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Il lanciatore di donne” è un libro da sentire e un album da leggere, un’opera in cui nove canzoni accompagnano nove racconti e possono essere fruite prima, durante o dopo la lettura.
Detto in termini pratici, siamo di fronte a una raccolta di narrazioni che hanno in appendice dei codici QR che, inquadrati con uno smartphone (o con qualunque altra diavoleria elettronica collegata a internet), permettono di ascoltare o di scaricare delle canzoni composte prima della stesura dei relativi racconti.
Un progetto molto attinente con lo specifico artistico di Jennà Romano che ha sempre sostenuto l’esigenza di un’arte priva di barriere e di etichette, capace di percorrere le “più disparate e disperate espressioni” della creatività.

Copertina

Nel loro insieme, i nove racconti sembrano dei frammenti di un Bildungsroman, capitoli sparsi di un romanzo di formazione di un cantante, musicista e autore di canzoni nato nell’area Nord della grande città metropolitana di Napoli, tra Grumo e Casandrino; un “provinciano universal” che ha collaborato con artisti locali come Tony Esposito, Franco Del Prete, James Senese, Patrizio Trampetti, Fausto Mesolella, Peppe Lanzetta e Daniele Sanzone e che ha incrociato la sua attività artistica con mostri sacri di altre… province, come Dalla e De Gregori, o di altri ambiti artistici e comunicativi, come Erri De Luca e Sandro Ruotolo.

I racconti hanno vita autonoma rispetto alle canzoni che li hanno ispirati, ma, nella maggior parte dei casi, canzoni e racconti si illuminano a vicenda di nuova luce e aggiungono nuove sfumature alla nostra percezione.
Una vena di malinconia e un senso perenne di perdita li tiene insieme. Storie e testi pervasi di disincanto, disperazione, nostalgia e mancanze. Quello di Jennà Romano è un mondo, il nostro mondo, in cui mancano ideologie, costumi, odori e abitudini del tempo andato; manca un senso di comunità capace di tenere insieme le generazioni; manca la manualità degli artigiani e dei musicisti e, soprattutto mancano, le persone che hanno dato senso alla nostra vita: nonni, madri, padri andati via troppo presto; amori che diventano serrande, che diventano muri…
Nell’Abitudine a veder morire, in un ordito borgesiano, la voce narrante di un adulto si incontra con la sua infanzia… “Osservavo stupefatto ciò che di più caro non avevo ormai: mio nonno, la mamma, me bambino.”

Col tempo, sai, tutto se ne va. E cominciamo a mancare anche a noi stessi.
Ma restano i suoni e i sapori dei primi anni: l’odore intenso di acquaragia; il ritmo dei martelli battuti sul ferro rovente nella costruzione di carri e carretti; le canzoni che hanno accompagnato la nostra vita (su tutte, quelle di Piero Ciampi, Lucio Dalla e Jeff Beck), “l’odore di fagioli freschi messi a bollire dalla mattina, mischiato al profumo del caffè”, la campanella della merceria di famiglia che “tintinnava una nota ripetuta una, due, tre, quattro volte, a seconda del grado di fretta del cliente e del suo stato d’animo”; squilli di telefono che preannunciano tragedie di esistenze ordinarie; silenzi e chiacchiericci nei corridoi degli ospedali…

Non glielo ho mai detto, ma credo che oltre al senso disperato della vita del suo amato Piero Ciampi, ci sia qualcosa di pasoliniano nello sguardo retrospettivo di Jennà. Il vuoto della scomparsa delle lucciole. Lo sguardo retrospettivo di chi ha perso la madre troppo presto ed è morto a 10 anni.

“Il calendario appeso al muro regalato dalla Farmacia del popolo era sempre inclinato da un lato per la corrente d’aria che faceva sbattere la porta d’ingresso quasi per dispetto e lo costringeva a una vita obliqua. Era sulla pagina di settembre, settembre 1980, quando quel battente smise di picchiare contro lo stipite e rimase chiuso per sempre.”

E poi ci sono le canzoni dei Letti Sfatti, il gruppo che Jennà condivide con Mirko Del Gaudio, percussionista di grande estro e perizia ritmica. Alcuni brani vengono da loro album precedenti, altri sono primizie assolute (“Il lanciatore di donne”, che dà il titolo a tutta l’operazione, e la bellissima e struggente “L’abitudine a veder morire”, un reggae melodico puntellato dalla voce di una speaker della CNN che annuncia morti e sopravvissuti di un’imbarcazione di migranti sulle coste della Sicilia, mentre noi guardiamo la TV e mangiamo). Sono la colonna sonora e la fonte di nove storie, nove scene e decine di spaccati di provincia in cui si trascinano esistenze di uomini vinti, ma ancora capaci di sogni, di desideri, di ossessioni e di musica.

Io sono quello
Che è morto vivo a dieci anni
Che ha visto solo la musica così da lontano
E si è fatto prendere la mano

Sono le cose che guardo la sera
Che mi fanno capire che il mio stomaco è vivo
È vivo anche se vivo male. È vivo per me

Io sono questo
E non mi chiedere altro.