Voglio l’utopia, voglio tutto e di più.
Voglio la felicità negli occhi di un padre.
Voglio l’allegria, tante persone felici…
Voglio che la giustizia regni nel mio paese.
Voglio la libertà. Voglio il vino ed il pane.
Voglio essere amicizia. Voglio amore, piacere…
Voglio la nostra città sempre piena di sole.
I ragazzi e il popolo al potere, voglio vedere.
San José di Costa Rica, cuore civile,
Ispira al mio sogno d’amore il Brasile.
Se il poeta è colui che sogna ciò che sarà reale,
È bello sognare le buone azioni che compie l’uomo
Ed aspettare i frutti nel cortile.
Senza più polizia, senza milizia né raggiri, dove sta il potere?
Viva l’accidia, viva la malizia che solo la gente sa avere.
Così, dichiarando la mia utopia, sto conducendo la vita mia.
Vivo molto meglio,
Nella spasmodica attesa di vedere che il mio sogno ostinato diventi realtà.
[Milton Nascimento, “Coração civil“, 1981.]
La traduzione, piuttosto libera, ma radicata nel testo originale, è mia.
Quero a utopia, quero tudo e mais. Quero a felicidade dos olhos de um pai. Quero a alegria, muita gente feliz… Quero que a justiça reine em meu país. Quero a liberdade. Quero o vinho e o pão. Quero ser amizade. Quero amor, prazer. Quero nossa cidade sempre ensolarada. Os meninos e o povo no poder, eu quero ver.
São José da Costa Rica, coração civil, Me inspire no meu sonho de amor Brasil. Se o poeta é o que sonha o que vai ser real, Bom sonhar coisas boas que o homem faz E esperar pelos frutos no quintal.
Sem polícia, nem a milícia, nem feitiço, cadê poder? Viva a preguiça, viva a malícia que só a gente é que sabe ter. Assim dizendo a minha utopia eu vou levando a vida. Eu viver bem melhor, Doido pra ver o meu sonho teimoso, um dia se realizar.
Era il 1981. “Coração Civil” era la nona traccia dell’album “Caçador de mim“.
Milton Nascimento la compose a quattro mani con il poeta Fernando Brant, suo complice nella scrittura di oltre 200 canzoni che sono parte integrante della Música Popular Brasileira. Fernando e Milton, erano i Mogol/Battisti della MPB ed erano molto di più. Insieme con un collettivo di artisti che comprendeva, tra gli altri Lô e Márcio Borges, Wagner Tiso, Beto Guedes, Flávio Venturini e Toninho Horta, fondarono a Belo Horizonte (capitale di Minas Gerais) un movimiento musicale che prese il nome di “O Clube da Esquina“, il club dell’angolo. Erano gli anni ’60, in parallelo con i tropicalisti (Caetano Veloso, Gilberto Gil, Gal Costa, Tom Zé, Nara Leão, Rita Lee e Os Mutantes, Jorge Bem, Maria Bethânia…) la musica in Brasile stava cambiando.
“Nada ficou como antes“, niente restó come prima in quell’enorme federazione di Stati pieni di fermenti culturali, ma oppressi da una dittatura che durò fino alla metà degli anni ’80.
La bossa nova e il samba si incontravano con la musica pop britannica (soprattutto i Beatles), con la cultura hippy, i ritmi africani, il jazz e il jazz-rock, la psichedelia, la musica e l’arte di impegno civile…
“Coração civil” fu composta qualche anno dopo questi primi fermenti, quando ormai cominciava a intravedersi un processo di democratizzazione che preludeva alla fine della ventennale dittatura del Brasile.
Il riferimento al Costa Rica ed alla sua capitale (San José) è dovuto al fatto che questo piccolo Paese del Centro America è uno Stato di antica e salda democrazia e, dal 1948, è anche la prima nazione al mondo a non avere un esercito (con le caserme trasformate in musei e gli investimenti in armi deviati verso l’istruzione, la lotta alla povertà e la protezione dell’ambiente e del territorio):
Sem polícia, nem a milícia, nem feitiço, cadê poder?
Senza più polizia, senza milizia né raggiri, dove sta il potere?
Un’utopia realizzata, la concretizzazione del sogno di un poeta, perché
Se o poeta é o que sonha o que vai ser real, Bom sonhar coisas boas que o homem faz E esperar pelos frutos no quintal.
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Al margine, in appendice…
Ascoltate anche questa versione tratta dal musical “Ser MINAS tão GERAIS“, un cui Milton canta con il gruppo teatrale Ponto de Partida e con il coro dei bambini di Araçuai.
Nella spasmodica attesa che il mio ricorrente sogno diventi realtà.
I sospetti poco informati sui contenuti e sulla portata dei messaggi di Greta Thunberg
Da più parti, soprattutto da sinistra, si guarda con sospetto al risalto internazionale ottenuto dalle proteste di Greta Thunberg.
Per molti lei è solo un’agente (probabilmente inconsapevole) di un cambiamento epocale del capitalismo che sta spingendo verso una nuova economia basata su auto elettriche, bottiglie di alluminio, bioplastiche, energia verde.
Personalmente non mi sento di escludere che ci siano i soliti pescecani che girano intorno ai corpi sanguinanti che galleggiano nelle acque della contemporaneità, pronti ad azzannare la preda e a trarne profitto.
Ma, se si leggono le autentiche parole pronunciate da Greta nei suoi discorsi pubblici, si scopre che in più parti vengono sottolineati “gli aspetti di giustizia ed equità” e che il suo è un messaggio dalla portata molto più rivoluzionaria dell’affermazione di un semplice cambiamento di stili di vita.
“Come osate far finta che questo può essere risolto con il business-as-usual e alcune soluzioni tecniche?”, afferma nel suo ultimo discorso pubblico tenuto a New York in un vertice sul clima delle Nazioni Unite.
Insomma, non si tratta solo di cambiare la nostra way of life o di cercare palliativi che ci permettano di tenere in piedi il sistema in atto. Si tratta di cambiare il sistema.
