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Un nome di famiglia
Gli Atti degli Apostoli, la Legenda Aurea e la tradizione agiografica narrano che, pochi anni dopo la crocefissione, il diacono Stefano morì lapidato; il che fa di lui il primo martire della fede ammazzato dopo Gesù Cristo.
Il suo nome di ascendenza greca mi è molto familiare.
Si chiamavano Stefano mio padre e il mio bisnonno materno, e hanno lo stesso nome anche mia figlia (al femminile, of course) ed il mio primo sobrino.
Faccio a loro e a tutti gli Stefani, le Stefanie, gli Steves, gli Estebanes e derivati i miei migliori auguri mettendo insieme quattro quadri del pittore manierista spagnolo Vicente Juan Masip (1507-1579), conosciuto anche come Joan de Joanes (come dire Giuanne ‘o figlio ‘e Giuanne, visto che suo padre era l’omonimo artista rinascimentale Juan Vicente Masip, il che crea non pochi problemi di attribuzione delle loro opere).
In questi quattro dipinti, come in un fumetto – o, si parva licet componere magnis, come in una Via Crucis – seguiamo gli ultimi momenti della vita di Stefano protomartire.

Nella prima immagine lo vediamo predicare in sinagoga.
È il caso di chiarire qui che, oltre che protomartire, Santo Stefano è riconosciuto dalla religione come protodiacono, in quanto pare che fu il primo dei sette ministri della carità cui gli apostoli affidarono il compito di assistere gli indigenti, amministrando i beni comuni e annunciando la buona novella. In qualche modo, i cristiani dei primordi erano una specie di pericolosi protocomunisti abituati a mettere in comune tutti i propri beni, e Stefano era uno dei principali rappresentanti di questa setta eversiva che si andava diffondendo da Gerusalemme nel mondo allora accessibile per terra e per mare.
Durante una di queste predicazioni, Stefano fu catturato (e siamo alla seconda tavola) e condotto al martirio da uno stuolo di giudei raffiguranti nel quadro di Masip con ghigni truci e arcigni.
Nella terza tavola vediamo Stefano in ginocchio e i giudei pronti a lanciare le loro pietre, sempre con lo stesso sguardo torvo ed ostile. Lui ha gli occhi rivolti verso il cielo e pare che gli manchi solo la nuvoletta sulla testa con la scritta: “Signore, non imputare loro questo peccato”, riportata negli Atti degli Apostoli a imitazione delle ultime parole di Cristo in croce (At 7,60). Sullo sfondo, Saul, il futuro Paolo di Tarso, assiste inerme al martirio.
Debbo, però, specificare che ho ribaltato orizzontalmente questa immagine affinché il corpo di Stefano si rivolgesse sempre verso il lato sinistro del riquadro e non si perdesse il ritmo fumettistico della narrazione. È come se vedessimo il dipinto allo specchio (a meno che non fosse ribaltata la foto che ho trovato io in internet).
Nella quarta e ultima rappresentazione, assistiamo alla deposizione del santo in una bara, prima della sepoltura. Questa volta, sullo sfondo, si distingue un uomo vestito in abiti rinascimentali, forse uno dei committenti che aveva ordinato il dipinto per una chiesa di Valencia (anche se, attualmente, credo che tutte e quattro le opere siano conservate al Prado).
In tutti i quadri, un’aureola cinge il capo del santo protomartire e protodiacono come una ghirlanda di luce, come una corona aurea.
Non a caso, il nome Stefano deriva da Στέφανος (latinizzato in Stephanus) che, in greco antico, significa proprio “corona”, “ghirlanda”.
Probabilmente è per questo che fu utilizzato nel protocristianesimo come un riferimento alla “corona santa del martirio” di questo primordiale imitatore di Cristo celebrato dalla chiesa cattolica il giorno dopo la nascita di Gesù scandita dal calendario gregoriano.