risoluzione di conflitti che non mi riguardavano” (sottindentendo, così, la possibilità di un uso personale delle armi per fini estranei a quelli eterodiretti da uno Stato in cui non credevo, fosse pure andarsene in un poligono a mirare a un bersaglio di legno). E la cosa mi creò anche dei problemi.
Oggi, probabilmente, mi sento più vicino al principio dell’assoluta contrarietà all’uso delle armi, ma un paliatone all’oppressore di turno glielo farei volentieri.
Da “Totò e i re di Roma“, film del 1951 diretto da Mario Moniceli e Steno.
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NOTE:
* Bartolomeo Vanzetti, ultime parole rivolte al giudice Thayer, al pubblico ministero Katzmann e a tutta la giuria il 9 aprile del 1927, pochi mesi prima di finire sulla sedia elettrica insieme con Nicola Sacco:
“[…] Non soltanto sono innocente di questi due delitti, non soltanto in tutta la mia vita non ho rubato né ucciso né versato una goccia di sangue, ma ho combattuto anzi tutta la vita, da quando ho avuto l’età della ragione, per eliminare il delitto dalla terra. [… Né] è stato provato che io abbia mai rubato né ucciso né versato una goccia di sangue in tutta la mia vita; non soltanto ho lottato strenuamente contro ogni delitto, ma ho rifiutato io stesso i beni e le glorie della vita, i vantaggi di una buona posizione, perché considero ingiusto lo sfruttamento dell’uomo. Ho rifiutato di mettermi negli affari perché comprendo che essi sono una speculazione ai danni degli altri: non credo che questo sia giusto e perciò mi rifiuto di farlo. Vorrei dire, dunque, che non soltanto sono innocente di tutte le accuse che mi sono state mosse, […] non soltanto ho combattuto tutta la vita per eliminare i delitti, i crimini che la legge ufficiale e la morale ufficiale condannano, ma anche il delitto che la morale ufficiale e la legge ufficiale ammettono e santificano: lo sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo. E se c’è una ragione per cui io sono qui imputato, se c’è una ragione per cui potete condannarmi in pochi minuti, ebbene, la ragione è questa e nessun’altra. […] Siamo stati processati in un periodo che è già passato alla storia. Intendo, con questo, un tempo dominato dall’isterismo, dal risentimento e dall’odio contro il popolo delle nostre origini, contro gli stranieri, contro i radicali, e mi sembra — anzi, sono sicuro — che tanto lei che mister Katzmann abbiate fatto tutto ciò che era in vostro potere per eccitare le passioni dei giurati, i pregiudizi dei giurati contro di noi. […] Ma la giuria ci aveva odiati fin dal primo momento perché eravamo contro la guerra. La giuria non si rendeva conto che c’è della differenza tra un uomo che è contro la guerra perché ritiene che la guerra sia ingiusta, perché non odia alcun popolo, perché è un cosmopolita, e un uomo invece che è contro la guerra perché è in favore dei nemici, e che perciò si comporta da spia, e commette dei reati nel paese in cui vive allo scopo di favorire i paesi nemici. Noi non siamo uomini di questo genere. Katzmann lo sa molto bene. Katzmann sa che siamo contro la guerra perché non crediamo negli scopi per cui si proclama che la guerra va fatta. Noi crediamo che la guerra sia ingiusta e ne siamo sempre più convinti dopo dieci anni che scontiamo — giorno per giorno — le conseguenze e i risultati dell’ultimo conflitto. Noi siamo più convinti di prima che la guerra sia ingiusta, e siamo contro di essa ancor più di prima. Io sarei contento di essere condannato al patibolo, se potessi dire all’umanità: «State in guardia. Tutto ciò che vi hanno detto, tutto ciò che vi hanno promesso era una menzogna, era un’illusione, era un inganno, era una frode, era un delitto. Vi hanno promesso la libertà. Dov’è la libertà? Vi hanno promesso la prosperità. Dov’è la prosperità? Dal giorno in cui sono entrato a Charlestown, sfortunatamente la popolazione del carcere è raddoppiata di numero. Dov’è l’elevazione morale che la guerra avrebbe dato al mondo? Dov’è il progresso spirituale che avremmo raggiunto in seguito alla guerra? Dov’è la sicurezza di vita, la sicurezza delle cose che possediamo per le nostre necessità? Dov’è il rispetto per la vita umana? Dove sono il rispetto e l’ammirazione per la dignità e la bontà della natura umana? Mai come oggi, prima della guerra, si sono avuti tanti delitti, tanta corruzione, tanta degenerazione. […] Questo è ciò che volevo dire. Non augurerei a un cane o a un serpente, alla piú miserevole e sfortunata creatura della terra, ciò che ho avuto a soffrire per colpe che non ho commesso. Ma la mia convinzione è un’altra: che ho sofferto per colpe che ho effettivamente commesso. Sto soffrendo perché sono un radicale, e in effetti io sono un radicale; ho sofferto perché sono un italiano, e in effetti io sono un italiano; ho sofferto di piú per la mia famiglia e per i miei cari che per me stesso; ma sono tanto convinto di essere nel giusto che se voi aveste il potere di ammazzarmi due volte, e per due volte io potessi rinascere, vivrei di nuovo per fare esattamente ciò che ho fatto finora. Ho finito. Grazie.”