È la parte più ignorata e sottaciuta del Thunberg-pensiero, la parte più scomoda…
“Nessuno parla mai degli aspetti dell’uguaglianza chiaramente affermati in ogni parte dell’accordo di Parigi, che sono assolutamente necessari affinché funzionino su scala globale. Questo significa che nazioni ricche come la mia devono abbassare le loro emissioni fino allo zero, nei prossimi 6–12 anni in base alla velocità delle emissioni attuali, così che le persone dei Paesi più poveri possano aumentare i loro standard di vita costruendo alcune delle infrastrutture che noi abbiamo già costruito, come ospedali, reti elettriche e acqua potabile.
Come possiamo aspettarci che Paesi come India, Colombia o Nigeria si preoccupino della crisi climatica se nemmeno noi, che possediamo già tutto, ci preoccupiamo almeno per un secondo del reale impegno che ci siamo presi con l’accordo di Parigi?
[…] Non possiamo salvare il mondo rispettando le regole. Perché le regole vanno cambiate.”
(Greta Thunberg, discorso al segretario Unite delle Nazioni António Guterres)
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“La civiltà viene sacrificata per dare la possibilità a una piccola cerchia di persone di continuare ad accumulare un’enorme quantità di profitti. La nostra biosfera viene sacrificata per far sì che le persone ricche in Paesi come il mio possano vivere nel lusso. É la sofferenza di molti a garantire il benessere a pochi. […]
Non possiamo risolvere una crisi se non la trattiamo come tale: dobbiamo lasciare i combustibili fossili sotto terra e dobbiamo focalizzarci sull’uguaglianza. E se le soluzioni sono impossibili da trovare all’interno di questo sistema significa che dobbiamo cambiare il sistema.”
(Greta Thunberg, Katowice, XXIV Conferenza delle Parti sul Clima (COP24), dicembre 2018)
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Tutto questo, a ben vedere, non può essere compatibile con l’idea di continuare con il sistema in atto attuando piccole riforme in senso verde. Il messaggio è molto più politico e assai più rivoluzionario. Non credo che la Toyota, la Volkswagen, la Nissan, la GM, la Tesla, la Shell, la Renault, la Fiat Chrysler, Ingmar Rentzhog, la ENI e compagnia contante siano disponibili a seguirla fino in fondo su questa radicale richiesta di cambiamento.
A volte mi viene perfino il sospetto che sia il sistema capitalistico internazionale a spargere la voce che Greta Thunberg sia una loro quinta colonna per svilire la parte più rivoluzionaria del suo urlo contro la spietatezza e l’iniquità delle regole del gioco.
Ed è su questo che dobbiamo essere disposti a seguirla e a darle il nostro appoggio. Senza perdere il nostro senso critico e senza affidarci ciecamente al messia di turno.
Agostino pensava che se non fosse nato in quelle palazzine occupate abusivamente quando ancora non erano state intonacate, avrebbe potuto fare una bella vita; o almeno avrebbe fatto una vita meno brutta di questa, pensava.
E invece, in mezzo a quel cemento, era scontento di tutto, Agostino: della gente piena di problemi che gli stava intorno, era scontento; delle strade sterrate e polverose che attraversava milioni di volte all’anno per entrare e uscire di casa, era scontento; dei tossici che vagavano per quelle strade con lo sguardo perso nel vuoto e una perenne richiesta di aiuto stampata in faccia, era scontento; dei cumuli di immondizia che crescevano ai bordi della strada, era scontento; della sua casa sempre piena di gente e senza un fottuto spazio per piangersi addosso in silenzio, era scontento; di sua madre, di suo padre e dei suoi fratelli sempre a caccia di soldi e in cerca di occasioni per darsi addosso e sbranarsi a vicenda, era scontento; dei suoi stramaledetti compagni di classe e dei loro scarponi all’ultima moda, era invidioso e scontento; dei muschilli che scorrazzavano in motorino senza avere nessun posto dove andare, era scontento; del prete che lo accarezzava troppo e gli dava pacche sul culo, era turbato, scocciato e scontento; del sole che abbrustoliva i corpi, rinsecchiva i prati e faceva ardere il cemento, era esausto…, esausto e scontento…
Di tutto si lamentava e di ogni cosa era insoddisfatto, Agostino. Tanto più in quella notte che era il 10 di agosto e lui non aveva mai visto il mare da vicino e il cemento tratteneva ancora il caldo del mattino e in casa c’era un’afa e una puzza di sudore che non si poteva dormire.
Per fortuna c’avevano il balcone e, caso raro, non erano ancora rientrati i fratelli più grandi, che sul balcone si facevano le canne e mo, invece, chissà dove caspita stavano a pariare e sbordellare quei quattro scapocchioni trocati. Che poi, questa sera, pure se fossero rientrati, sarebbe rimasto sul balcone con loro, Agostino; anche se avessero provato a cacciarlo via a calci in culo. Quella sarebbe stata la benedetta volta che avrebbe fumato la sua prima canna. Deciso. Ormai aveva 11 anni, Agostino, e non era più un moccioso. Finalmente avrebbe smesso di mentire a Ciro e a Tonino che erano già 2 anni che diceva loro che pure lui si faceva una cannetta ogni sera, sennò non riusciva a rilassarsi e a dormire. Ma loro mica ci credevano e, in fondo, anche Agostino aveva qualche dubbio sul fatto che Tonino e Ciro lo avessero mai fatto un tiro. Nei quartieri tutti si sparavano le pose e volevano sembrare più grandi di quello che erano e ti guardavano dall’alto in basso con i piedi piantati per terra e la testa su su fino alle nuvole…
I fratelli, intanto, non arrivavano e lui, stanco di cercarli nel buio di quei lampioni rotti, alzò gli occhi al cielo e cominciò a pensare alla luna che gli avrebbe portato fortuna e magari presto avrebbe vissuto altrove, lontano, lontanissimo da lì.
“Aspetta, aspetta, ma questo il 10 di agosto è proprio il giorno di quel fatto delle stelle che cadono e se dici sottovoce un desiderio mentre vedi la stella cadere poi quello veramente succede, che è meglio che azzeccare i numeri all’Enalotto, se vedi una stella che cade e tu fai in tempo a spremere il tuo desiderio.”
