In un paesino della sterminata provincia di Caserta, un donna raggiunge la siepe al centro della piazza e, a voce sostenuta, ripete:
Din Don Dan. Din Don Dan. Din Don Dan. Din Don Dan. Din Don Dan.
Vecchi e giovani, che se ne stavano tutti intenti a far niente fuori i bar o sui gradini della chiesa, le si avvicinano incuriositi. Si blocca il traffico. Qualcuno urla di smetterla, qualcun altro ride. I clacson suonano nervosi. Ma lei continua imperterrita.
Din Don Dan. Din Don Dan. Din Don Dan. Din Don Dan.
Un gruppo di impiegati comunali fa ipotesi sul senso della messinscena. Qualcuno dice che la donna è impazzita. Qualcun altro sospetta che sia un flash mob e volge lo sguardo verso i balconi in cerca di telecamere. Una vecchia urla che non si tratta affatto di una messinscena. Dei ragazzini le ballano intorno e fanno un girotondo.
Din Don Dan. Din Don Dan. Din Don Dan.
In tanti sollevano i telefonini al di sopra delle loro teste e si mettono a fare foto e video tra la folla. Qualcuno allunga il braccio da dietro le spalle della donna e si fa dei selfie. Un ragazzino con un cappellino alla moda mima con la bocca la cantilena e registra un TikTok. Ma la donna continua con lo sguardo fisso nel vuoto, senza preoccuparsi della calca e del traffico di auto. Come se ci fosse solo lei al centro della piazza.
Din Don Dan. Din Don Dan.
Continua, continua imperterrita, la donna del din don dan e mantiene sempre lo stesso volume di voce; finché un bambino di cinque o sei anni si fa spazio tra la folla, si mette di fronte a lei e le tira la gonna per richiamare attenzione. La donna, per un attimo, abbassa lo sguardo verso di lui, e il bambino, tomo tomo, le chiede:
– Signora, ma perché ripeti sempre din don dan din don dan?
La donna, dopo una pausa che fa cessare ogni rumore intorno a lei, interrompe la sua tiritera e risponde:
– Perché sono campana.
Lungo silenzio, risate e applausi.
…
“…And therefore never send to know for whom the bell tolls. It tolls for thee.” (John Donne)
“Quanno si ‘ncudine statte, quanno si martiello vatte e, quanno si campana…, sona sona ndin ndonndan. E po’, nun pensa’ pe’ chi sona ‘a campana; ‘a campana sona pe’ te: ndan ndan ndan.” (Assemblaggio di proverbi apocrifi napoletani)
Presentazione del libro “I racconti di Partenope” e del mio soffritto scostumato.
Oggi pomeriggio si è tenuta la presentazione del libro di ricette e narrazioni “I racconti di Partenope“. Un libro collettivo che raccoglie i contributi di 50 eterogenei autori (me included) sotto la curatela di Donatella Schisa. Molto bella la Sala del Capitolo del complesso monumentale di San Domenico Maggiore in cui si è svolta la presentazione.
Oltre a Donatella, hanno presentato il libro l’ex assessore alla cultura Nino Daniele e il prof. Stefano Causa, docente di Storia dell’arte contemporanea al Suor Orsola Benincasa. Durante l’incontro, a titolo esemplificativo, sono stati letti tre dei 50 racconti, senza, però, il condimento delle ricette che li accompagnano: – Una gustosa apologia della cipolla di MassimoMaraviglia, ricca di riferimenti colti, scientifici e popolari (anche se io ho sentito la mancanza dell’Oda a la Cebolla di Neruda). – Una drammatica rievocazione dei disastri e dei disagi provocati dalla seconda guerra, blanditi da un polpo alla luciana (letto, per l’occasione, dal giornalista Luciano Scateni che è anche l’autore di questo drammatico racconto a sfondo autobiografico). – Una serratissima narrazione di ArturoMaremonti, suggellata da un finale a pasta e patate con la provola che fa dimenticare un morto che si chiama Pier Paolo e che viene trovato con il corpo schiacciato dalle ruote di un’auto (come Pasolini; ma non è Pasolini, anche se ricorda maledettamente Pasolini).
Tra una lettura e l’altra Nino Daniele ha sottolineato come un libro del genere funzioni anche come documento storico individuale e collettivo di una comunità che rischia di perdere le sue ricette e la sua memoria; mentre il prof. Causa, dopo aver illustrato lo stupendo affresco di Ragolia che era alle sue spalle, ha mosso qualche critica alla foto scelta come copertina del libro.
