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Poi, un giorno, avremo il coraggio, l’ardire e l’ardore di ricordare con nostalgia anche questo primo ventennio del XXI secolo.
Ma intanto speriamo solo che finisca davvero.
31 martedì Dic 2019
Posted inter ludi, riflessioni, vita civile
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Poi, un giorno, avremo il coraggio, l’ardire e l’ardore di ricordare con nostalgia anche questo primo ventennio del XXI secolo.
Ma intanto speriamo solo che finisca davvero.
26 giovedì Dic 2019
Posted riflessioni, vita civile
in(Ovvero, il predominio della rappresentazione)
“…no connection
with the daily world,
only with dreams
and fantasies.”
Anaïs Nin, ‘Collages‘
Qui siamo andati molto oltre l’egocentrismo, il solipsismo e l’egolalia.
L’apparenza del sé ha preso il sopravvento. La rappresentazione di se stessi sul mercato dei consensi è diventata prioritaria anche rispetto all’affermazione del sé medesimo.
Le pareti della realtà sono state scardinate dalle quinte teatrali di un mondo che fa da sfondo al nostro apparire sul palcoscenico virtuale in cui rappresentiamo la vita invece di agirla.
La questione, dicevo altrove, non è più tanto essere (to be) o non essere (not to be), e neanche la dicotomia avere (to have) o essere (to be) regge di fronte al presente…, la questione ormai è, più che altro, essere (to be) o essere visti (to be seen).
Una ragazza di 16 o 17 anni esibisce in quindici secondi la pancia piatta e sostiene di essere incinta da due mesi chiedendo molti like per continuare a postare foto del suo pancione gravido.
Un’altra chiede al suo fidanzato di scriverlo su Facebook che lui le vuole bene e smetterla una buona volta di sussurrarglierlo in un orecchio o guardandola negli occhi come in un film dello scorso millennio.
Ragazzini e ragazzine ritoccano foto e video con occhi e labbra di dimensioni spropositate o si deformano fino a diventare cuccioli in cerca di cibo e affetto.
Nei video e nelle foto non si fa che ridere e sorridere o guardare la camera con sguardi ammiccanti (ve lo immaginate un selfie di Egon Schiele o di Van Gogh che ridono come ebeti a favore di telecamera?).
Donne e uomini di tutte le età controllano la curva dei consensi ai loro post, ai loro video, alle loro foto e perdono il contatto con la realtà che gli gira intorno.
Concerti, eventi, incidenti, feste, stragi e disastri vengono registrati in diretta da persone che assistono con gli occhi puntati sullo schermo di un telefonino.
Cosplayer e crossplayer à gogo.
Comunità virtuali pro-ana e pro-mia.
Binge watching, cyberbullismo, sexting, fake news, avatar e mondi paralleli…
E io che ne parlo e ne riparlo qui da qui, di fronte a uno schermo perenne che mi avvicina e mi allontana da me e da te impedendo qualsiasi contatto epidermico e il freddo e il calore del tatto e di una voce non registrata da mezzi elettronici.
(Rileggendo quanto ho scritto, noto molte parole tecnichesi e modaiole e immagino te, lettore, che, giustamente, le ignorerai e andrai avanti; oppure le cercherai su Google per dimenticarle un attimo dopo! Sempre che non ti fermerai prima di arrivare quaggiù oppure ci arriverai e penserai che sono stato troppo arrogante e presuntuoso nel pensare che tu potessi ignorare qualche tassello del lessico della contemporaneità. In fondo siamo tutti sull’orlo dello stesso abisso, alle soglie del terzo millennio. Un numero perfetto per finire la storia.)
20 venerdì Dic 2019
Posted riflessioni, texticulos
in(in un libro
in un’opera
in un testo
in una frase
in una vita)
togli
tutto
quello che
si deve togliere
e viene fuori
l’artista
(anche se
il più delle volte
quello che resta
è il resto di niente
e tanto vuoto
perso e disperso
nella mente)
15 domenica Dic 2019
Posted riflessioni, vita civile
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(Il rito della pausa didattica nel sistema scolastico italiano)
Ogni anno, a ridosso delle festività natalizie, le scuole superiori si mettono in “stand by” per seguire il trito rituale della “settimana dello studente”, ed ogni anno la riproposizione dell’evento si trascina in modalità più vuote e stanche. Una storia che si ripete in farsa e che ogni anno io postillo con mie riflessioni via via più sconsolate e affrante.
