Negli Stati totalitari c’è una sola voce autorizzata a diffondere le menzogne di Stato. In democrazia le voci menzognere si moltiplicano ed il cittadino è libero di farsi infinocchiare da una pluralità di fonti, scegliendo la versione che trova più affine alla sua ideologia ed alle sue credenze che, inevitabilmente, si intrecciano con i suoi interessi, i suoi desideri e le sue paure. Ma in teoria è sempre possibile, sia in democrazia, più o meno alla luce del sole, che in dittatura, all’ombra della censura e dell’autocensura, che il cittadino liberopensante possa attrezzarsi, studiare, confrontare le versioni ed esercitare il suo senso critico fino al punto di smascherare le menzogne che gli vengono propinate. Da qualunque fonte esse provengano. Nulla esclude, infatti, che possano essere menzognere o fallaci anche le notizie che dichiarano di smentire le menzogne e sbugiardare i mentitori.
Insomma, in dittatura come in democrazia, esiste l’informazione di regime, l’informazione non allineata, l’informazione non troppo allineata e la controinformazione; ma nessuna di loro detiene la verità assoluta o ha ragione perché sì…
Ecco perché, per godere di una democrazia compiuta, soprattutto nell’epoca della globalizzazione e della telematica, sarebbe necessario educare le nuove generazioni al pensiero critico che dubita anche di se stesso nel momento stesso in cui sta criticando e dubitando. Altrimenti le differenze tra l’informazione e la propaganda diffuse da un regime dittatoriale e la propaganda e l’informazione diffuse da un regime democratico finiscono per essere solo di facciata.
Insomma, sotto ogni regime e sotto ogni bandiera, ad ogni bivio in cui ci imbattiamo, bisogna essere problematici e fermarsi a pensare, studiare e analizzare. Il che non vuol dire rimanere immobili al cospetto di ogni dilemma soffrendo i dardi dell’oltraggiosa fortuna in un un mare d’affanni. Perché poi, di fronte a ciascun crocevia che incontriamo nel percurso bisogna pur sempre operarla una maledetta scelta. E bisogna farlo sapendo fino in fondo che ogni scelta fatta è una negazione lasciata in disparte da qualche altra parte. Sapere cosa si sceglie è sapere cosa si nega. E tanto più per questo bisogna operare le proprie scelte con il massimo della consapevolezza possibile nel momento e nell’ambiente dato in cui vi troviamo a decidere e deliberare. Il difficile è alimentarla e autoalimentarla questa consapevolezza andando avanti e indietro per strade incerte, costellate di bivi, incroci, crocicchi e vicoli ciechi.
Come postilla, per affinità, un post in versi perversi di un lustro fa:
Mmmm, qwerty or not qwerty? Dai, dimmi che ti diverti cercando un’altra rima con raspa, ruspa e lima.
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Andar da capo a capo come ti dice il capo. Tornar da capo a fine senza capo né confine.
Il senso non importa, la parola ti trasporta, il ritmo fa da scorta. Rap. La rima apre la porta, il layout ti supporta in su la spoglia morta. Trap.
Tornar da capo a capo come t’impone il capo o il piccolo kapò che dice sì o no.
E no!
No guardiani della soglia che ammazzano la voglia! No guardiani della soglia che ammorbano la coglia Senza mangiar la foglia Né erba qualsivoglia!
Ahi, quanto fiato e quante fiate tutte sprecate…
Voglio solo ruzzolare come fa l’acqua al mare nel mezzo delle rovine a riva dal capo al fine.
Fine come la sabbia fine, Fine come la rabbia affine, Fine come la gabbia al fine, Fine fine fine fine e Fine.
Naufrago in un mare di parole.
* Fin dagli albori della storia della tipografia, gli stampatori e i proto-grafici hanno fatto bozze di stampa usando testi riempitivi, per lo più privi di senso, usati per avere un’idea di massima sulla resa grafica dell’impaginazione e dei caratteri utilizzati. LOREM IPSUM è uno dei più famosi e diffusi di questi nonsensi. Intraducibile, ma in qualche modo riconducibile a un testo di Cicerone da cui sono state tratte una serie di parole, talvolta nemmeno per intero. Io qui ho fatto più o meno la stessa cosa traendo versi in rima dal testo codificato dai grafici di mezzo mondo. Il resto è un dolorem che ha perso il do.
(Quanto a QWERTY mi pare inutile dirvi che sono le prime sei lettere della miatastiera e, con molta probabilità, pure della vostra.)
Amici cari, spegnete i monitor, spegnete questo telefonino, accendete il cervello e immergetevi anima e corpo in un libro di carta stampata. (Ma può andar bene anche un e-book, se siete uno di quegli esseri perversi a cui piace farlo così.)
Leggendo ci si allontana dal mondo per comprenderlo meglio.