Assorto in consimili pensieri, il piccolo Agostino smise di fissare la fottuta strada in attesa del rientro dei fratelli e si mise a scrutare le stelle.
C’era un venticello fresco e finalmente si poteva un po’ respirare.
Ma dove cazzo erano finite le stelle?
“Caspita, prima ne vedevo a infinità e mo che mi servono non ne vedo neanche una. Nemmeno di quelle che non cadono. Tutto in una botta, il cielo è diventato una televisione scassata.”
Deluso e amareggiato, si mise a fissare la luna, Agostino. In fondo era una stella pure quella. Pure più grande e più bella, ‘a verita’. E la luna man mano che lui la guardava, si faceva più grande, ancora più grande, accidenti, e ancora più grande e più vicina, perfino. Ora si vedeva pure la sua ombra ai piedi di Agostino…
Ma Agostino non fece in tempo ad esprimere il suo ultimo desiderio, schiacciato da un satellite che credeva essere la più grande delle stelle, e la più bella.
Con lui finirono schiacciati pure il padre, la madre, i quattro fratelli, i tossici del quartiere, i vicini, i compagni di classe, i muschillli, il prete, Ciro, Tonino e il mondo intero.
Tutti finirono schiacciati.
(Tranne te e me che non ci abbiamo mai creduto che la luna, la luna, ci porterà fortuna. E tiriamo avanti come se niente fosse o fosse stato.)
La memoria perenne del web mi fa ritrovare le pagine perdute di aitanblog.splinder.it/.com e tanto altro che credevo perduto. E io non so se sia un bene.
Nata in California nel 1996, Internet Archive (https://archive.org) è un’immensa biblioteca digitale, che custodisce e mette gratuitamente a disposizione di tutti i naviganti:
– milioni di libri in versione digitale (anche in connessione con biblioteche virtuali di mezzo mondo)
– software (da copie ISO di sistemi operativi in disuso a giochini “vintage” o a libera distribuzione)
– file audio (inclusi brani musicali)
– video (anche interi film)
– immagini (provenienti da centinaia di collezioni)
– pagine di siti web (anche scomparsi dalla rete).
Il suo obiettivo dichiarato è offrire la possibilità di un “accesso universale alla conoscenza”, il sogno, insomma, di una cultura libera e accessibile a tutti.
La parte più cospicua di questa sconfinata raccolta di dati digitali è l’archivio web (web.archive.org) costituito da una collezione di 377 miliardi di “istantanee” (snapshot) del World Wide Web archiviate secondo la data di acquisizione. Non si tratta, dunque, di semplici screenshot, ma di pagine dinamiche funzionanti in ogni loro aspetto; una risorsa importantissima per ritrovare siti scomparsi dalla rete o visualizzare i cambiamenti storici di siti ancora esistenti. In pratica, una macchina del tempo virtuale in cui, caricato l’URL di un sito sulla barra di ricerca del web-archivio, si scorre su un calendario la sua cache memory, visualizzando quello che quel giorno avrebbe visto chi vi avesse avuto accesso.
Ho messa alla prova questo sterminato contenitore di pagine web cercando la prima versione del mio blog personale ospitata sulla piattaforma Splinder. Splinder fallì nel 2011 facendo sprofondare nell’oblio una parte cospicua della blogosfera italiana che, a quei tempi, era ancora molto attiva e vitale (nel 2011 Facebook non aveva ancora fagocitato il mondo dei blog: allora il social network di Zuckerberg & Co. si limitava a 7-800 milioni di utenti contro gli oltre due miliardi di oggi).
Il mio blog (tuttora attivo e resistente su wordpress) è stato ospitato da Splinder (prima nella versione splinder.it poi nella versione splinder.com) dal 2003 al 2011.
In questi anni le sue pagine sono state state “riprese” da archive.org una sessantina di volte, il che mi ha permesso di rivedere oggi aitanblog come era allora, con la formattazione scelta da me e tutte le immagini e i giochini (per lo più, in javascript) che caricavo; mentre nella migrazione che feci illo tempore su wordpress.com molto era andato perduto o risultava formattato in modo differente dalla versione originale.
Ho scelto, pertanto, di conservare qui il link delle pagine che mi sono parse più indicative (e meno ripetitive), anche al fine di attingervi per mettere ordine alla versione wordpress attuale (compatibilmente col tempo che non ho):
Una prova ulteriore che il passato, una volta pubblicato in rete, non si cancella e resta là /qua, a futura memoria, anche quando vorremmo liberarcene e tenerlo lontano dagli occhi indiscreti di questo eterno presente.
– Liberiamo la terra dai fuochi in città e in ogni parte del mondo. Prima che sia troppo tardi.
– Ma che dici? Che caspita vuoi liberare? Non vedi che siamo accerchiati dal fuoco di migliaia di roghi?
[Coro]
– È troppo tardi, ormai! Brucia tutta la contea e non c’è più riparo che tenga o muro o steccato che ci protegga o difenda.
– I ponti li abbiamo abbattuti; non possiamo neanche cercare rifugio sull’altra riva del fiume; ammesso che dall’altra sponda abbiano già sedato le orde infiammate e i roghi sparsi di campo in campo, di prato in prato e di terra in terra.
– Sono mesi ormai che non sappiamo più niente di loro.
– Potrebbero anche essere tutti morti, arsi vivi o crepati in un qualche tentativo di fuga, schiantati da una trave, da una pioggia di calcinacci o da un albero divelto…
– Precipitati in un burrone o dilaniati dalla fame e dalle fiamme.
– Tutto d’un tratto, potrebbe ardere al fuoco anche il crine di cavallo che regge la spada che incombe sulla nostra testa. Non lo vedete che il ferro è incandescente…? Può piombarci addosso da un momento all’altro, oppure ora stesso.
– Sento già la puzza di bruciato e il calore che si spande dal selciato.
– Silenzio, silenzio! C’è poco da parlare e molto da fare. Anche se nessuno sa cosa.
– E ormai non ci sono più nemmeno nemici su cui addossare colpe né acqua per spegnere il fuoco e lenire le pene.