Non brutta né bella in verità, ma piuttosto banale anche per i miei personalissimi gusti. Più adatta a un tradizionale libro di cucina che a un libro che vuole essere di narrative e ricette. Insomma, credo che il prof abbia avuto le sue ragioni a sostenere che ci sarebbe stata meglio una natura morta, un bodegón, magari uno di quelli che affastellano saporiti piatti come nella pagina del Pentamerone di Basile che ha opportunamente citato. Quella del trattato settimo che racconta di come Cienzo, costretto alla fuga da Napoli per aver preso a sassate il figlio del re, vede il panorama della città da lontano come un insieme di gustosi piatti, una natura morta, appunto, e dà l’addio a “pastinache e foglie molli; zéppole e migliacci; cavoli e tarantello; caionze e centofigliuole; piccatigli e ingrantinati.” La classica pantagruelica figura retorica dell’enumeratio, che funziona sempre quando si parla di cose di cucina, soprattutto se condite dalla fame.
Ora ho tra le mani il libro, con i suoi racconti di pizze e casatielli, primi piatti, secondi, contorno, dolci, limoncello e caffè. Questi ultimi offerti da Monna Pina Vergara e Gianni Solla. Dopo ogni narrazione, c’è la relativa ricetta raccontata dallo stesso autore del racconto che la precede. In questo modo, come ha sottolineato Donatella, il libro si può usare come vademecum in cucina e gustare a letto come intrattenimento letterario.
Aggiungo, per i miei amici e conoscenti, che a me è toccata la ricetta del soffritto napoletano, che ho accompagnato con una narrazione in versi (l’unica della raccolta, credo). Versi scostumati che sono una rielaborazione di una mia vecchia poesiaccia che potete leggere qui e che pure si basa sulla figura dell’enumeratio, l’elenco famelico e bulimico di piatti e pietanze.
Vedo orde crescenti di adolescenti e preadolescenti indossare magliette, felpe e cappellini con scritte inquietanti che ammiccano alla criminalità e al traffico di stupefacenti, tipo: Narcos, Pablo Escobar, Cartel de Medellín, Cocaine, Pusher, Plata o Plomo, che letteralmente significa Argento o Piombo, ma, nei fatti, corrisponde a una più violenta e assonante versione del nostrano “O la borsa o la vita”. Tipo: mi dai i tuoi soldi o preferisci prenderti il piombo delle mie pallottole?
Le vedo, le vedo crescere queste orde di sponsor inconsapevoli dei narcotrafficanti e della mala vida; le vedo crescere a fiotti, a mucchi e a ondate, e mi chiedo se i loro genitori si rendano conto di cosa ci sia stampato in petto (o sulla schiena e sulla fronte) degli abiti con cui i loro figli vanno in giro orgogliosi. Non escludo neanche la possibilità che in qualche caso siano le loro stesse madri (o i papà, o i nonni e gli zii) a comprare quegli attraenti indumenti (quasi sempre tinti di nero; che affina, è elegante e va bene su tutto, come il ketchup, il Movimento Cinque Stelle, le mascherine e la maionese). Immagino che comprino le loro oscure magliette in qualche centro commerciale o su una traballante bancarella del mercato affollata di gente in cerca di affari e di pezzi unici; pezzi unici che – sia chiaro – sono unici come quelli di tutti gli altri. E mentre vedo, intravedo e immagino, me li prefiguro tutti in fila che avanzano come zombie nerovestiti in cerca di una dose. Tutti con un coltello in tasca pronto per l’uso. Ché in questa giungla devi imparare a difenderti da solo e da solo devi saperti prendere quello che è tuo e quello che vuoi tuo perché sì. THE WORLD IS YOURS! Argento o piombo. Tutti strafatti di cocaine made in Medellín. Per stare sempre de puta madre e sentirsi forti e potenti come Pablo Escobar.
(A volte chiedo espressamente ai ragazzi così abbigliati se sappiano che realtà rappresentino quelle scritte che imperversano sulle loro maglie; ma ricevo quasi sempre silenzi o risposte evasive. I pochi che farfugliano qualcosa, fanno riferimento a serie televisive alla moda e sostengono, col cuore gonfio di orgoglio, che si tratta di storie mozzafiato, con gente gasata e fica e ambientazioni più avvincenti e coinvolgenti dei quartieri squallidi e ordinari di Gomorra o di Suburra. Tutta roba che gira su Netflix, su Prime, su SkyTV.)
