Prima o poi bisognerà approfondire la storia di Giuseppe Tropeano e la sua dedizione alla medicina sociale. Il dottor Tropeano fondò negli anni ’20 un grande centro per persone con disagio mentale a Ponticelli, a Via De Meis.
Villa Laura, inaugurata qui a Frattamaggiore nel 1935, ne era una sorta di succursale.
Ho lavorato al Tropeano di Ponticelli per più di un anno come animatore teatrale tra il 1989 e il 1990, quando accoglieva centinaia di disabili mentali in una struttura ormai fatiscente e logora. Una brutta storia di degrado e di emarginazione nell’emarginazione.
Oggi il Tropeano è un bene in disuso ed esiste un comitato che punta alla sua riqualificazione. Villa Laura, invece, a cui il dottor Tropeano diede il nome della figlia, è stata restaurata per migliaia di euro per poi essere ceduta in gestione al privato.
Da Fratta a Ponticelli dovremmo unire le forze per fare in modo che questi beni comuni non tradiscano gli intenti filantropici e sociali di chi li aveva concepiti tra mille difficoltà in pieno fascismo.
Aggiungo che Villa Laura, nel dopoguerra, in periodo emergenziale, è stata concessa alla Scuola Elementare “Enrico Fermi” (primo circolo didattico di Frattamaggiore). Mia madre ha preso lì la licenza elementare nel 1949. Se non fosse stata concessa ai privati, poteva essere utilizzata anche ora per aiutare a colmare il bisogno di spazi pubblici scolastici emerso dopo la pandemia.
Né ad andarsene né a rimanere, a resistere, anche se di certo ci sarà altro dolore e altro silenzio.
È l’ultima parte di una poesia di Juan Gelman intitolata “Mi Buenos Aires querido“. La traduzione, alquanto traditrice come lo sono, sempre, anche quelle molto migliori di questa, è mia. L’originale fa così:
Hay que aprender a resistir. Ni a irse ni a quedarse, a resistir, aunque es seguro que habrá más penas y olvido.
Mo la chiamano resilienza questa cosa qua. Io continuo a parlare di capacità di resistere alle avversità e sono poco interessato alle sfumature e alle chiacchiere sulla qualità e il livello di sopportazione alle offese della vita e alle angherie degli oppressori di ogni razza e misura.
Ma tornando ai versi di Gelman, il titolo, “Mi Buenos Aires querido“, riecheggia un celebre tango di Alfredo Le Pera e Carlos Gardel. Non a caso, la raccolta poetica del 1962 che contiene questa poesia si chiama “Gotán” e gotán nel vesre/revés lunfardo (gergo rioplatense che si parla a Buenos Aires e a Montevideo) sta per tango. Per i più curiosi aggiungo che le parole in vesre si ottengono semplicemente invertendo l’ordine di sequenza delle sillabe, così una cabeza diventa una zabeca; un gato, un toga; una botella, una llatebo; una pizza, una zapi; una mujer una jerma e un libro, un broli.
Va be’, sea como sea, il succo di questo breve post è che bisogna imparare a restesire. Né ad andarsene né a rimanere, a restesire…
Fino alla fine del broli. Magari ridendoci sopra un po’ come in un film di Charlot. Fino all’ultimo rospire.
Quel mattino scesi come ogni giorno alle 7 e 35 per andare a lavoro. Ma niente sembrava lo stesso, quel mattino. Quel mattino la nebbia avvolgeva ogni cosa e sfumava i contorni della realtà conosciuta. Sfumava ogni cosa, la nebbia, quel mattino, ma non il mio dolore. Era arrivato dopo una lunga notte insonne, quel mattino, e io avrei voluto dissolvermi nella nebbia, ma mi toccava andare al lavoro, come ogni giorno e ogni mattina. Montai in macchina e accesi gli abbaglianti a luce gialla. Guidai senza pensare più a nulla. Attento solo a non uscire fuori strada. Non so quanto tempo avrò guidato. La macchina a un certo punto si fermò da sola. Probabilmente era finita la benzina. C’era ancora la nebbia, ma ormai era sera. Bussai alla tua porta e ti chiesi dov’ero. Tu invece di rispondere mi chiedesti spiegazioni.