(Come andare allo stadio e sapere già in partenza che ne uscirai sconfitto e con meno punti in classifica, ma non riuscire a cambiare direzione, cambiare squadra o cambiare sport.)
Non escludo che questo crescente pessimismo che mi assale puntuale tra il 15 e il 25 dicembre, derivi anche dall’avanzare della mia età; e, tuttavia, quello che vedo, almeno nelle scuole che frequento, è innegabilmente un quadretto pre-natalizio sempre più squallido, finto e desolante.
Peraltro, a mio modo di vedere, questa riproposizione in stile farsesco dei più ferventi periodi di autogestione e occupazione degli scorsi decenni, rappresenta un grande autogol degli adolescenti italiani, in quanto:
– decreta il mancato protagonismo delle nuove generazioni nel sistema educativo (se questa è la settimana dello studente, il resto dell’anno, le altre settimane… di chi sono?)
– dimostra l’incapacità di proporre modelli nuovi ed alternativi (i rari corsi organizzati dal basso ripetono gli schemi di gioco imposti dai peggiori professori della vecchia guardia, lasciando scarso spazio alla creatività ed all’innovazione)
– sostituisce il sistema repressivo della scuola tradizionale con la repressione (spesso arbitraria) di servizi d’ordine affidati (nella maggior parte dei casi) agli alunni più incontenibili, nel tentativo (vano) di tenerli a freno mettendogli addosso una casacca da arbitro o da guardalinea (e loro, quasi sempre, la indossano, questa uniforme, con l’inflessibilità iniqua e vessatoria di un secondino che agisce indisturbato in un sistema autoritario e oppressivo); oltre al fatto che queste casacche da guardiano dell’ordine e della sicurezza vengono elargite con i peggiori metodi nepotistici e clientelari dal potente di turno, il rappresentante dell’immobilismo di un sistema basato sul favoritismo, l’iniquità, lo scambio e la (malintesa) amicizia.
E così ti può capitare di vedere arbitri e guardalinee giocare nei corridoi con le carte che hanno appena sequestrato in classe, perché “durante la settimana dello studente a carte non si può giocare”. Una vaga rievocazione dei professori che ci dicevano che a scuola era vietato fumare con la sigaretta penzolante dalla bocca e il fumo che gli nascondeva la faccia di bronzo. Una lezione di ipocrisia, sopruso e abuso di autorità, seguita quasi sempre dalla minaccia di interrompere la festa a fronte di eventuali proteste. “Il pallone è mio e decido io chi gioca, come si gioca e se e quando giocare!”
Infine, dato che queste “settimane di pausa didattica” vengono concesse dall’alto come un automatismo che lascia poco spazio alla discussione, impediscono l’innesco di un sano scontro generazionale (quello che serve a crescere, a imparare a negoziare e ad argomentare, per segnare le differenze con le vecchie generazioni e per affermare la volontà di un reale cambiamento rispetto allo “status quo ante”).
Questo scrivo nella speranza che qualche ragazzo legga, rifletta e, magari, confuti le mie parole con argomenti convincenti ed un dribbling da applauso. Magari anche con storie di pause didattiche di alto valore formativo o ri-creativo.
(E, mentre scrivo, continuo a chiedermi e a chiedervi cosa potremmo fare noi vecchi per favorire la formazione di nuove leve più capaci, dinamiche e innovative.)
[In quest’altra parentesi di forma quadrata mi scuso per aver (ab)usato, in varie occasioni, (di) un gergo calcistico che domino poco, con la velleitaria intenzione di rendere più accattivanti e appetibili le mie tesi e le mie antitesi.]
