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È passata la paura. Tutti di nuovo in corsa. La società è in ripresa.
Masse di donne e uomini corrono con gli occhi fissi verso il vuoto e le orecchie tappate da cuffiette minuscole o ingombranti. Il sudore torna a percorrere le nostre strade. Il popolo può nuovamente scorrazzare per la città senza veti, senza meta e senza mascherina, sfiancandosi fino allo sfinimento e alla dimenticanza di sé.

Da qualche parte Baudrillard aveva già inquadrato in questo moto ostinato e inarrestabile una metafora dell’America dei tempi di Reagan. Quella in scarpette da ginnastica e cuffiette alle orecchie messe apposta per non sentire il ronzio del mondo che gira intorno.
Erano gli anni ’80. La Cina era ancora un Paese comunista e i telefoni erano attaccati a un filo.
Ora il footing, lo jogging, il running dolce e il running spinto si sono sparsi ovunque, con la viralità dei modi e delle mode ai tempi della globalizzazione.
Pronti, partenza via! Tutti a correre con la musica sparata nelle orecchie e gli occhi fissi da nessuna parte. Ormai solo un colpo di tosse ci può fermare o ci tiene tappati in casa, attaccati a dei telefoni senza più fili, ma connessi in una rete infinita e inestricabile che ci comunica la paura di un virus che si diffonde e si espande fregandosene dei conti in banca, dei contapassi e delle frontiere. Solo lo spettro della diffusione del contagio riesce a frenarci dall’esigenza di correre, correre, correre ostinatamente fino allo sfinimento, con il corpo che si inginocchia al suolo che prima ha calpestato ripetutamente e le gocce di sudore che scendono dalla fronte alle labbra e percorrono la schiena.

Ma io preferirei uscire da queste mura per andare al mare, di pomeriggio, camminando lento sulla sabbia umida per raggiungere il bagnasciuga. Oppure perdermi in un bosco cercando funghi e separando i buoni da quelli velenosi.