Stamattina sono sceso come ogni giorno alle 7 e 35 per andare a lavoro, ti dissi. Ma niente sembrava lo stesso, stamattina, aggiunsi. Stamattina la nebbia avvolgeva ogni cosa e sfumava i contorni della realtà conosciuta. Sfumava ogni cosa, la nebbia, stamattina, ma non il mio dolore. È arrivata dopo una notte insonne, questa mattinata, e io avrei voluto dissolvermi nella nebbia, stamattina, ma dovevo andare al lavoro come ogni giorno e ogni mattino. Sono salito in macchina e ho acceso i fari fendinebbia. Ho guidato senza pensare più a niente. Attento solo a non scartare di lato e uscire fuori strada. Non so quanto tempo ho guidato. La macchina a un certo punto si è fermata da sola. Probabilmente è finita la benzina. Caspita, se è così avrò guidato a lungo… Avevo fatto il pieno due giorni fa. Intorno a me c’era ancora la nebbia, ma era sera, stasera. Ho bussato alla tua porta e ti chiesto dove fossi. Tu invece di rispondere mi hai chiesto spiegazioni, conclusi.
Lei mi fissò negli occhi e mi guardò come si guarda un bambino perso in un supermercato. Dallo specchio alle sue spalle osservai che si era diradata la nebbia. La riconobbi, finalmente, e la abbracciai.
intricato nelle sue maglie inquiete mi chiedo se ci sia ancora vita fuori da questa rete
in cui urlo mi dimeno e mi dibatto nelle acque rafferme del nulla di fatto
…..
intrappolato nel brusio di questo tramaglio senza senso né costrutto
cerco consenso aldilà di ogni ragionevole comprensione
e consenso offro senza voglia gioia o partecipazione
…..
imprigionato in questo guazzabuglio scandaglio una via d’uscita o uno spiraglio
ma mi trattengo e tentennando qualcosa ancora farfuglio in questo tafferuglio in questo subbuglio in questo groviglio in questo gliommero di parole senza senso né guinzaglio
…..
…..
nel crinale del finale col cuore infranto e il capo chino faccio un inchino come un rapper in attesa d’applauso alla chiusa di un componimento scrauso
che avevo perso che ho ricostruito che avrei fatto meglio a lasciare nelle pieghe private della mia memoria smarrita
Al Governo rincresce di essere stato costretto a esercitare energicamente quello che considera suo diritto e suo dovere, proteggere con tutti i mezzi la popolazione nella crisi che stiamo attraversando, quando sembra si verifichi qualcosa di simile a una violenta epidemia […] e desidererebbe poter contare sul senso civico e la collaborazione di tutti i cittadini per bloccare il propagarsi del contagio […]. La decisione di riunire in uno stesso luogo tutte le persone colpite e, in un luogo prossimo, ma separato, quelle che con esse abbiano avuto qualche tipo di contatto, non è stata presa senza seria ponderazione. Il Governo è perfettamente consapevole delle proprie responsabilità e si aspetta da coloro ai quali questo messaggio è rivolto che assumano anch’essi, da cittadini rispettosi quali devono essere, le loro responsabilità, pensando anche che l’isolamento in cui ora si trovano rappresenterà, al di là di qualsiasi altra considerazione personale, un atto di solidarietà verso il resto della comunità nazionale. Detto ciò, richiamiamo l’attenzione di tutti alle istruzioni che seguono, primo, le luci si manterranno sempre accese, sarà inutile qualsiasi tentativo di manovrare gli interruttori, non funzionano, secondo, chi abbandonerà l’edificio senza autorizzazione verrà immediatamente passato per le armi, ripeto, immediatamente passato per le armi (pp.45-46 e pp.170-71)
D’aprés Munch
Sto rileggendo “Cecità” di Saramago un quarto di secolo dopo la sua scrittura. Con passi come questo (che, peraltro, nel romanzo viene ripetuto due volte) resto per qualche secondo impietrito, agghiacciato, intrappolato dall’ansia e dalla paura. Poi mi viene voglia di impugnare le forbici, come l’innominata protagonista del romanzo. Ma ho difficoltà a decidere contro quale collo puntarle.