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** Bisogna, tuttavia, aggiungere che vari studi mostrano Sacco e Vanzetti come due militanti anarchici integrati nei gruppi armati attivi negli anni ’20 negli Stati Uniti. Si veda, per esempio, questo articolo:
Ma questo nulla toglie al contenuto pacifista dell’arringa qui sopra riportata e degna del finale del “Monsieur Verdoux” di Chaplin (1947).
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*** Ovviamente gli anarchici duri e puri preferivano il carcere piuttosto che sottostare al compromesso di espletare un servizio civile alternativo al servizio militare, ma la durezza e, soprattutto, la purezza non hanno mai fatto al mio caso. Ho sempre preferito un margine di dubbio alle certezze assolute e ai dogmi imposti da autorità indiscutibili. Credo che questo mi preservi da ogni forma di terrorismo e di imposizione del proprio punto di vista sugli altri.
Era la scritta che c’era sulle gomme masticanti scadenti che compravamo a 10 lire l’una nei negozietti improvvisati nei bassi di palazzine cadenti di Via Roma e Via Cumana, quelli che vendevano fionde, soldatini, pazzielle, ciociole, botticelle, gomme e caramelle. Sulla carta, potevi vincerne un’altra. Ma normalmente le scartavi, ti affrettavi a leggere e trovavi sempre la stessa scritta: “Ritenta, sarai più fortunato”.
Nel mentre ti trovavi con la lingua rosa, le papille impastate da zuccheri e sciroppi sintetici e la mascella che si muoveva in modo sguaiato e pareva non potersi più fermare.
Ogni tanto facevi anche un palloncino e qualche bambino più piccolo ti invidiava, perché lui non sapeva ancora fischiare né trasformare la materia in globi trasparenti che crescevano a vista d’occhio. Tu abbassavi lo sguardo alla sua altezza, inarcavi le sopracciglia, lo fissavi severo e pareva che stessi lí lí per dirgli: “Ci hai provato. Non ci sei riuscito. Ritenta. Fallirai di nuovo. Fallirai meglio…”. E infatti la sua sfortunata bocca continuava a fare fetecchie e sembrava che sarebbe stato così fino alla fine del mondo, fino alla fine dei tempi.
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P.s. Mentre pubblico, mi viene in mente che nelle gomme di Rin Tin Tin la scritta era diversa, molto più icastica e semplificata. Si leggeva solo, tutto in maiuscolo: NON HAI VINTO.
Molte volte abbiamo ritagliato con cura quel NON e, a furia di tentare e ritentare, qualche volta, con la vecchina che chiamavano ‘a spurtellara, ci è andata anche bene.
Ma ora mi viene il sospetto che lei, che vedevamo così burbera negli abiti neri e i capelli lunghi e arruffati, facesse finta di non accorgersi della nostra maldestra truffa ai danni di Rin Tin Tin.
Che Dio l’abbia in gloria! A lei e a Rin Tin Tin.