13 venerdì Dic 2019
Il mondo sta là
Ma tu non hai
le parole
per dirlo
Il mondo sta là
Ma non riesci
a dirlo
finché
non hai
le parole
per pensarlo
(Per questo
piccola mia
ti inondo di
parole
e ti dischiudo
libri
che racchiudono
mondi
fatti di pensieri
e cose
che si fanno
pensieri
in forma di parola)
Il mondo sta là
Ma non riesci
neanche
a pensarlo
finché
non hai
le parole
le parole
e le parole
per dirlo
(Utensili
scrigni
e chiavistelli
per pensare
il mondo
e poi parlarlo
ripar(l)arlo
e inventarlo
da capo)
Il mondo sta là
pronto per essere detto
Ma se ti mancano le parole
non riesci neanche a pensarlo
il mondo
E mentre parliamo
e ci raccontiamo storie
ti cingo in un abbraccio
abbastanza stretto
da farti sentire
sicura e protetta
lasciando
per un po’
il mondo
dietro di noi
E mentre parliamo
e reinventiamo il mondo
ti stringo
ti stringo in un abbraccio
abbastanza sciolto
da consentirti
di allontanarti
scostando leggermente
le mie braccia dal tuo corpo
per tornare a guardarlo di faccia
il mondo
Io
alle tue spalle
vedo avanzare
il cammino
che segue
il tuo pensiero
e il tuo pensare
e mi inondo di parole
Chiuso nel mio mondo
e immaginando il tuo
pieno dei miei desideri
e vieppiù dei tuoi
Che si invereranno
con la forza
dei tuoi pensieri
delle tue parole
e del tuo fare
che facendo
disfacendo
e rifacendo
rifarà
te stessa
e il mondo
Tanti auguri
My best wishes
Muchas felicidades
e tante belle cose
pe’ mo e pe’ sempe
10 martedì Dic 2019
Posted musiche, recensioni
in“Il lanciatore di donne” è un libro da sentire e un album da leggere, un’opera in cui nove canzoni accompagnano nove racconti e possono essere fruite prima, durante o dopo la lettura.
Detto in termini pratici, siamo di fronte a una raccolta di narrazioni che hanno in appendice dei codici QR che, inquadrati con uno smartphone (o con qualunque altra diavoleria elettronica collegata a internet), permettono di ascoltare o di scaricare delle canzoni composte prima della stesura dei relativi racconti.
Un progetto molto attinente con lo specifico artistico di Jennà Romano che ha sempre sostenuto l’esigenza di un’arte priva di barriere e di etichette, capace di percorrere le “più disparate e disperate espressioni” della creatività.
Nel loro insieme, i nove racconti sembrano dei frammenti di un Bildungsroman, capitoli sparsi di un romanzo di formazione di un cantante, musicista e autore di canzoni nato nell’area Nord della grande città metropolitana di Napoli, tra Grumo e Casandrino; un “provinciano universal” che ha collaborato con artisti locali come Tony Esposito, Franco Del Prete, James Senese, Patrizio Trampetti, Fausto Mesolella, Peppe Lanzetta e Daniele Sanzone e che ha incrociato la sua attività artistica con mostri sacri di altre… province, come Dalla e De Gregori, o di altri ambiti artistici e comunicativi, come Erri De Luca e Sandro Ruotolo.
I racconti hanno vita autonoma rispetto alle canzoni che li hanno ispirati, ma, nella maggior parte dei casi, canzoni e racconti si illuminano a vicenda di nuova luce e aggiungono nuove sfumature alla nostra percezione.
Una vena di malinconia e un senso perenne di perdita li tiene insieme. Storie e testi pervasi di disincanto, disperazione, nostalgia e mancanze. Quello di Jennà Romano è un mondo, il nostro mondo, in cui mancano ideologie, costumi, odori e abitudini del tempo andato; manca un senso di comunità capace di tenere insieme le generazioni; manca la manualità degli artigiani e dei musicisti e, soprattutto mancano, le persone che hanno dato senso alla nostra vita: nonni, madri, padri andati via troppo presto; amori che diventano serrande, che diventano muri…
Nell’Abitudine a veder morire, in un ordito borgesiano, la voce narrante di un adulto si incontra con la sua infanzia… “Osservavo stupefatto ciò che di più caro non avevo ormai: mio nonno, la mamma, me bambino.”
Col tempo, sai, tutto se ne va. E cominciamo a mancare anche a noi stessi.
Ma restano i suoni e i sapori dei primi anni: l’odore intenso di acquaragia; il ritmo dei martelli battuti sul ferro rovente nella costruzione di carri e carretti; le canzoni che hanno accompagnato la nostra vita (su tutte, quelle di Piero Ciampi, Lucio Dalla e Jeff Beck), “l’odore di fagioli freschi messi a bollire dalla mattina, mischiato al profumo del caffè”, la campanella della merceria di famiglia che “tintinnava una nota ripetuta una, due, tre, quattro volte, a seconda del grado di fretta del cliente e del suo stato d’animo”; squilli di telefono che preannunciano tragedie di esistenze ordinarie; silenzi e chiacchiericci nei corridoi degli ospedali…
Non glielo ho mai detto, ma credo che oltre al senso disperato della vita del suo amato Piero Ciampi, ci sia qualcosa di pasoliniano nello sguardo retrospettivo di Jennà. Il vuoto della scomparsa delle lucciole. Lo sguardo retrospettivo di chi ha perso la madre troppo presto ed è morto a 10 anni.