quando la tortura incalza, quando il corpo ci fa impazzire di dolore e angoscia, allora sì, si vede che povero animale siamo (p.215)
“Ensaio sobre a Cegueira” (questo il titolo originale) è una vera miniera di passi di grande potere evocativo e immagini potenti che esprimono una carnalità dolente e prepotente.
Aggiungo qui, a mo’ di note (soprattutto per me stesso), altre memorabilia del romanzo tratte dalla collana Universale Economica Feltrinelli. (Mi spiace non avere più l’edizione Einaudi del ’96.)
Non sono i brani più contundenti dal punto di vista narrativo, Sono quelli che possono funzionare meglio come spunti di riflessione e citazioni da stampare sui baci di cioccolata o tra i post distratti delle reti sociali, Saramago offre uno sguardo sghembo e parossistico sul mondo che attraverso l’assurdo, il paradosso e un continuo gioco di specchi deformanti propone una sua profonda e anticonvenzionale interpretazione del reale, Chi non conosce il suo stile narrativo, forse sarà colpito anche dal suo personale uso della punteggiatura, le virgole insistite, la mancanza del virgolettato e di altri segni di interpunzione, Un invito a tornare a una oralità della letteratura, rafforzata dal frequente ricorso a proverbi e modi di dire idiomatici, ma al tempo stesso una sfida al lettore ad addentrarsi in una esperienza di lettura non convenzionale, magari da fare a voce alta e in compagnia.
eravamo già ciechi nel momento in cui lo siamo diventati, la paura ci ha accecato, la paura ci manterrà ciechi p. 116
Ci sarà pure un governo, disse il primo cieco, Non credo, ma, nel caso ci fosse, sarebbe un governo di ciechi che vogliono governare dei ciechi, e cioè, il nulla che pretende di organizzare il nulla, Allora non c’è futuro, disse il vecchio dalla benda nera, Non so se ci sarà futuro, ma adesso si tratta di sapere come potremo vivere in questo presente, Senza futuro il presente non serve, e come se non esistesse p.216
Siamo regrediti all’orda primitiva, disse il vecchio dalla benda nera, con la differenza che non siamo più qualche migliaio di uomini e donne in una natura immensa e intatta, ma migliaia di milioni in un mondo spolpato ed esaurito p.217
Dentro di noi c’è una cosa che non ha nome, e quella cosa è ciò che siamo. p.233
Strada facendo verso la casa della ragazza dagli occhiali scuri attraversarono una grande piazza dove c’erano gruppi di ciechi intenti ad ascoltare i discorsi di altri ciechi, a prima vista né questi né quelli lo sembravano, chi parlava volgeva infervorato la faccia verso chi ascoltava, chi ascoltava volgeva attento la faccia verso chi parlava. Si proclamavano la fine del mondo, la salvezza penitenziale, la visione del settimo giorno, l’avvento dell’angelo, la collisione cosmica, l’estinzione del sole, lo spirito tribale, l’umore della mandragora, l’unguento della tigre. la virtù del segno, la disciplina del vento, il profumo della luna, la rivendicazione della tenebra, il potere dello scongiuro, l’impronta del calcagno, la crocifissione dela rosa, la purezza della linfa, il sangue del gatto nero, il sopore dell’ombra, la rivolta delle maree, la logica dellantropofagia, la castrazione indolore, il tatuaggio divino, la cecità volontaria, il pensiero convesso, quello concavo, quello piano, quello verticale, quello concentrato, quello disperso, quello sfuggito, l’ablazione dele corde vocali, la morte della parola. Qui non c’è nessuno che parli di organizzazione, disse la moglie del medico al marito, Forse è in un’altra piazza, rispose lui. Continuarono a camminare. Poco più avanti la moglie del medico disse, Ci sono più morti del solito per la strada, Perche la nostra reistenza si sta esaurendo, il tempo si conclude, l’acqua si esaurisce, le malattie aumentano, il cibo si trasforma in veleno, lo hai detto tu stessa, ricordò il medico, Chissà se tra questi morti non ci saranno i miei genitori, disse la ragazza dagli occhiali scuri, e io, magari, passo accanto a loro e non li vedo, È una vecchia abitudine dell’umanità, passare accanto a morti e non vederli, disse la moglie del medico. pp.251-52