Ora che è trascorso qualche giorno, provo a fare un resoconto delle tre serate del Mediterraneo Reading Festival viste da dentro. Quest’anno mi onoro di essere il vicepresidente della neonata associazione che cura il festival; un’associazione che, come dice il nostro presidente Mimmo Giuliano, si propone di creare un terreno culturale fertile per dare vita a momenti di arte e di sperimentazione sui linguaggi, in modo tale che le giornate estive di spettacoli, incontri ed esibizioni debbano diventare il culmine di una ricerca artistica destinata a durare per tutto l’anno.
Sono stati tre giorni molto belli ed intensi che hanno avuto un precedente nella presentazione del Festival fatta la settimana prima con l’incontro con Angelo Petrella e la lettura di tre vibranti poesie di Lina Sanniti accompagnate al piano da Filippo Piccirillo.
Giornate intense, dicevo, che hanno tenuto fede al nostro obiettivo di realizzare incontri di musiche e parole che partano dalla provincia a nord di Napoli per affacciarsi sul Mediterraneo e sul mondo. Il nostro vuole essere un festival aperto all’intimismo, alla convivialità, alla riflessione, alla gioia di vivere, alla sperimentazione ed alla commistione dei generi in un clima di confronto e di partecipazione, mettendo in scena esibizioni delle arti “più disparate e disperate”.
Il primo giorno si è aperto alla grande con il cantautore Antonio Del Gaudio che ci ha presentato tre brani di teatro e musica (due accompagnati al piano) che trasudavano dolore, disperazione ed autoironia. Il primo, recitato in duetto con una voce fuori scena, è stato un confronto acceso e imbarazzante con una madre ingombrante come una mamma del sud o una “yddish mame“. Il secondo, un stralunato canto di corteggiamento. Il terzo un dialogo di un bambino con il padre, incentrato sul quesito filosofico e surreale “Cosa c’è dietro il mare?“. Il tutto con un sottofondo pianistico sapientemente suddiviso tra la voce del padre accompagnata dalla mano sinistra sulla tastiera e quella del figlio dalla destra.
Le canzoni sghembe di Del Gaudio mostrano un dominio della composizione musicale che mi fa pensare a quegli acrobati che camminano sul filo travestiti da pagliacci e fingono di non essere in grado di arrivare all’altro capo della fune. Ma poi ci arrivano tra mille piccole acrobazie che mostrano una perizia mascherata da goffaggine.
La sua performance è stata apprezzata anche da Mariella Nava, che qualche minuto dopo ha emozionato il pubblico che affollava il suggestivo chiostro del centro sociale di Frattamaggiore con la sua musica e le sue parole.
La celebre cantante e autrice era accompagnata da un chitarrista ed un bassista (in qualche caso si è servita anche di qualche base o ha lasciato le tastiere per una tammorra) ed ha alternato le canzoni con interessanti aneddoti sui suoi esordi, sulla sua carriera, i suoi incontri artistici, i big della canzone italiana che hanno interpretato le sue composizioni (tra gli altri, Gianni Morandi, Edoardo De Crescenzo, Renato Zero…) e i modi svariati in cui possono nascere brani popolari come “Questi figli”, “Come mi vuoi”, “Spalle al muro”, “Notte americana” e “Così è la vita”…
La Nava ha anche accompagnato al piano la lettura di due poesie: ‘O mare, di Marco Junior Dentale, e Io non ho paura, di Florin Valentin, lette dagli autori che sono ospiti delle strutture riabilitative psichiatriche Spartaco/Gladiatore di Sant’Antimo e Tifata di San Prisco.
La seconda serata è stata introdotta dal giovane chitarrista Gian Piero Bencivenga che ha interpretato con gusto e padronanza un arrangiamento di Fausto Mesolella della “Pavane” di Grabriel Fauré. Fausto Mesolella è una presenza che aleggerà sempre sul nostro Festival. Ci aveva deliziato, nella prima edizione, con le note della sua chitarra in un concerto trascinante e solitario. Alla seconda lo abbiamo celebrato con un brano suonato da Jennà, Mirko, Tricarico e Vittorio Remino. Ed ora è tornato con la materia della sua musica attraverso questa rilettura della Pavane…
Subito dopo, è stata la volta dell’inedito incontro dei Letti Sfatti con un quintetto di ottoni diretto dal Maestro trombonista “Tonino” Domenico Brasiello, accompagnato da Vincenzo Leurini (tromba), Francesco Amoroso (tromba), Luca Martigliano (corno), Alexandre Cerdà (tuba).
