Uffa, credevo di averlo inventato io quel MerryvaXmas, poi ho controllato in rete e ho visto che qualcuno lo aveva già pensato, espresso e diffuso. Ma era troppo ovvio perché nessuno ci fosse arrivato prima di me. Soprattutto nei Paesi di lingua inglese.
A proposito di lingue e linguaggi, ve li voglio ribadire in (quasi) tutte le lingue d’Europa i miei auguri.
Li ho presi dalla preziosa pagina multilingue di Jakub Marian.
Ma fatemelo ripetere pure quest’anno che il nuovo anno sarà nuovo se sapremo rinnovarlo, se sapremo rinnovarci; e che non ci manchi mai un desiderio da realizzare, qualcosa da imparare, un posto in cui voler stare e qualcuno con cui andarci. Magari senza timori e senza mascherine.
Ok. Sto spargendo troppo zucchero. Mitigo con quattro amare vignette del grande Altan. Vignette vecchie ma sempre attuali che ho messo insieme e ricolorato per il gusto di accostare il nome di Altan a quello di Aitan.
Vabbuò. Basta mo!
Fine danno (Fosse ‘a Madonna!)
¡Feliz 2022 a todos los que comparten el deseo de un mundo mejor!
Sotto lo sguardo della luna, la Befana guida la slitta e Papà Noel, alle sue spalle, la scopa. Sta per arrivare… un nuovo anno. Le renne sorridono e il cielo si riempie di fiocchi di neve e polvere di stelle.
Tanti auguri di un anno pieno d’amore. In tutte le posizioni!
Ho l’impressione che scriviamo e continuiamo a scrivere qua sopra (qua dentro) per sconfiggere la nostra solitudine e la solitudine degli altri. Scriviamo per cercare partecipazione, per denunciare quello che ci fa male e per condividere quello che ci produce gioia o piacere. Scriviamo per soddisfare intime necessità di comunicazione e di comunione col mondo. Scriviamo per provare agli altri e a noi stessi che esistiamo e, scrivendo, cerchiamo una riprova della nostra esistenza nel numero dei pollici eretti che riceviamo. Anche quando non facciamo altro che copiare e incollare parole altrui oppure quando intasiamo i social per comunicare e ipercomunicare che non abbiamo nulla da dire, ma abbiamo l’impellente necessità di farlo sapere a tutti, che non abbiamo nulla da dire.
Poi tante volte la rete intrappola le nostre parole e lascia che il ragno fagociti i nostri pensieri senza alcun segno di interesse o attenzione. Tante volte abbiamo l’impressione che la distrazione regni sovrana e che quei pollici eretti abbiano poco o nessun senso. Tante volte ci rendiamo conto di essere isole legate dalle acque che ci separano e finiamo per sentirci più soli e inascoltati, dopo aver lanciato nel mare magnum del web il nostro ennesimo messaggio in bottiglia sotto forma di sussurro, di riflessione o DI GRIDO. Abbiamo la sensazione di aver scritto una lettera che non riceve risposta. E forse non ci rendiamo nemmeno conto di star scrivendo a una moltitudine più o meno indistinta e non a un singolo destinatario degno delle nostre confidenze e attenzioni.
E intanto Zuckerberg & Co. raccolgono i nostri dati e ne fanno mercato. Perché a loro solo questo interessa. Tenerci intrappolati nella loro rete e fare in modo che non mettiamo la testa fuori di qui e da qui intravediamo la realtà e ci approvigioniamo e soddisfaciamo i nostri desideri e bisogni. Loro vivono delle nostre impronte e dei segni che lasciamo in giro come una serie di pollicini clonati che inseguono i pifferai digitali di Gafam.
Insomma, a me pare che in fondo e in superficie la scrittura sui social riunisca in sé varie motivazioni che sono comuni allo scrivere tout court: l’impulso di fermare il tempo e costringere il passato a non cacciarsi in un buco nero senza vie di uscita; l’esigenza di comunicare con se stessi e cercare chiarezza nei propri pensieri; il desiderio di scrivere a una moltitudine; la ricerca dell’intimità; la necessità di sentirsi esistenti e perfino vivi… E però, alla fine dei conti, quella che instauriamo qua dentro e qua sopra è tutta una comunicazione illusoria che crea dipendenza e può perfino allontanarci dalla realtà. Alla fine dei conti, quello che instauriamo qua sopra e qua dentro è solo un simulacro, ma un simulacro che è sempre meglio di un silenzio senza vie di uscita o soluzioni.
¿Ma poi, non è forse un simulacro anche la scrittura e perfino la parola; ogni singola parola che si sforza ogni momento, anche ora, di rappresentare la realtà che rappresenta?
Gli Atti degli Apostoli, la Legenda Aurea e la tradizione agiografica narrano che, pochi anni dopo la crocefissione, il diacono Stefano morì lapidato; il che fa di lui il primo martire della fede ammazzato dopo Gesù Cristo.