– Non facciamo in tempo ad estinguere un rogo da una parte, che qualcuno…
– O qualcosa…
– …Appicca un incendio dall’altra.
– Non c’è più speranza.
– Secondo me sono ancora loro, altro che morti.
– Ma no, non inciampiamo sempre sulle stesse pietre. I responsabili sono altrove.
– O dentro noi stessi.
– Sì, ma che parliamo a fare, ora?
– Prendete vecchi e bambini e scappiamo verso il fiume. Sono giorni che sull’altra sponda non si intravedono fuochi o nuvole di fumo.
– Portate asce, seghe, chiodi e martelli. Proveremo a ricostruire il ponte…
– A ricostruire la contea…
– A rifare il mondo!
La questione non è più tanto essere o non essere, e neanche la dicotomia avere o essere regge di fronte alla realtà virtualizzata del nostro presente (tanto eterno all’apparenza quanto effimero nella sostanza, come ogni altro presente susseguito nella storia dei fatti dell’umanità e dell’ambiente che l’uomo ha modellato e modella a misura della sua avidità e della sua volontà di potenza e di apparenza; ma mi sto anticipando, e non sta bene anticiparsi e dilungarsi tanto in una parentesi aperta all’inizio della dissertazione).
La questione, dicevo, non è più tanto essere (to be) o non essere (not to be), e neanche la dicotomia avere (to have) o essere (to be) regge di fronte al presente…, la questione ormai è, più che altro, essere (to be) o essere visti (to be seen).
Per dirlo in latinorum, il dilemma odierno si riassume nella formuletta “esse aut videri“, dove “videri” vuol dire tanto “to be seen” (essere visto) quanto “to seem / to look“, ovvero “sembrare”, “apparire”.
Non mi importa essere buono; non mi importa godermi un’alba, un tramonto o un’onda che si infrange sulla scogliera; non mi importa andare a un concerto o leggere un buon libro; non mi importa nemmeno che tu mi dica che mi ami. Mi importa apparire buono; mi importa essere visto di fronte a un’alba o a un tamonto oppure raccogliere “like” per la foto quadrata di un’onda che si infrange sulla scogliera; mi importa sembrare assorto e contento mentre ascolto una musica che nemmeno sento o mentre leggo un libro che non ho letto e non leggerò mai; mi importa che tu lo scriva su Facebook che mi ami e posti in Instagram il nostro bacio perfettamente inquadrato.
Non mi importa essere felice, quello che voglio è sembrarlo ed essere visto mentre lo sembro.
“Videor, videris, visus sum, videri” è l’imperativo categorico dei nostri giorni. Perché di fronte all’isolamento autistico delle nostre vite, solo l’essere visto ci dà la certezza di essere vivi.
E, in fondo, anch’io sono quello che vedi, e se smetti di vedermi, scompaio e smetto di esistere.
Da sempre e per sempre.
Il che conferma l’esistenza dell’altro e dell’ambiente che gli fa da sfondo: l’altro c’è, sta là ed esiste, almeno per confermare che io ci sono, sono qua ed esisto. Per quanto ognuno, chiuso nel suo monitor, sembri negare ad ogni momento che esista altro al di fuori di sé; e l’altro urla, si dibatte e si dimena per farsi vedere e chiedere un like, un piccolo cuore, una lacrima, un gesto di considerazione e di commiserazione. Prima che finisca il mondo (o, almeno, prima che finisca un testo come questo che null’altro vuole che essere visto e premiato con un pollice eretto o un fottuto cuoricino; anche se lo sa che non sta bene elemosinare consenso e dilungarsi più di tanto in una parentesi chiusa in conclusione).
Tre ore di pace e musica al “Mediterraneo Reading Festival” di Frattamaggiore
Per la terza e ultima serata del MRF abbiamo chiesto a una serie di amici musicisti e cantanti di restituirci qualcosa del clima dell’ultimo periodo degli anni ’60. Lo spunto era il cinquantenario delle tre giornate di Woodstock che videro raccolto il movimento hippie, ad agosto del ’69, in un grande appezzamento di terreno affollato da almeno 400.000 persone; più di quanti ne abitino a Bologna, a Bari o a Firenze, per intenderci.
Un evento epocale della storia del rock e della cultura PEACE & LOVE, ma, per certi versi, anche il canto del cigno della generazione dei figli dei fiori, l’inizio del declino di quel movimento informale che aveva protestato contro la guerra in Vietnam (1955-1975), chiedendo di sostituire le chitarre coi fucili, predicando l’amore libero, cercando l’allargamento degli stati di coscienza attraverso le droghe e il ritorno alla natura e alla vita comunitaria. Erano tempi in cui un crescente numero di giovani manifestava un rifiuto per le norme imposte e il conformismo della vita borghese dei padri, riecheggiando lo spirito contestatario che si era sviluppato con la beat generation a ridosso della seconda guerra mondiale. A ben vedere si tratta di temi che si muovono su binari paralleli e intrecciati con quelli dei giovani protestatari di ogni tempo e con quelli delleonde di indignados a di ambientalisti odierni; anche se sono radicalmente cambiati i meccanismi di creazione e fruizione degli eventi culturali e noi, con questa rievocazione, abbiamo voluto anche guardare a quegli anni con l’affetto che nutriamo per le cose perdute dei tempi andati. Per quanto, in molti casi, abbiamo dovuto frapporre anche la giusta distanza ironica con quella generazione di perdenti beat (perché è evidente che il movimento, in larga parte, perse e si disperse nei meandri del tempo, anche se di tanto in tanto ne riemergono rivoli carsici). Nel corso della serata abbiamo ascoltato brani che si sono suonati a Woodstock e brani che si sarebbero potuti suonare a Woodstock, alternandoli con canzoni italiane sempre risalenti a quei fatidici anni che vanno dal ‘68 agli inizi degli anni ‘70.