In totale, otto musicisti in scena, sapientemente alternati in varie formazioni che hanno dato al concerto un andamento eclettico e variegato in cui si sono susseguiti:
– brani in solo di Jennà Romano
– duetti con Mirko Del Gaudio (suo sodale di sempre), alla batteria
– duetti con Pasquale Di Resta, alle chitarre (Pasquale è diventato da poco il terzo elemento del gruppo. In questi pomeriggi ho avuto modo di fare molte chiacchierate con lui. È una bella persona con una profonda conoscenza musicale e mi auguro che possa suonare a lungo con Mirko e con Jennà)
– trii in formazione rock o pop
– brani arricchiti dagli ottoni del Neapolis Quintet Brass Ensamble.
La contaminazione è il leit-motiv di un festival che ha come prima parola della sua denominazione il Mediterraneo, un mare che unisce, separa e si riempie di cadaveri. In questo incontro abbiamo assistito a una produttiva e liquida miscela tra il repertorio dei Letti Sfatti e gli stilemi del quintetto classico di ottoni, in tutte le sue declinazioni, anche quelle che si fondono con il jazz o con la musica da banda.
Il concerto si è aperto con un’interpretazione per sola chitarra e voce di “Tu no”, dolente canzone d’amore di Piero Ciampi, il poeta maledetto livornese che è una sorta di nume tutelare e spirito guida dei Letti Sfatti (oltre ad aver vinto nel 2009 un premio a lui dedicato, nel 2012 Jennà e Mirko hanno anche dedicato a Ciampi un intero album arricchito da una splendida foto di copertina di Salvatore di Vilio. Peraltro, Ciampi era stato già evocato in questo festival nell’intro della troppo breve performance di Antonio Del Gaudio).
A partire dal secondo, dal terzo e dal quarto brano in scaletta, “Zollette di stelle”, “Lei balla il mambo” e “Palmiro”, i suoni si sono via via andati arricchendo di nuovi elementi che hanno dato nuova vita a brani già di per sé avvolgenti e ben costruiti. E precipitiamo subito nel mondo dei Letti Sfatti fatto di storie d’amore mal corrisposto, malessere esistenziale e personaggi di periferia in un Paese che cambia lasciando indietro gli ultimi.
“Io sono quello che non ha mai avuto un ombrello e quando piove d’amore non si sa riparare…”
“Il suo nome è Palmiro, Ma non lo ha scelto lui. Suo padre era comunista E ora è solo di sinistra. Il suo nome è Palmiro, Come un marchio sbiadito…”
Di seguito, i rimpianti di “La fiamma di una candela” si fanno più struggenti grazie agli interventi musicali di Pasquale di Resta che comincia a farci sentire un primo assaggio della sua chitarra elettrica suonata con l’archetto.
Il quinto brano, che è tra quelli che sono riuscito a videoregistrare quasi integralmente, ci permette di ascoltare il bel lavoro di arrangiamento dei fiati fatto da Brasiello. Si tratta di “Quello che ho di te”. Ascoltate quanto è bello il “bridge“.
Di seguito, è stata la volta della versione tradotta in napoletano dai Letti Sfatti del capolavoro di Piero Ciampi (rieccolo qua) “Il Vino”. Purtroppo, riesco a farvi sentire solo la coda del brano. Ma credo che sia sufficiente per farvi apprezzare l’arrangiamento vagamente dixieland dei fiati e il drumming deciso e sicuro di Mirko. Un’atmosfera ubriaca che ci lascia in bilico tra Ciampi, Totonno ‘e Quagliarella e il Tom Waits di The piano has been drinking (not me) o di Swordfishtrombones e di Bone Machine.