“Il calendario appeso al muro regalato dalla Farmacia del popolo era sempre inclinato da un lato per la corrente d’aria che faceva sbattere la porta d’ingresso quasi per dispetto e lo costringeva a una vita obliqua. Era sulla pagina di settembre, settembre 1980, quando quel battente smise di picchiare contro lo stipite e rimase chiuso per sempre.”
E poi ci sono le canzoni dei Letti Sfatti, il gruppo che Jennà condivide con Mirko Del Gaudio, percussionista di grande estro e perizia ritmica. Alcuni brani vengono da loro album precedenti, altri sono primizie assolute (“Il lanciatore di donne”, che dà il titolo a tutta l’operazione, e la bellissima e struggente “L’abitudine a veder morire”, un reggae melodico puntellato dalla voce di una speaker della CNN che annuncia morti e sopravvissuti di un’imbarcazione di migranti sulle coste della Sicilia, mentre noi guardiamo la TV e mangiamo). Sono la colonna sonora e la fonte di nove storie, nove scene e decine di spaccati di provincia in cui si trascinano esistenze di uomini vinti, ma ancora capaci di sogni, di desideri, di ossessioni e di musica.
Io sono quello
Che è morto vivo a dieci anni
Che ha visto solo la musica così da lontano
E si è fatto prendere la mano
Sono le cose che guardo la sera
Che mi fanno capire che il mio stomaco è vivo
È vivo anche se vivo male. È vivo per me
Io sono questo
E non mi chiedere altro.
09 lunedì Dic 2019
Posted immagini, vita civile
inIl clima si innalza, si sciolgono i ghiacciai, si alza il livello delle acque; dell’Olanda restano solo gli edifici degli ultimi piani dei grattacieli; piazza San Marco scompare; Piazza Dante viene sommersa dalle acque e la villa comunale di Frattamaggiore diventa un lido circondato da palazzine vista mare.
03 martedì Dic 2019
Posted riflessioni, vita civile
in«Il nazismo è criminale, assassino, sia negli ideali che nella prassi. Il comunismo lo è soltanto nella prassi, non negli ideali.»
Simon Wiesenthal (strenuo stanatore e cacciatore di nazisti)
________
Aggiungerei a questa differenza ben sintetizzata da Simon Wiesenthal il fatto che il comunismo – per sua definizione egualitario, inclusivo e internazionalista – punta(va) alla felicità dei più. Il nazismo e il fascismo, invece, punta(va)no alla supremazia dei pochi (perfino connotati etnicamente) sui molti; in quanto erano fondati sulla disuguaglianza, sulla discriminazione e sulla più assoluta gerarchizzazione piramidale.
Per questo mi fa incavolare la risoluzione del Parlamento Europeo che nello scorso settembre ha assimilato l’ideologia comunista all’ideologia nazista. Il maledetto revisionismo figlio del pensiero debole dei nostri tempi. L’idea malsana che non esista più la destra e la sinistra, ma solo un grande centro. (Un grande centro commerciale in cui trasciniamo le nostre esistenze senza un speranza di cambiamento, intenti solo ad alimentare il vitello d’oro del mercato, mi verrebbe da dire e dico.)
Che poi, più neghiamo le differenze tra destra e sinistra, più dilaga la versione becera e razzista del fascismo che si cela e si disvela sotto le bandiere nazionaliste dell’ordine e della sicurezza. La sicurezza che il mondo resti iniquo, ingiusto e malgovernato come è ed è sempre stato, mi verrebbe da aggiungere ed aggiungo.
Alla luce di queste affrettate osservazioni, riformulerei la pur acuta citazione di Simon Wiesenthal in questi termini:
«Il nazismo è criminale, assassino, sia negli ideali che nella prassi. Il comunismo [storico] lo è [stato] soltanto nella prassi, non negli ideali.»
Questo scrivo sentendomi anarchico, libertario e profondamente antifascista, più che comunista. (Perché, anche se è chiaro che non ci sono poteri buoni, è anche vero che pure il male ha le sue diverse gradazioni di malsopportabilità, di perversità e di fetore.)