Il concerto si è aperto con Emanuele Picozzi, artista locale di respiro internazionale, che ha presentato il classico beatlesiano Hey Jude. In realtà, i Beatles non parteciparono di persona al festival di Woodstock, ma, visto che nel ‘69 si era nel pieno della beatlesmania, alcune delle loro celeberrime canzoni furono interpretate da Joe Cocker (il padre putativo di Zucchero ‘Sugar’ Fornaciari) e da Richie Havens (quello di Freedom e di Gay Cavalier, canzone di lancio di un album prodotto nel 1983 da Pino Daniele e, incredibilmente, mai stampato su CD). Su quel palco Joe Cocker cantò una delle più belle versioni di “With a Little Help from My Friends” che si ricordi e Havens reinterpretò, da solo con la chitarra acustica, quello stesso brano insieme con “Strawberry Fields Forever” e, per l’appunto, “Hey Jude”. Di seguito Emanuele Picozzi ci ha fatto ascoltare “Io vivrò” di Mogol/Battisti, brano pubblicato prima dai The Rokes, nel ‘68, e poi da Battisti stesso, nel ‘69, nel pieno della musica beat all’italiana.
Filippo Piccirillo e Silvana Silvestri (2/6 del tostissimo gruppo Rall’n”FACC band) hanno proposto una loro personale versione di “Summertime” (in ricordo della versione acida del capolavoro di George Gershwin presentata a Woodstock da Janis Joplin) ed uno struggente brano di Ornella Vanoni, “Una ragione di più”, riletto da Filippo, nella parte finale, in chiave prog. Infine, ci hanno deliziato con un omaggio agli Alunni del Sole eseguito attraverso l’esecuzione di “L’Aquilone” e di “Concerto”, entrambi rigorosamente del 1969, ovvero brani che hanno 50 anni ma se li portano benissimo. Gli Alunni del Sole sono tra gli antesignani del beat italiano (e napoletano) e, insieme con gli Showmen, aprirono la strada “rhythm & blues” all’italiana.
Con i CMPS Project from Caivano (Italy), siamo approdati sulle rive di Jimi Hendrix per ascoltare “Little Wing”, uno dei brani più coverizzato di sempre dedicato alla piccola ala, l’ispirazione che viene a consolare l’isolamento e la sofferenza degli artisti:
“Quando sono triste viene a trovarmi Con un migliaio di sorrisi Per i quali non chiede nulla in cambio
Va tutto bene, mi dice Tutto bene Prendi da me quello che vuoi Qualsiasi cosa
Continua a volare Piccola Ala”.
L’anno dopo la performance di Woodstock sarebbero morti sia Hendrix (per un cocktail di alcol e tranquillanti, a settembre) sia Janis Joplin (per overdose, ad ottobre). Avevano entrambi 27 anni. La stessa età di Brian Jones, membro fondatore dei Rolling Stones, morto il mese prima della festa di Woodstock.
Giusto due anni dopo di lui (il 3 luglio del 1971) se ne andò Jim Morrison il cantante icona dei Doors. Poi sarà la volta di Leila Diniz, eccentrica attrice brasiliana (1972), di Jean-Michel Basquiat, vulcanico artista pop (agosto 1988), di Kurt Cobain (aprile 1994) e Amy Winehouse (luglio 2011). Il club dei (J)27, la lunga sequela di artisti morti a soli 27 anni, quasi sempre per certe oscure contiguità con alcol e droghe. Perché magari l’uso di sostanze stupefacenti può pure allargare gli stati di percezione, ma di certo l’abuso accorcia la vita. Va be’, bando ai moralismi d’accatto, l’esibizione rock dei CMPS Project è continuata con uno dei brani più famosi del progressive all’italiana, il classico della PFM Impressioni di settembre. In realtà, con il brano di Mussida, Mogol e Pagani abbiamo fatto un piccolo salto temporale e siamo arrivati al 1971. Ma siamo nella stessa atmosfera. E poi ci voleva un brano dedicato a questo incerto settembre, “il mese del ripensamento sugli anni e sull’età” (Guccini, “Canzone dei 12 mesi”).
Dalle fresche e giovani voci di Chiara Pezzella, al canto, e di Nicola Copertino, al sassofono tenore, abbiamo ascoltato un’intensa interpretazione di una canzone dei Jefferson Airplane, “Somebody to love”, e un brano in italiano degli stessi anni, “Ho difeso il mio amore”, impreziosito dal loro arrangiamento per sola chitarra, sax e voce. “Somebody to love” è il primo grande successo della band di San Francisco. Un inno e una bandiera della “Summer of Love” dei giovani californiani che predicavano e diffondevano i loro ideali di pace, amore e libertà attraverso la musica e il loro look psichedelico e fricchettone. E in Italia gruppi come i Camaleonti, i Corvi, i Dik Dik, l’Equipe 84, i Giganti e i Ribelli raccolsero il messaggio cantando loro traduzioni di canzoni beat inglesi e americane. Tra queste, la traduzione di Nights in White Satin dei Moody Blues, resa in italiano con “Ho difeso il mio amore”, un altro inno all’amore libero, fiorito e fluorescente della generazione hippie riproposto sia dai Profeti (nel ’68) che dai Nomadi (nel ’69).
In the meantime, nel frattempo, in Italia Nada cantava un brano bellissimo e struggente, “Ma che freddo fa”, che ci è stato riproposto dalla cantautrice Germana Grano insieme con “Storia d’amore” di Celentano. Germana è una cantautrice sensibile che si è formata con maestri del calibro di Brunella Selo e ha collaborato con il pianista Piero De Asmundis, oltre ad essere stata la vincitrice di una delle prime edizioni del Premio Bianca D’Aponte per giovani cantanti e autrici. I due brani che ci ha proposto, ben radicati nella tradizione della canzone all’italiana, hanno dimostrato di avere poco o nulla da invidiare alle canzoni di taglio più rock e rockeggiante che abbiamo ascoltato durante la serata. Personalmente ho sempre amato Ma che freddo fa, capolavoro di Franco Migliacci e Claudio Mattone cantato a Sanremo anche dai The Rokes (i rivali angloitaliani dell’Equipe 84), ma nel contesto di ieri è stata bellissima anche la versione di Storia d’amore accompagnata da Jennà Romano al bouzouki accentuando l’andamento tangheggiante del brano originale.