Il suo nome di ascendenza greca mi è molto familiare. Si chiamavano Stefano mio padre e il mio bisnonno materno, e hanno lo stesso nome anche mia figlia (al femminile, of course) ed il mio primo sobrino.
Faccio a loro e a tutti gli Stefani, le Stefanie, gli Steves, gli Estebanes e derivati i miei migliori auguri mettendo insieme quattro quadri del pittore manierista spagnolo Vicente Juan Masip (1507-1579), conosciuto anche come Joan de Joanes (come dire Giuanne ‘o figlio ‘e Giuanne, visto che suo padre era l’omonimo artista rinascimentale Juan Vicente Masip, il che crea non pochi problemi di attribuzione delle loro opere). In questi quattro dipinti, come in un fumetto – o, si parva licet componere magnis, come in una ViaCrucis – seguiamo gli ultimi momenti della vita di Stefano protomartire.
Nella prima immagine lo vediamo predicare in sinagoga. È il caso di chiarire qui che, oltre che protomartire, Santo Stefano è riconosciuto dalla religione come protodiacono, in quanto pare che fu il primo dei sette ministri della carità cui gli apostoli affidarono il compito di assistere gli indigenti, amministrando i beni comuni e annunciando la buona novella. In qualche modo, i cristiani dei primordi erano una specie di pericolosi protocomunisti abituati a mettere in comune tutti i propri beni, e Stefano era uno dei principali rappresentanti di questa setta eversiva che si andava diffondendo da Gerusalemme nel mondo allora accessibile per terra e per mare.
Durante una di queste predicazioni, Stefano fu catturato (e siamo alla seconda tavola) e condotto al martirio da uno stuolo di giudei raffiguranti nel quadro di Masip con ghigni truci e arcigni.
Nella terza tavola vediamo Stefano in ginocchio e i giudei pronti a lanciare le loro pietre, sempre con lo stesso sguardo torvo ed ostile. Lui ha gli occhi rivolti verso il cielo e pare che gli manchi solo la nuvoletta sulla testa con la scritta: “Signore, non imputare loro questo peccato”, riportata negli Atti degli Apostoli a imitazione delle ultime parole di Cristo in croce (At 7,60). Sullo sfondo, Saul, il futuro Paolo di Tarso, assiste inerme al martirio. Debbo, però, specificare che ho ribaltato orizzontalmente questa immagine affinché il corpo di Stefano si rivolgesse sempre verso il lato sinistro del riquadro e non si perdesse il ritmo fumettistico della narrazione. È come se vedessimo il dipinto allo specchio (a meno che non fosse ribaltata la foto che ho trovato io in internet).
Nella quarta e ultima rappresentazione, assistiamo alla deposizione del santo in una bara, prima della sepoltura. Questa volta, sullo sfondo, si distingue un uomo vestito in abiti rinascimentali, forse uno dei committenti che aveva ordinato il dipinto per una chiesa di Valencia (anche se, attualmente, credo che tutte e quattro le opere siano conservate al Prado).
In tutti i quadri, un’aureola cinge il capo del santo protomartire e protodiacono come una ghirlanda di luce, come una corona aurea. Non a caso, il nome Stefano deriva da Στέφανος (latinizzato in Stephanus) che, in greco antico, significa proprio “corona”, “ghirlanda”. Probabilmente è per questo che fu utilizzato nel protocristianesimo come un riferimento alla “corona santa del martirio” di questo primordiale imitatore di Cristo celebrato dalla chiesa cattolica il giorno dopo la nascita di Gesù scandita dal calendario gregoriano.
(da Aitan, Stefania e Rufino Tamayo che ha involontariamente prestato un suo dipinto a questa storia, mentre Amélia Muge, altrettanto involontariamente, ci ha messo il ritmo e la voce)
Aggiungo il mio augurio di una serena antivigilia, una buona vigilia e una feliz naVIDAd per tutti tutti (ma gli aggettivi si possono pure liberamente mischiare, assommare o moltiplicare).
A volte sono senza parole e comincio a sghignazzare come un bambino che ride senza ragione
A volte sono senza parole e comincio a ridere e a fare sberleffi come un bambino che vede gli adulti che ridono al suo ridere e continua a fare il pagliaccio senza sapere cosa ci sia da ridere se non ridere per sentir ridere il mondo
A volte sono senza parole e comincio a ridere e a fare sberleffi come un bambino che vede gli adulti che ridono al suo ridere e continua a sghignazzare perché è contento di verderli contenti
A volte sono senza parole e comincio a ridere per sentirvi contenti
Almeno loro penso
Almeno voi
Per lo spazio di un momento Almeno
Va be’...
Tanti auguri e tante belle cose per queste feste e per tutto l’anno che sta arrivando e tra un anno passerà.