Oggi, 23 Aprile, è la Giornata internazionale del Libro e del diritto d’autore e, inCatalogna e zone collegate, è tradizione regalare un libro e una rosa. Ma se lo fate domani o un altro giorno sarà bello lo stesso…
In un giorno come questo (più o meno) morirono Cervantes, Shakespeare e Garcilaso de la Vega; in un giorno come questo nacque Vladimir Nabokov… E così, nel 1996, l’UNESCO scelse la festa di Sant Jordi per rendere un tributo al libro, difendere il diritto d’autore e alimentare il piacere di leggere e, leggendo, librarsi e liberarsi (ma questo l’ho aggiunto io, per fare un po’ di spicciola poesia e giocare con le parole, che è una cosa che tiene in allenamento il cervello e non fa mai male).
Insomma, facciamoci contaminare dal virus della lettura (qui, per i lettori più indefessi, c’è un link di approfondimento che rimanda a un link di approfondimento) e magari approfittiamone per fare pure un salto in libreria, prima che ci fanno rossi, prima che ci fanno neri (a rigore di grammatica, la lettura di tanti manuali qui avrebbe imposto un congiuntivo, ma a volte i suoni della strada e il gusto personale prevalgono sui libri e sui dettami dell’accademia; insomma, bisogna leggere, leggere…, ma poi ognuno fa di testa propria; e lo fa proprio perché ha letto tanto e tanto ha imparato da poter pure disimparare, in qualche modo; ma questa è un’altra giornata che all’Unesco, o chissà dove, debbono ancora fondare: la Giornata Mondiale di Chi fa di Testa Propria e poi si prende pure la sacrosanta responsabilità di sostenere – o confutare – quello che ha detto e ha fatto e, ancora più, quello che non ha fatto, detto e letto).
Amic@ car@, se sei arrivato fino a qua (e magari ti sei peritato pure di seguire i link), mo puoi pure spegnere il tuo device (il dispositivo, ‘o computer, ‘o tablet, l’apparecchietto, ‘o cusariello, ‘o cellulare, il telefonino…).
L’uomo finì divorato. La mela si ribellò alla grammatica e se lo mangiò.
Che poi, a pensarci bene, più che di una ribellione alla grammatica, trattasi di una deviazione dal senso di realtà e ancor più di uno scostamento dalla tradizione degli esempi morfo-logici riportati da quel dì da schiere di insegnanti di lingue nazionali ed estere; i quali, è risaputo, sono soliti spiegare la complessità della comunicazione linguistica con frasette fatte ripetute all’infinito di generazione in generazione. Fino alla degenerazione (the pen is on the table / the penis is in the stable / the hen is in the fable / the man is on the cable / the pun is in the label…). Infatti, tornando al nostro pomo primigenio, dal punto di vista strettamente grammaticale appare del tutto corretta la frase “L’uomo è mangiato dalla mela” che volge al passivo la frase “La mela mangia l’uomo” (“El hombre es comido por la manzana” /”The apple eats the man”). Soggetto, verbo, complemento. Una sequenza di parole corretta quanto la canonica (e poco probabile nell’uso linguistico) “la mela è mangiata da me” (“Der Apfel wird von mir gegessen”, oh mein Gott! Patate’, Patate’, dance ‘e lume!).
Alla luce di questi fatti, appare evidente a tutti quelli a cui ciò appare evidente che è solo l’esempio della mela carnivora a suonare inusuale e contrario al senso comune; mentre la rappresentazione di questi frutti fagocitanti resta ben inquadrata nei binari della grammatica tradizionale, visto che con una frase come “Io sono mangiato dalla mela” non vengono riportati errori o imperfezioni che trasgrediscano le regole codificate (“Je am eaten por uma maçã”). Alla grammatica regolativa solo questo importa. Il pedissequo rispetto delle regole e delle norme morfologiche e sintattiche.
La parabola della mela mangiante, poi, assume un carattere allegorico nella misura in cui io, ora stesso, mi sento divorato dai miei pensieri che sembrano pensarmi più di quanto io pensi loro. Come se il loro flusso si stesse stendendo su questo foglio in piena autonomia. Pertanto, io non rispondo delle parole che precedono questo punto e cominciano con l’uomo che fu divorato da lei (deittico riferito al frutto del paradiso che Eva mangiò, Eris lanciò, Tell trapassò, Biancaneve avvelenò, Steve Jobs morse e sfruttò e il resto non ricordo o non so).
Ripubblico qui, per mia memoria e per chi si trovasse a passare di qui e non avesse di meglio da fare, una presentazione di me medesimo che ho scritto la settimana scorsa per il gruppo FB “Le stanze della poesia”.
Mi chiamo Gaetano Vergara, ho più di mezzo secolo di esistenza in terra, ancora tante cose da imparare e poco tempo per farlo.