Pasquale Di Resta from Sessa Aurunca, chitarrista sensibile e creativo, grande conoscitore dello strumento sia nelle inflessioni rock che negli andamenti sudamericani e nelle sperimentazioni più ardite (tipo, chitarra elettrica suonata con l’archetto), ci propone una sua rilettura acustica e solitaria di “White Rabbit” dei Jefferson Airplane, brano psichedelico per eccellenza. È risaputo che negli ambienti hippie e post-hippie si ritenesse che suonare e percepire la musica in stati alterati di coscienza potesse ampliare le possibilità di comunicazione degli artisti; si pensava, insomma, che sostanze come cannabis, peyote, mescalina ed LSD aiutassero i musicisti ad entrare in una sorta di dimensione sciamanica e metafisica. Ma l’approccio dei Jefferson Airplane mi piace molto perché mi sembra più ironico e distaccato di quello di artisti più sanguigni e viscerali, come i J27 Jimi Hendrix, Janis Joplin e Jim Morrison. Immagino che i Jefferson Airplane potessero perfino apparire piuttosto distaccati e intellettualoidi rispetto alla stragrande maggioranza dei loro colleghi di Woodstock. Il brano che ascolteremo, per esempio, ha chiare influenze ritmiche e armoniche spagnoleggianti mutuate dal Bolero di Ravel e da Sketches of Spain di Miles Davis & Gil Evans (1960), oltre ad essere corredato da un testo che rievoca le atmosfere di Alice in the Wonderland (Alice nel Paese delle Meraviglie): i versi mescolano, infatti, immagini della favola del reverendo Lewis Carroll con una descrizione delle alterazioni provocate dagli acidi.
One pill makes you larger, and one pill makes you small And the ones that mother gives you don’t do anything at all Go ask Alice when she’s ten feet tall.
Una pillola ti rende grande e una pillola ti rende piccolo E quelle che ti dà la mamma in fondo non fanno nulla; Domandalo ad Alice, quando è alta tre metri.
D’altronde, lo stesso White Rabbit del titolo altri non è che il Bianconiglio della favola.
Di seguito Pasquale imbraccia la sua Diavoletta Gibson e rievoca due miti della chitarra anni ‘60, uno morto troppo presto e un altro ancora vivo, vegeto e produttivo: Jimi Hendrix e Carlos Santana.
Jimi Hendrix era già molto popolare ai tempi del suo storico concerto di Woodstock nel quale, tra l’altro, suonò una versione distorta e ferocemente parodica dell’inno nazionale americano, in chiara polemica con la guerra del Vietnam e il reclutamento coatto di tanti giovani statunitensi. Nel ‘67 era già uscito “Are You Experienced?”, uno degli album di debutto più belli della storia del rock. E proprio dalla versione americana di “Are You Experienced?” viene “Purple Haze”, una foschia viola che si estese su tutto il territorio di Woodstock e che Pasquale ha sparso a piene mani sulle nostre teste.
Di Santana (da Jalisco, Mexico) abbiamo ascoltato un altro dei brani iconici di Woodstock: “Soul Sacrifice”. C’è da dire che nel ‘69 Santana, contrariamente a Hendrix, non era affatto popolare, ma quel brano esteso per 11 minuti e suonato da lui e dai suoi sodali sotto l’effetto di acidi lo impose all’attenzione internazionale. Una sorta di rito collettivo suonato da un gruppo di sciamani invasati del rock. E Pasquale, accompagnato poderosamente da Mirko Del Gaudio alla batteria, Nicola Girardi al basso e Filippo Piccirillo alla tastiere (tutti rigorosamente sobri e non calati), ci ha restituito con la sua esibizione lo spirito e la sostanza di quel mitico rituale consumato a Woodstock ad agosto del ’69.
La serata si è chiusa con tutti i musicisti e i cantanti sul palco che, insieme con il presidente del MRF Domenico Giuliano e con il professore Luigi Caramiello, hanno eseguito una versione collettiva di Come Together, la canzone che apre il disco Abbey Road dei Beatles, uscito, pensate un po’, proprio nel settembre del 1969, giusto 50 anni or sono.
“One thing I can tell you is you got to be free”, “Una cosa che posso dirvi è che dovete essere liberi” dice un verso di questa famosissima canzone.
E allora… come on, All together, right now!
Come si faceva quando la musica si suonava nei parchi, i cantanti non venivano cantati dall’auto-tune e le note venivano dalle mani di musicisti sudati, senza rete e a perenne rischio di caduta.
Va buo’, mo faccio il nostalgico.
In una rievocazione ci vuole.
Soprattutto quando ci sono di mezzo i mitici anni ’60, o su di lì.
La seconda serata dell’MRF4 (IV edizione del Mediterraneo Reading Festival) è cominciata con il regista e scenografo Raffaele Di Florio che, accompagnato dal versatile chitarrista Pasquale Di Resta, ha letto tre brani di Eduardo De Filippo, Erri De Luca e Konstantinos Kavafis intrisi di acqua del Mediterraneo. Particolarmente bella la lettura della poesia di Eduardo appoggiata sulle note di Chi tene ‘o mare di Pino Daniele.
Io quanno ‘o sento, specialmente ‘e notte, […] nun è ca dico: “‘O mare fa paura”, ma dico: “‘O mare sta facenno ‘o mare”.
A seguire uno straordinario concerto di Fausta Vetere e Corrado Sfogli della Nuova Compagnia di Canto Popolare con una ospitata di Patrizio Trampetti, che era stato membro della Nuova Compagnia nel periodo d’oro che va dagli esordi della NCCP (1967-1972) ai primi anni ’80, gli anni della superficialità e dell’edonismo dilagante, gli anni del craxismo imperante e di una crisi della NCCP e di tutta la musica popolare che sarebbe durata fino al boom della cosiddetta “world music”, agli inizi degli anni ’90 (il ritorno della Nuova Compagnia con Medina, 1992, e Tzigari, 1995).