Tra gli applausi, Mirko e il quintetto si allontanano per lasciare sul palco Jennà e Pasquale che interpretano questa struggente versione di “Casandrino”, una canzone dedicata a un ragazzo che emigra nel degrado della provincia e perde la sua partita con la vita. Trovo molto suggestivi i suoni che Pasquale tira fuori dalla sua chitarra con quell’archetto che gli permette note lunghe come quelle di un violoncello. Ascoltate.
Con “Dietro quelle porte” si cambia atmosfera tornando all’energia percussiva di Mirko che ci regala anche un trascinante e coinvolgente assolo di batteria.
Ugualmente prezioso il suo lavoro che funziona come il clic di un metronomo per il brano seguente, in cui tornano a suonare tutti e otto gli elementi di questo concerto dei “Letti Sfatti allargati”.
Il brano è “Comincio a credere che”, di cui vi faccio sentire la bellissima coda con una tessitura armonica dei fiati che ho sentito varie volte nelle prove e che nella mia testa è diventata una specie di sigla del concerto.
L’ultimo brano prima del bis è una canzone dedicata a questa Italia qua che, guarda un po’, si intitola “La troia”.
Lungo applauso alla troia e poi il bis, che si apre con un brano dedicato a “Pantani”, che mette in dialogo il “Bartali” vincente di Paolo Conte con il destino sfortunato del “pirata”.
Segue una bellissima versione di “Stella di mare” di Lucio Dalla.
Jennà forse non lo sa (o forse glielo ho già detto, non mi ricordo), ma io lo ho cominciato ad apprezzare proprio ascoltando la sua versione percussiva di questo brano suonato da solo al bouzouki. Questa è un’altra versione da brivido che si avvale dell’apporto di Mirko e Pasquale.
L’ultimo brano del concerto è una ripresa di “Zollette di stelle” che potete ascoltare qua…
Insomma, se sabato non siete venuti, avete fatto male.
E avete fatto male anche se non siete venuti domenica, quando c’era il concerto-spettacolo di Massimo Masiello “Gli amici se ne vanno”, dedicato alle “note ineguali di Umberto Bindi”. Si tratta di una sorta di biopic teatrale scritto da Gianmarco Cesario e Antonio Mocciola e dedicato alla vita sfortunata e dolente di questo grande proto-cantautore genovese, condannato all’ostracismo dopo che fu rivelata la sua omosessualità. Molto convincente l’interpretazione di Masiello che si avvale anche di buone qualità vocali messe in risalto dagli arrangiamenti minimali ed essenziali di Jennà Romano.
E con questo spettacolo contundente e scomodo il festival è finito, gli amici se ne vanno…
Arrivederci alla prossima edizione e grazie a tutti quelli che hanno dato una mano o un pezzo del loro grande cuore.
A Frattamaggiore, la cittadina in provincia di Napoli dove sono nato e cresciuto, si va formando una sezione di salvinisti.
Comincio ad avere sempre più paura.
Ma sia chiaro che non temo Salvini in sé, ma il Salvini che è in me. Quello che si infastidisce ai semafori, quello che ha paura di essere invaso e sente la puzza sui pullman… Quello che si illude che, chiudendo tutte le porte, vivrà al sicuro tra le mura della sua casa e sparirà ogni fastidio e ogni rumore fuori scena… Quello che vuole difendere con le unghie e coi denti il benessere raggiunto. Quello che si fotte dalla paura perché pensa che prima o poi gli toglieranno la pensione; ma non si è ancora fatto due conti sullo stato del lavoro in Italia e sui tassi demografici dell’Occidente… Quello che cerca un capo, un capitano e un capro espiatorio. Quello che si tiene occupato cercando un nemico da abbattere… Quello che non vuole ragionare, ma solo incazzarsi e prendersela con qualcuno. Meglio se zingaro o niro niro comm’a cche!
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Il passo sul “Salvini che è in me” è una parafrasi di un pensiero di Gian Piero Alloisio reso popolare da Gaber. Io, da parte mia, l’avevo già sfruttato in un post precedente. Mi pareva giusto dirvelo. Ve l’ho detto. Chiudo tutto e torno a letto.