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“Sette opere di misericordia” è un romanzo, un romanzone, che dovete assolutamente leggere. Quattrocendoquindici pagine che rappresentano, attraverso le vicende e i ricordi di una decina di giorni nella casa e nella vita della famiglia Imparato, tutto un mondo che rimarrà per sempre impresso nella vostre memoria diventando una parte della vostra stessa vita.
La scrittura densa, sapiente e urticante di Piera Ventre la conoscevo già dai tempi della blogosfera, quando ci leggevamo reciprocamente rimbalzando con leggerezza e profondità da una pagina all’altra e poi creavamo occasioni per incontrarci anche nella vita extravirtuale.
Ma quello che mi ha meravigliato di quest’opera è l’impalcatura, la densità della storia, la costruzione architettonica dei fatti che ci mette di fronte a un intreccio di vite scandito dalle sette opere di misericordia del capolavoro sghembo di Caravaggio, in una Napoli dolente, traballante e precaria e in un’Italia attaccata al televisore, trepidante di speranza e poi sconvolta dalla morte di Alfredino, il bambino ingoiato dal pozzo.
Il romanzo si apre e si chiude con l’episodio di Vermicino (visto prima con gli occhi di un bambino e poi attraverso lo sguardo attonito di tutto il Paese). Chi ha più di 50 anni non può dimenticarlo.
“È stata una storia come quella del primo sbarco sulla Luna: il trionfo della tecnologia allora; la sua tragica sconfitta ora, davanti al pozzo di Vermicino. Si può andare sulla Luna, ma non si può salvare un bambino caduto in un pozzo. Ne veniva un senso di angosciosa impotenza, di disperazione”. Queste le parole di Leonardo Sciascia, pubblicate a caldo sul settimanale “Epoca” il 27 giugno del 1981 e riportate anche nella “note e ringraziamenti” del romanzo di Piera Ventre.

Dal primo al 12 giugno del 1981, andando avanti e indietro nel tempo e seguendo i fatti da diversi punti di vista, partecipiamo alle ansie, ai desideri e alle disgrazie di questa famiglia napoletana trasferita da Materdei ad un’abitazione nel Cimitero di Poggioreale, dove il padre, Cristoforo, fa il custode.
Cristoforo è un “loser”, un perdente nato, un uomo che resta privo troppo presto del padre, degli occhi, del lavoro, degli affetti… Ma perdenti in quella casa del cimitero e nella Napoli precaria e pericolante di questo romanzo lo sono un po’ tutti: Luisa, la moglie di Cristoforo; i loro figli Rita e Nicola; la seducente Rosaria, compagna di classe di Rita e ospite della famiglia Imparato; il professore Guerrini che si trasferisce dagli agi di Pisa ai disagi di una Napoli terremotata e desolata; il vecchio Erminio Longobardi e il giovane Armando, innamorato di Rosaria… E altrettanto desolata e incerta appare la vita degli animali, veri e immaginari, che popolano le loro vite: il gatto Moschillo curato amorevolmente da Cristoforo e da suo figlio tra le mura del cimitero; il cardillo canterino che Luisa si porta anche al cesso e Laika, il cane di pezza, unico vero confidente di Nicola. Su tutti – uomini e animali – Piera Ventre punta il suo telescopio e, seguendo il suo sguardo, ci spostiamo dal cimitero, ai vicoli di Napoli, alla lontanissima Pisa altoborghese, su su fino alla luna…
I fatti sono intervallati da vari flashback e ricordi, puntellati anche dalle pagine del diario del piccolo Nicola (Agosto 1980, arrivo del prof. Lorenzo Guerrini a Napoli; 5 giugno del ‘43, perdita dell’occhio di Cristoforo; novembre dell’80, terremoto; gennaio dell’81, primo incontro all’hotel Eden alla Ferrovia; e poi, ancora, l’arrivo nella casa del cimitero di Nino, il figlio del compare in procinto di emigrare in Germania; i tempi felici in cui gli Imparato vivevano a Materdei; l’arrivo in casa del cardillo…).
Di più della trama non dico per non togliervi lo sfizio di scoprire da soli i fatti ordinari e sconvolgenti di casa Imparato e del piccolo mondo che gravita intorno alle loro vite.