Nella prima parte del concerto ci sono solo Corrado e Fausta a intrecciare sapientemente corde e canto in brani come la Tarantella del Gargano (dedicata al compianto Carlo d’Angiò, che ne fu il primo interprete), il capolavoro Ricciulina (magistralmente interpretato da questa solida coppia di eterni giovanotti dai capelli d’argento), La serpe a Carolina (dove Carolina, la zoccola, era l’odiata arciduchessa di origini austriache che fu regina consorte del Regno di Napoli e Sicilia in quanto moglie di Ferdinando IV), ‘A Vucchella (brano del primo ‘900 il cui testo è attribuito nientepopodimeno che a Gabriele D’Annunzio), una canzone tratta da il “Circo equestre Sgueglia” del grande Raffaele Viviani, una tammurriata di carattere “cronachistico” intitolata “Pacchianella d’Uttaiano“, un brano strumentale di Corrado Sfogli (Pausilypon), l’intramontabile “Era de Maggio” e “Capera” (canzone dal testo intimamente napoletano, ma con un accompagnamento reso con chiare inflessioni di “arte flamenco“).
Dopo questa sequenza di preziosi brani è intervenuto Patrizio Trampetti e, ascoltando a occhi chiusi la sua voce che si impastava con quella di Fausta Vetere, sembrava di essere tornati una trentina di anni indietro. Il primo brano cantato da Trampetti è uno delle più antiche villanelle della tradizione popolare napoletana: Madonna tu mi fai lo scorrucciato. Segue una trascinante tammurriata (quella Tammiruata alli uno… alli uno, che era uno dei brani portanti di Li sarracini adorano lu sole).
Di nuovo soli sul palco, Corrado e Fausta hanno omaggiato il loro amico Pino Daniele con una commovente versione di Terra mia e con il sempreverde Guarracino.
Gran finale con la superclassica “Tammiruata nera” che ha di nuovo goduto dell’intervento di Patrizio Trampetti. Versione molto gustosa e, in qualche modo, anche autoironica, intrecciata con la Scena del Rosario della Gatta Cenerentola e con sfottò tra gli artisti che oggi chiameremmo “dissing” (sottogenere della musica hip hop in cui due artisti si scambiano offese sotto forma di versi rap) e che al tempo degli antichi Greci e dei loro epigoni Romani si chiamavano giambi e fescennini (nihil novum sub sole).
Corrado, Fausta e Patrizio sono tre veri e navigati artisti che riescono a divertirsi (o a dare l’impressione che si stiano divertendo) sul palco e comunicano emozioni e sentimenti che vengono da lontano, svolgendo con perizia e sicurezza tecnica il proprio ruolo. Custodi e reinventori della tradizione.
Dopo lo spettacolo, sono andato a cena con loro tre, Jennà Romano e Pasquale Di Resta.
Oltre che grandi musicisti sono anche persone belle e gradevoli. Ma non direi neanche in presenza del mio avvocato o dello psicoanalista che non ho i pettegolezzi che sono venuti fuori dal loro vaso di Pandora di aneddoti e ricordi che attraversano mezzo secolo di musica e arte scenica del nostro Paese.
Ad maiora semper!
E sia fatta la tua volontà comme arreto accussì annanze piere cosce rine e panza E mmo dicimme nu refrisco
pe’ ll’anema ‘e Nunziata ca pure all’atu munno
sta ‘nfucata
ammén
Ieri si è aperta la IV edizione del Mediterraneo Reading Festival, un festival di musiche e parole che parte dalla provincia a nord di Napoli per affacciarsi sul Mediterraneo e sul mondo; una manifestazione ibrida e sconfinata aperta all’intimismo, alla convivialità, alla riflessione, alla gioia di vivere ed alla sperimentazione; ma, soprattutto, uno spazio scenico senza barriere in cui si sono susseguiti in tre o quattro anni concerti di vario genere, rappresentazioni teatrali, presentazioni di romanzi e libri di poesia. Tutto nello spirito della commistione dei generi e dell’abbattimento di ogni steccato culturale, fisico e mentale.
Insomma, una manifestazione pluriculturale necessaria in un tempo che corre veloce e ignora le voci di quanti vivono senza tutele ai margini del nostro benessere, rischiando di perdere ogni possibilità di comunicazione e confronto tra le generazioni e tra gli attori sociali conviventi nei nostri territori.
Aggiungo che il Mediterraneo Reading Festival si regge grazie all’esclusivo contributo economico dei suoi sponsor ed è curato dall’omonima associazione di cui mi pregio di essere vicepresidente (e questo magari vi dà ragione dell’enfasi e del tono di queste mie parole). Presidente: Mimmo Giuliano, Direttore artistico: Jennà Romano. Soci fondatori: Angelica Argentiere, Luigi Costanzo, Quirino Ganzerli, Anna Iacomino, Gennaro Aversano, Vincenzo Bencivenga e Michele Cantone.
Fatte le dovute presentazioni vengo all’evento rappresentato ieri e concepito in piena sintonia con il karma contaminato del Mediterraneo Reading Festival.
Si tratta di FUORIMANO, uno spettacolo dalla forma ibrida: un reading in forma di concerto, in cui si alternano monologhi e canzoni con sprazzi di cronaca e commenti sull’attualità; uno spettacolo crudo, ironico e sferzante scritto da Peppe Lanzetta insieme con Jennà Romano dei Letti Sfatti e con Daniele Sanzone degli ‘A67 ed arricchito da incursioni dal vivo di Sandro Ruotolo, giornalista d’assalto e corsivista corrosivo e implacabile.
Sul palco ci sono tutti questi pezzi da 90, accompagnati dalla perfetta music machine formata dalle percussioni di Mirko Del Gaudio e dai cordofoni dello stesso Jennà Romano (Mirko e Jennà sono due, ma valgono una piccola orchestra).
La serata si apre con un contundente brano sulla cosiddetta terra dei fuochi letto con voce calda e chiara da Sandro Ruotolo su un tappeto di note che rievoca “Terra mia” di Pino Daniele, uno dei numi tutelari di questo spettacolo.
Di seguito Ruotolo lascia il posto a Peppe Lanzetta che, con il suo tragico e moderno recitar cantando, grida una sacrosanta invettiva contro tutti quelli che insozzano le nostre terre per arricchirsi e aumentare il proprio potere (“Avita murì!”).
