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(Il rito della pausa didattica nel sistema scolastico italiano)

Ogni anno, a ridosso delle festività natalizie, le scuole superiori si mettono in “stand by” per seguire il trito rituale della “settimana dello studente”, ed ogni anno la riproposizione dell’evento si trascina in modalità più vuote e stanche. Una storia che si ripete in farsa e che ogni anno io postillo con mie riflessioni via via più sconsolate e affrante.
(Come andare allo stadio e sapere già in partenza che ne uscirai sconfitto e con meno punti in classifica, ma non riuscire a cambiare direzione, cambiare squadra o cambiare sport.)

Non escludo che questo crescente pessimismo che mi assale puntuale tra il 15 e il 25 dicembre, derivi anche dall’avanzare della mia età; e, tuttavia, quello che vedo, almeno nelle scuole che frequento, è innegabilmente un quadretto pre-natalizio sempre più squallido, finto e desolante.

Peraltro, a mio modo di vedere, questa riproposizione in stile farsesco dei più ferventi periodi di autogestione e occupazione degli scorsi decenni, rappresenta un grande autogol degli adolescenti italiani, in quanto:
– decreta il mancato protagonismo delle nuove generazioni nel sistema educativo (se questa è la settimana dello studente, il resto dell’anno, le altre settimane… di chi sono?)
– dimostra l’incapacità di proporre modelli nuovi ed alternativi (i rari corsi organizzati dal basso ripetono gli schemi di gioco imposti dai peggiori professori della vecchia guardia, lasciando scarso spazio alla creatività ed all’innovazione)
– sostituisce il sistema repressivo della scuola tradizionale con la repressione (spesso arbitraria) di servizi d’ordine affidati (nella maggior parte dei casi) agli alunni più incontenibili, nel tentativo (vano) di tenerli a freno mettendogli addosso una casacca da arbitro o da guardalinea (e loro, quasi sempre, la indossano, questa uniforme, con l’inflessibilità iniqua e vessatoria di un secondino che agisce indisturbato in un sistema autoritario e oppressivo); oltre al fatto che queste casacche da guardiano dell’ordine e della sicurezza vengono elargite con i peggiori metodi nepotistici e clientelari dal potente di turno, il rappresentante dell’immobilismo di un sistema basato sul favoritismo, l’iniquità, lo scambio e la (malintesa) amicizia.

E così ti può capitare di vedere arbitri e guardalinee giocare nei corridoi con le carte che hanno appena sequestrato in classe, perché “durante la settimana dello studente a carte non si può giocare”. Una vaga rievocazione dei professori che ci dicevano che a scuola era vietato fumare con la sigaretta penzolante dalla bocca e il fumo che gli nascondeva la faccia di bronzo. Una lezione di ipocrisia, sopruso e abuso di autorità, seguita quasi sempre dalla minaccia di interrompere la festa a fronte di eventuali proteste. “Il pallone è mio e decido io chi gioca, come si gioca e se e quando giocare!”

Infine, dato che queste “settimane di pausa didattica” vengono concesse dall’alto come un automatismo che lascia poco spazio alla discussione, impediscono l’innesco di un sano scontro generazionale (quello che serve a crescere, a imparare a negoziare e ad argomentare, per segnare le differenze con le vecchie generazioni e per affermare la volontà di un reale cambiamento rispetto allo “status quo ante”).

Questo scrivo nella speranza che qualche ragazzo legga, rifletta e, magari, confuti le mie parole con argomenti convincenti ed un dribbling da applauso. Magari anche con storie di pause didattiche di alto valore formativo o ri-creativo.

(E, mentre scrivo, continuo a chiedermi e a chiedervi cosa potremmo fare noi vecchi per favorire la formazione di nuove leve più capaci, dinamiche e innovative.)

[In quest’altra parentesi di forma quadrata mi scuso per aver (ab)usato, in varie occasioni, (di) un gergo calcistico che domino poco, con la velleitaria intenzione di rendere più accattivanti e appetibili le mie tesi e le mie antitesi.]