Sei anni fa mi inventai una specie di “calendario dell’avvento controtempo” realizzato mettendo insieme, giorno per giorno, una trentina di rappresentazioni della Fuga in Egitto della sacra famiglia di profughi di Nazareth. Un calendario che si muove in direzione ostinata da Oriente a Occidente e arriva al giorno della nascita di Gesù, rappresentando una collezione di immagini della fuga della sacra famiglia dalla furia infanticida di Erode (a Cristo già nato, dunque).
Nella XVI puntata della serie c’erano cinque capolavori dei Tiepolo padre e figlio che ripropongo ora, qui, alla vostra attenzione. Sono due dipinti e un disegno di Giovanni Battista (1696–1770), il padre, e due acqueforti del figlio Giandomenico (1727–1804).
I due artisti veneti hanno dedicato molto ingegno (in tele, disegni e incisioni) al tema della fuga in Egitto. Spesso nelle loro rappresentazioni ricorre il barcone con tanto di asino a bordo ed angelo scafista (e volesse il cielo che fossero pervasi da tanta cura e da tanta protettiva bontà anche gli scafisti del XXI secolo che imperversano nell’Egeo e nel Mediterraneo); Giuseppe, dal canto suo, è sempre rappresentato come un vecchio dalla folta barba bianca (un alter ego dell’immagine archetipica di Dio e di Mosè che abbiamo assimilato da tanta iconografia artistica e cinematografica).
Tra quelle qui rappresentate (e tra tante altre che ho vagliato dei due Tiepolo), l’opera che preferisco è il disegno di papà Giovanni Battista (il secondo riquadro qui in alto), ma trovo che anche le opere del figlio – che spesso riproducevano con la tecnica dell’acquaforte opere e soggetti paterni – abbiano una loro dignità e forza.
È probabile che queste ultime due tavole, precedano di qualche anno le ventiquattro incisioni dell’album delle “idee Pittoriche sopra la fuga in Egitto di Gesù, Maria e Giuseppe…” che nel 1753 Giandomenico dedicò, a Würzburg (in Baviera), a Karl Philipp von Greiffenklau, principe vescovo del Sacro Romano Impero. Andatevi a cercare anche queste incisioni bavaresi: sono un’efficace illustrazione della fuga e la seguono passo passo come una “graphic novel” senza parole.
Poi, magari, attualizzate la visione con qualche foto delle famiglie di profughi e rifugiati in cerca di miglior vita nei nostri tempi. Il mondo ne è pieno. Ed anche la rete che ne rappresenta uno specchio, per quanto deformato.
[…] nessuno affida i propri bambini ad una barca / a meno che l’acqua non sia più sicura della terra. chi sceglierebbe di passare giorni / e notti nel ventre di un camion / a meno che il tragitto percorso / significhi più di un viaggio. nessuno sceglierebbe di strisciare sotto recinti / essere picchiata fin quando la tua ombra non ti abbandona, / violentata, annegata, costretta al fondo / della barca per il colore della pelle, esser venduta, / ridotta alla fame, venir sparata alla frontiera come un animale ferito, / essere compatita, perdere il proprio nome, perdere la propria famiglia, / chiamare casa un campo profughi per un anno, o due, o dieci, / spogliata e perquisita, in prigione ovunque / e se sopravvivi venire accolta dall’altra parte / con andatevene a casa neri, rifugiati / sporchi immigrati, richiedenti asilo / parassiti / scuri, con le mani pendule / odorano strano, di selvaggio – / guarda cosa hanno fatto dei loro Paesi, / cosa faranno al nostro? il disprezzo negli sguardi per strada / più lieve rispetto ad un arto strappato, / l’umiliazione quotidiana / più dolce di quattordici uomini che / assomigliano a tuo padre, tra / le tue gambe, gli insulti più facili da inghiottire / che le macerie, che il corpo del tuo bambino / a pezzi – per ora, dimentica l’orgoglio / sopravvivere è più importante. voglio andare a casa, ma casa è la bocca di uno squalo / casa è una canna di pistola / e nessuno lascerebbe casa / a meno che non sia la casa a cacciarti a riva / a meno che la casa stessa ti dica / di lasciare dietro di te ciò che non puoi, / anche fosse umano. nessuno lascia casa finché casa / non diventa una voce angosciosa all’orecchio che dice / parti, scappa da me adesso, non so cosa / sono diventata.
Questo è il brano finale della poesia di Warsan Shire intitolata “Home”, nella traduzione che Tina Magazzini e Giovanni Gugg hanno fatto per WOTS Magazine qualche anno fa. Warsan Shire è una poetessa somala nata in Kenya nel 1988 ed emigrata a Londra quando aveva solo un anno. Nel 2016, la cantante Beyoncé ha utilizzato alcune sue poesie nel film che accompagnava il concept album “Lemonade“, un’opera multimediale che si prefiggeva l’obiettivo di smuovere nelle donne afroamericane un sentimento di consapevolezza e auto-coscienza. E così siamo partiti da Tiepolo e siamo approdati a Beyoncé passando per Erode, Vittore Carpaccio e Jean-François Millet.