Poi è la volta di Daniele Sanzone con una versione rappata del brano di Giorgio Gaber: “Io non mi sento italiano”.
[…] Mi scusi Presidente
ma questo nostro Stato
che voi rappresentate
mi sembra un po’ sfasciato.
E’ anche troppo chiaro
agli occhi della gente
che tutto è calcolato
e non funziona niente.
Sarà che gli italiani
per lunga tradizione
son troppo appassionati
di ogni discussione.
Persino in parlamento
c’è un’aria incandescente
si scannano su tutto
e poi non cambia niente.
Io non mi sento italiano
ma per fortuna o purtroppo lo sono.
[…] Mi scusi Presidente
lo so che non gioite
se il grido “Italia, Italia”
c’è solo alle partite.
Ma un po’ per non morire
o forse un po’ per celia
abbiam fatto l’Europa
facciamo anche l’Italia.
Io non mi sento italiano
ma per fortuna o purtroppo lo siamo.
Tornato sul palco, Peppe Lanzetta, forte di tutta la sua debordante fisicità, presenta il brano con cui è cominciata la sua quasi decennale collaborazione con i Letti Sfatti (concretizzata nel 2017 con la realizzazione dell’album “Non canto, non vedo, non sento”). Erano i primi anni della crisi economica internazionale ancora in atto.
‘A colpa e’ tutta de banche
Una lampa avessera ffa’…
[…] Me fa male ‘a Grecia,
Me fa male ‘a Spagna,
Me fa male l’Italia,
Me fa male l’Irlanda,
L’irlanda del Nord o del Sud?
Guaglio’, me fa male tutte l’Irlanda,
Tengo cierte Irlande tante,
Nun pozzo cammena’…
In coda, un’aforisma da manuale…
“Non sempre chi si traveste da gigante riesce a reggere il peso dei suoi ornamenti.”
Dall’ironia si passa alla dolente commiserazione per il corpo martoriato di Stefano Cucchi e, in coda alle sofferte parole di Lanzetta per il giovane romano morto a seguito di un pestaggio della polizia, ascoltiamo “Ci vuole fortuna” un brano dei Letti Sfatti dedicato a Marco Pantani, un altro martire tragico dei nostri tempi.
Perché ci vuole fortuna
Anche a morire
ci vuole fortuna
Non serve volare
Ci vuole fortuna
Anche per essere un dio
ci vuole fortuna
Perché non basta la luna
In certe sere
non basta la luna
Quando gli amici
non si trovano gratis
ci vuole fortuna
Senza interrompere la tensione emotiva creata da questa sequenza di brani, Sandro Ruotolo, accompagnato al dulcimer da Jennà, legge un suo testo sulle migrazioni. Un giusto preludio a “Mediterraneo”, canzone di Peppe, Jennà e Mirko che ha tutti i numeri per diventare una sorta di sigla del nostro festival.
Imbracciando ancora il suo bouzouki e restando sulle onde cullanti e fatali del Mediterraneo, Jennà ci fa ascoltare una sua personale rilettura di “Stella di Mare” di Lucio Dalla.
Di seguito torna Peppe Lanzetta con un altro dei suoi struggenti racconti di persone sfortunate dalla nascita: “Mi voleva la Sampadoria”, la fine tragica di un ragazzino che sognava di diventare un campione.
Dopo di lui, di nuovo Daniele Sanzone con una sua personale rilettura di “Don Raffaè”, il bellissimo brano napoletano di Fabrizio De André, scritto in collaborazione con Mauro Pagani, per la musica, e con Massimo Bubola per il testo e dedicato alla vita di un boss della camorra in un sistema carcerario sottomesso allo strapotere delle mafie.
Senza soluzione di continuità, Lanzetta canta con i Letti Sfatti la versione napoletana de “Il Vino” di Piero Ciampi (fondendola con un suo racconto dedicato a Viviani) e Ruotolo racconta la sua trentennale attività di giornalista impegnato sul fronte della criminalità, fino a questi ultimi anni in cui è costretto a muoversi con una scorta per aver fatto fino in fondo il suo dovere di cronista.
Il suo testo fa da opportuna introduzione a “‘A Camorra Song Io” di Daniele Sanzone.
‘A camorra song je ca te guardo
dinto all’uocchie, è o’ sanghe
‘e chi vene acciso pe’ scagno
e ‘i lacrime ‘e chi so chiagne
E si ‘a paura fa nuvanta
‘a dignità fa cientuttanta
tanta tanta tanta tanta
voglia ‘e cagnà voglia ‘e cagnà
‘A camorra simm nuje
ca tenimmo paura ‘e parlà
e ci guardà dinto pe’ ascì
‘a chesta mentalità
E se ‘a paura fa nuvanta
‘a dignità fa Cientuttanta
tanta tanta tanta tanta
voglia ‘e cagnà voglia ‘e cagnà
Ma Napoli è anche una mamma, come recita Peppe Lanzetta leggendo un suo racconto, ed è anche l’amore cantanto da Daniele Sanzone in una sua commovente versione napoletana di “Tuyo” (di Rodrigo Amarante), la famosa sigla di “Narcos” che qui viene sapientemente fusa con “Passione”, capolavoro della canzone napoletana di Libero Bovio, musicata da Ernesto Tagliaferri e Nicola Valente nel lontano e vicinissimo 1934.
Nel finale, Peppe Lanzetta chiude il cerchio aperto con le note di “Terra mia” rievocando Pino Daniele, che è stato suo amico e compagno di classe al Diaz (storico istituto per ragionieri di Via dei Tribunali). Lui lo chiama affettuosamente Pinotto e si capisce che la loro è stata un’amicizia autentica, ma non priva di tensioni, tra “‘nu malato ‘e core e ‘nu malato ‘e capa”. Su queste parole, i tre musicisti attaccano una trascinante versione di “Je so’ pazzo”.
Segue doveroso bis con “Don Raffaè” e prolungati applausi per una serata che non ci ha lasciato indifferenti e che ci porteremo lungamente nel cuore e nella testa.