– Ma come hai potuto darmi una sola vita e tante cose da fare, apprendere e sapere? Lo grido ripetutamente, a giorni alterni e a giorni alterni dei giorni alterni, rivolgendo la mia richiesta a qualcuno che non so…
Spero di riuscire ad essere sempre dispersivo come sono e non smettere mai di imparare ogni giorno cose nuove. La vita è troppo breve, ma è anche troppo bella per sprecarla a fare di malavoglia una cosa sola. I miei molteplici interessi spaziano dall’arte, alla letteratura, alla musica e all’informatica, ma più di ogni altra cosa mi interessa comunicare con gli altri e ascoltare.
Mi guadagno il pane insegnado spagnolo. In passato ho lavorato come animatore teatrale e, attualmente, mi occupo anche di formazione per adulti, soprattutto nell’ambito delle nuove tecnologie applicate alla didattica. Curo diversi siti web, pagine social e un mio blog personale (https://aitanblog.wordpress.com/). In più sono impegnato attivamente nello sforzo di rendere più vivibile la cittadina in cui vivo (a qualche chilometro da Napoli).
Tanta roba. Ma prima di ogni altra cosa sono padre di una splendida bambina di 9 anni con cui passo piacevolmente buona parte della giornata, cercando di coinvolgerla nelle mie passioni e lasciandomi coinvolgere dalle sue.
Ah, dall’età di 12 o 13 anni scrivo testi in cui vado frequentemente a capo prima che si concluda il rigo.
Tra veri innamorati, lei scorreggia e lui, sorridendo, le dà una pacca sul culo.
Dal 2006 ad oggi ho pubblicato sul mio blog più di 70 frammenti di una serie che ho intitolato Muito Romântico in omaggio a un album del ’78 di Caetano Veloso in cui ho trovato in giusto equilibrio gli ardori delle parole più ardite e gli zuccheri delle espressioni più logore e consunte; quel “camminare dritto su un capello, sospeso tra il doppio abisso del lirismo e del volgare” di cui parlava Flaubert a proposito della sua più famosa madama.
Oggi, dopo più di due anni di pausa torno alle mie romanticherie con questa flebile flatulenza; e colgo l’occasione per invitarvi a leggere il resto della serie (dal primo al penultimo frammento muito romântico).
Tra quante sorti ancora si gioca la partita? Di quante morti ancora sarà fatta la mia vita?
Perché non importa la data segnata sui calendari, qualunque sia l’anno il giorno e l’ora è sempre troppo presto per partire e troppo lunga la fila già schierata sulla scogliera
come condannati in attesa di giudizio.
The Cure, “The Holy Hour”, 1981
Achille era il più eccentrico ed inquieto della nostra inquieta ed eccentrica famiglia. Non passava inosservato, Achille. Negli anni ’80 fu il primo dark di Frattamaggiore. Tutto vestito di nero, con la faccia ricoperta di cerone, occhi contornati di matita, lunghi capelli corvini da medusa e unghia smaltate di nero. Con la sua bella figura alta e dritta, le mani lunghe e affusolate, lo sguardo intenso da miope senza occhiali, non sarebbe passato inosservato neanche ‘cu ‘nu jeans e ‘na maglietta, in verità. Aveva sei o sette anni meno di me, Achille. Da ragazzo mi faceva leggere terzine scritte in una lingua antica e misteriosa e mi parlava di magia e riti gotici.
Una trentina di estati fa non tornò da un viaggio in Calabria. Non tornò a settembre, a scuola iniziata, non tornò in autunno, non tornò per Natale né per Pasqua. Ogni tanto telefonava e diceva che stava bene, ma cosa facesse nessuno lo sapeva, e tutta la sua vita sembrava ammantata in uno spesso velo di mistero. Finché, attraverso una serie di investigazioni che non sto qui a raccontare, venimmo a sapere che Achille si trovava a Cirò, sulla costa ionica. Andammo zio Gennaro e io in spedizione persuasiva: Achille non aveva ancora 17 anni, ed in famiglia ci sembrava opportuno che concludesse almeno i suoi studi liceali. Scoprimmo che Achille in Calabria faceva il mago, ed aveva uno studio, diciamo così, ben avviato; era diventato uno di quelli che ti ipnotizzano col pendolino, ti leggono la vita in una palla di vetro e ti tengono legati al filo delle loro parole. Mi spiegò che una professionista della magia lo aveva notato, aveva avvertito i suoi poteri e l’aveva avviato sul cammino del paranormale. Non fu facile convincerlo a venire a prendersi il diploma a Napoli. In realtà, per un po’ fu lui a cercare di convincere me che anch’io c’avevo un certo carisma, un’aura, un sesto senso e non so che. Insomma per poco non aprimmo una ditta Vergara, cugini magici. Il diploma alla fine lo prese, Achille, ma continuò ancora per un paio di anni ad esercitare la professione occulta.
Poi se ne andò a studiare filosofia a Milano. A un dato momento, si stancò e si trasferì a Dublino, poi a Londra, dove ha fatto mille mestieri (ma meno di quanto ne abbia fatto il padre), poi rientrò qua, dove la sua vita si è conclusa troppo presto e senza magia.