A questo siamo ridotti, a sentir leggere, Io non mi lamento, potrei restare cosi per sempre, disse la ragazza dagli occhiali scuri, Neanch’io mi sto lamentando, dico solo che serviamo soltanto a questo, a sentir leggere la storia di un’umanità esistita prima di noi, approfittianmo della combinazione che ci siano ancora un paio d’occhi aperti, gli ultimi rimasti, se un giorno si dovessero spegnere, non voglio neanche pensarci, allora il filo che ci unisce a quell’umanità si spezzerebbe, sarebbe come se ci stessimo allontanando gli uni dagli altri nello spazio, per sempre, e ciechi loro tanto quanto noi, Finché potrò, disse la ragazza dagli occhiali scuri, manterrò la speranza, p.257
Attraversarono una piazza dove c’erano gruppi di ciechi che s’intrattenevano ad ascoltare i discorsi di altri ciechi, a prima vista non sembravano ciechi né gli uni né gli altri chi parlava girava infervorato la faccia verso chi ascoltava,chi ascoltava girava attento la faccia verso chi parlava. Si proclamavano i principi fondamentali dei grandi sistemi organizzati, la proprietà privata, il libero scambio, il mercato, la borsa, la pressione fiscale, l’interesse, l’appropriazione, l’espropriazione, la produzione, la distribuzione, il consumo, l’approvvigionamento e il suo contrario, la ricchezza e la povertà, la comunicazione, la repressione e la delinquenza, le lotterie, le istituzioni carcerarie, il codice penale, il codice civile, il codice stradale, il dizionario, l’elenco telefonico, le reti di prostituzione, le fabbriche di materiali bellici, le forze armate, i cimiteri, la polizia, il contrabbando, le droghe, i traffici illeciti permessi, la ricerca farmaceutica, il gioco, il prezzo delle cure e dei funerali, la giustizia, il mutuo, i partiti politici, le elezioni, i parlamenti, i governi, il pensiero convesso, quello concavo, quello piano, quello verticale, quello inclinato, quello concentrato, quello disperso, quello sfuggito, l’ablazione delle corde vocali, la morte della parola. Qui si parla organizzazione, disse la moglie del medico al marito, Me sono accorto, rispose lui, e tacque. Continuarono a caminare, p.262
Secondo me non siamo diventati ciechi, secondo me lo siamo. Ciechi che vedono, ciechi che, pur vedendo, non vedono p. 276
Breve appendice sulla punteggiatura eterodossa di José Saramago
Stefania (un’altra Stefania, non mia figlia) mi ha chiesto cosa intendessi per virgole insistite.
Le Virgole insistite… interessante questo concetto, Gae… è la prima volta che leggo queste due parole luna accanto all’altra … me lo spieghi?
Riporto qui la rapida risposta che le ho dato altrove:
Ci provo, Stefania. Saramago ha inventato un suo personale sistema di punteggiatura. In Cecità gli unici segni di punteggiatura sono le virgole (frequenti) e i punti (rari). Questo richiede una grande attenzione e partecipazione del lettore per capire chi sta dicendo cosa, ma presuppone anche un avvicinamento della lingua scritta alla lingua orale. Le virgole e i punti sono come le pause nella musica, ma, leggendo, come nella musica, è il lettore che interpreta il brano e gli dà un’intonazione. Da qualche parte ha detto che è come trovarsi in una strada con pochi segnali stradali. Come guidatore sei costretto a stare più attento. Rischi anche di perderti. Però alla fine padroneggi meglio il territorio in cui ti muovi.