Aggiungo solo qualche considerazione.
Come avrete già percepito, le vite dei personaggi di questo romanzo sono pervase da una diffusa e sommessa disperazione.
Anche Rosaria – che sembra essere la figura più salda del romanzo, portatrice di una vitalità e di una carnalità che dà scompiglio – non fa che affrontare una catena di delusioni e frustrazioni. La sua stordente bellezza le dà “la sensazione di poter girare le cose” come vuole lei, ma “in realtà, erano le cose che facevano girare lei”.
In fondo, alla bella Rosaria, capita un po’ quello che capita a Napoli e ai napoletani, da sempre oggetto di desiderio e di repulsione. Qui, chi viene da fuori, viene come in una missione, in bilico tra l’ansia di espiazione e il desiderio di redimere e redimersi, ma resta irretito. Invece, chi a Napoli ci vive da sempre è scosso da continue voglie di andarsene e farsi una vita altrove.
La Napoli degli anni ‘80 che fa da sfondo al romanzo è una città puntellata da ponteggi di tubi Innocenti e impregnata da una fame atavica e insanabile. Una città immobile. Un’appendice di quel cimitero in cui la famiglia Imparato trascina la sua esistenza vedendo con un occhio solo la miseria in cerca di misericordia che li circonda. Una città cadente e decaduta in cui l’unica salvezza sembra essere la fuga.
In ognuna delle sette parti del romanzo (1. Dar da mangiare agli affamati; 2. Dare da bere agli assetati; 3. Vestire gli ignudi; 4. Ospitare i pellegrini; 5. Curare gli infermi; 6. Visitare i carcerati; 7. Seppellire i morti) sembra risuonare il severo “Jatevenne!” di Eduardo. Ma non si riesce a fare a meno di percepire il fascino perverso di Partenope. Il richiamo della sirena.
Conoscendo qualche tratto della vita dell’autrice, non riesco a fare a meno di confrontare i suoi personaggi con la sua biografia. Piera è una napoletana che vive a Livorno da più di trent’anni. Immagino che da lontano ripensi Napoli con lo sguardo di chi ne vede tutte le imperfezioni e la traballante precarietà, ma non riesce a distaccarsene del tutto…
Ad un dato momento, Rita, la figlia maggiore degli Imparato, dichiara: “era necessario […] che io vi nascessi. Per coltivare il desiderio di lasciarla e non tornarci più se non con il pensiero.”
E più avanti quella insanabile forza centrifuga viene espressa in terza persona e in termini ancor più spietati e perentori:
“[…] Voleva andarsene da quella città che li faceva tutti malati gravi, pietrificandoli come fa la lava quando si raffredda.
[…] Se ne sarebbe andata […]. Il più lontano possibile dagli edifici rosicati, dall’eredità della sua storia millenaria fatta di peste e fasti, di opulenza sfrenata e di miseria d’accatto, con quel vulcano che la presidiava silente, eppure minaccioso, simile a un drago in letargo che bastava niente a risvegliare affinché portasse solo morte e distruzione, e col mare, sí, quel mare che era un’idea, che bisognava cercare per vederlo, avvicinarsi, rasentarlo, altrimenti neanche si intuiva nel mentre si percorrevano strade e vichi in cui a stento filtrava un’oncia di sole solo quand’era a picco, un coltello di luce sulla testa. Ci camminava, per quella città, mangiandola assieme al cibo, boccone dopo boccone, per farsela meglio entrare in corpo, digerirla per poi disfarsene.
Dovevano esserci altri luoghi, si diceva.
C’erano altri luoghi, lo sapeva, in cui vivere sarebbe stato un po’ piú semplice, senza il Vesuvio a ribollirle il sangue, senza santi, senza tufo, con il mare – un mare che si vedeva e si toccava – ei suoi venti a ripulire l’aria. […] Se ne sarebbe andata.”
Se ne sarebbe andata.
Ma non si può fare a meno di descriverla, quella Napoli. Anche da lontano. Mi pare.
Forse Napoli e i suoi vicoli oscuri penetrati da improvvisi squarci di luce sono una metafora della precarietà delle nostre stesse vite e dell’attaccamento che pur tuttavia ce ne deriva.