In fondo, anche nell’arte e nella musica molti autori hanno lavorato a togliere e a dare più spazio alle possibilità del fruitore di ricostruire in modo autonomo e personale il senso dell’opera. Nei romanzi di Saramago, l’effetto grafico di questa concezione è una pagina piena di virgole. Da qui la mia ipersintetica definizione delle virgole insistite.
I punti appaiono solo per le pause lunghe. Così può capitare di vedere delle virgole seguite da maiuscole, Io le interpreto come, sei di fronte a una pausa breve di una frase di senso compiuto, magari fermati anche un po’ più a lungo, Spesso poi le virgole corrispondono a due punti apri virgolette per introdurre un discorso diretto, oppure a un punto interrogativo. Sono stato abbastanza chiaro, Si capisce che la virgola che precede questo Si e quella che chiude la frase che stai leggendo corrispondono, nella punteggiatura classica, a dei punti interrogativi,
un conte senza contea è una nave senza vela ‘na lanterna senza cannela ‘n’omme senza lu core ‘na figliola ca nun tene ammore
un conte senza contea è un teatro senza platea un filosofo privo di idea un ulisse senza odissea un’eneide mancante di enea
‘nu conte senza contea è comm‘a nerone senza poppea ‘nu cantante senza trachea a lord without a “ghinea” don quijote sin dulcinea
li conti senza contea so’ comm’arbere senza frutte so’ turreno sicche e ‘asciutte che nun fanno sciure né chiante
li conti senza contea so’ figliole che n’hanno amanti parlamenti senza furfanti sanremi senza cantanti banche senza contanti e industrie non inquinanti (‘azzo, bella st’epopea)
i conti senza contea sono comm’a mme senza logorrea
Mentre il gatto guarda il fungo, il topo se ne va con il formaggio.
(Gli acquerelli sono di Stefania, le matite e le elaborazioni digitali, mie.)
Ecco qua, Stefania e io ci siamo messi ad illustrare un proverbio che non c’è, ma potrebbe esserci.
I proverbi sono un distillato di contraddittoria saggezza. L’unione fa la forza, sì, ma Chi fa da sé fa per tre. I soldi non fanno la felicità, ma Pazienza, tempo e denaro acconciano ogni cosa. E poi L’abito lo fa o non lo fa il monaco? Insomma, i detti popolari non stanno là per dirci la verità, ma servono a sintetizzare un’idea diffusa o a diffonderne una ancora energente. Sono schegge fulminanti, pensieri sintetici facili da mandare a memoria, per la presenza di immagini iconiche, metafore incisive, trovate argute, rime consonanti e assonanti, associazioni improbabili, storielle sintetiche, binomi fantastici…
Quello di inventare proverbi è sempre stato un mio pallino. E quando non li invento di sana pianta, provo a tradurli dal napoletano o dall’italiano in altre lingue.
Credo che il mio capolavoro sia:
“El agua es poca y el pato no flota.”
(Dal napoletano “L’acqua è poca e ‘a papera nun galleggia.”)
Lo vado diffondendo per le strade della Spagna e dell’America Latina da una ventina di anni. Ma il grosso della popolarizzazione della mia papera galleggiante sta avvenendo nel mare magnum del web. Da quando ho cominciato a buttarlo nelle acque torbide di internet, comincio già a vederlo affiorare in qualche meandro della blogosfera. Magari tra un centinaio di anni io non ci sarò più, tutto quello che ho detto e scritto sarà dimenticato, ma lui, il mio “pato flotante” diventerà di dominio pubblico e autore anonimo, come è giusto che sia per un proverbio.
Ma mi fermo qui perché “Un gioco è bello quando dura poco.“
Ovvero (in mie improbabili e traditrici traduzioni):
– Um jogo è um jogo quando dura pouco. – Ein Spiel ist ein Spiel, aber zuviel ist zuviel. – A game is a game, but too much is a shame. – A joke is a joke from midday ‘till one ‘o clock. – Una broma es una broma cuando poco tiempo toma.
Lo vedevo in difficoltà. Prima mi sfiorava la mano e mi allontanva i capelli dagli occhi. Come se non volesse perdere nemmeno per un minuto il contatto che aveva stabilito con me. Mi ascoltava come sapeva ascoltare lui. Era facile aprirsi e affidarsi alle carezze del suo sguardo. Ogni tanto mi interrompeva per farmi qualche domanda. Ed erano sempre le domande giuste. Sorseggiava lentamente il suo rosso e ti diceva cose che ti aprivano mondi. Ma all’improvviso, cominciai a sentirlo più distante. Si era rotto qualcosa. Più cominciavo a interessarmi io a lui, più avvertivo che stava innalzando un muro tra di noi, per andarsene lontano.
Le acque si intorbidirono non appena fui io a cominciare a fargli qualche domanda e le sue mani non attraversarono più il tavolo in cerca delle mie. Fu come una pioggia improvvisa.
Bevve il bicchiere tutto di un sorso, abbassò lo sguardo e disse:
“Attenzione. Sono come quelle droghe che la prima volta che le prendi dici Non mi ha fatto niente! Poi creo una dipendenza da cui trovo io stesso difficile liberarmi. (A volte è difficilissimo affrancarsi dall’altrui dipendenza.) C’è poco da spiegare. Io questo sono. Per questo ora avverti questa distanza.”
Mentre pronunciava l’ultima frase mi fissò di nuovo negli occhi. Io arrossii come un’adolescente al primo incontro. Lui fece come se niente fosse. Si versò un altro bicchiere e continuò senza guardare più nulla. Ormai sembrava che parlasse da solo, ad occhi chiusi:
“A volte mi sento come il mago di Oz, quello che inventa le griglie e gli schemi, quello che fa le impalcature e i circuiti per farti vivere in un mondo incantato. E, credimi, qualche volta pesa molto saperlo. E temere di sbagliare ad ogni passo, per sé e per gli altri che non conoscono i meccanismi, ma dentro quelle griglie ci sono fino al collo, intrappolati quanto te. Sono una persona che crea dipendenza e al tempo stesso dipende dalle persone che da lui dipendono. Sembra un fottuto gioco di parole. Ma sono così. Un dependence-alcoholic, per così dire. Scappa via. Non mi chiamare più. Faccio anche percorsi di liberazione, ma ci ricado sempre. E credo di non essere l’unico. Magari un po’ sei così pure tu… Ci siamo riconosciuti, forse. Che ne so? Forse la dipendenza altrui ci dà un senso di superiorità, o semplicemente un senso…, un senso qualsiasi. Ed è difficile rinunciarci dentro al vuoto delle nostre vite.”
Io cercai di tranquillizzarlo. Gli dissi che non ero mai dipesa da nessuno. Neanche dai miei. Aggiunsi che non cercavo una balia, ma un amico, qualcuno con cui riempire quel vuoto…
Ma lui mi interruppe:
“L’unica soluzione è il geco. È tutta la vita, che combino solo guai ed ogni passo mi sembra l’innesco di un’altra catastrofe. Per questo tante volte mi piace mettermi al sole del giardino e lasciare che i raggi mi ridiano un po’ di carica e una sana voglia di fare niente. Come una lucertola al sole che sta là e non esiste il mondo intorno. Ma se provi ad avvicinarti il suo occhio interiore lo avverte e scappa via scomparendo tra le foglie.”
Dietro di me, sentii il frastuono di una collezione di calici in frantumi. Mi girai a guardare. Ma non vidi niente. Doveva essere successo nell’altra sala.
Quando volsi di nuovo lo sguardo verso di lui, di fronte a me non c’era più nessuno. Era sparito. Come in un sogno.
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Da allora, non l’ho più cercato e non mi ha più cercata. Ci penso spesso. Ma non saprei da dove cominciare.
Forse potrei ringraziarlo. Perché quella sera, comunque, non toccò a me pagare il conto.