Cerco di farmene una ragione. Mi dico che è solo una moda. Un trend per vendere a caro prezzo magliette di scarsa qualità. Mi dico che, in fondo, anche ai miei tempi c’era chi portava t-shirt con su scritto The Godfather o Il Padrino… O Al Pacino Scarface, un prototipo sempre alla moda.
In fondo, a 15 o 16 anni è normale avere voglia di trasgredire e uscire dagli schemi, mi dico. A 15 o 16 anni (o giù di lì) chiunque, di qualunque generazione, rischia di cadere nella trappola di chi omologa la sua voglia di trasgressione, fa mercato della sua vita e lo fa abboccare come un pesce al suo amo. Dopo, con l’avanzare dell’età, …sarà lo stesso. O pure peggio. Mi dico. E vado a cercarmi la mia XL su Amazon. ¿Plata o plomo?
Oggi, 17 maggio, la chiesa, la tradizione e il culto cattolico celebrano San Pasquale Baylon, il frate francescano nato e morto in Spagna nel giorno della Pentecoste (1540-1592). Era di origini umilissime, Pascual Baylón Yubero; un piccolo pastore di pecore, diventato, in piena controriforma, pastore di anime e strenuo difensore del principio della presenza reale del Cristo nel sacramento eucaristico, che si voleva incarnato in ogni consacrazione attraverso le parole pronunciate dal sacerdote durante la messa. La fede incrollabile nella parola (“in principio era il verbo”) che Pascual aveva il bel coraggio di andare a sostenere fin dentro le case dei calvinisti francesi.
Oggi, però, San Pasquale, più che come patrono dei pastori e difensore dell’eucarestia, viene ricordato come protettore delle donne in attesa di un figlio o di un marito che non arriva. Ma da dove viene questa novella specializzazione verso il mondo femminile? È possibile che questo ruolo di santo sostenitore di donne insoddisfatte si sia sedimentato nella prima metà del ‘700, circa cento anni dopo la sua canonizzazione, proprio qui a Napoli e dintorni; da dove io scrivo ora. Pare che Don Carlo III di Borbone e sua moglie Doña Maria Amalia di Sassonia, visto che non riuscivano a dare un erede al Regno delle Due Sicilie, si rivolsero a un tale frate Serafín de la Concepción, e pare che questi consegnò ai monarchi una reliquia del santo spagnolo-aragonese. Passarono solo cinque giorni e già la regina sentì tre piccoli colpi nel ventre: poco meno di nove mesi dopo sarebbe nato il sospirato erede, il primo di 13 borboncini. Tuttavia, come osserva il mio amico Pasquale Vergara, è molto più probabile che questo Pasquale Bailonne protettore delle donne sia scaturito dalla facilità della rima in –onne, più che dai problemi di proliferazione dei re Borboni.
Infatti, nel sud Italia c’è tutto un affastellarsi di invocazioni e formulette magico-miracolistiche al santo in cui risuonano rime di questo tono e suono:
San Pasquale Bailonne, protettore delle donne, trovatemi un marito bianco, rosso e colorito. Come voi, tale e quale, o glorioso San Pasquale.
Non so quanti di voi ricordano che nel 1976 Luigi Filippo D’Amico diresse una commedia all’italiana intitolata: “San Pasquale Baylonne protettore delle donne”. Il film raccontava le peripezie di un tale Giuseppe Cicerchia, interpretato da Lando Buzzanca, che si proponeva come intermediario boccaccesco tra le donne e il santo. Ebbene, in una scene della commedia una processione di donne canta proprio una di queste celebri invocazioni (opportunamente reinventata):
San Pasquale Baylonne, protettore delle donne sei il più bello de li santi, ogni femmina accontenti.
San Pasquale Baylonne, protettore delle donne esaudisci le tante preghiere di chi figli ancora non può avere.
San Pasquale Baylonne, protettore delle donne, facce diventà più belle alle povere zitelle.
In America Latina, invece, la figura di San Pascual Baylón è associata soprattutto all’arte culinaria. Fin dai tempi delle prime colonizzazioni pare che le cuoche latinoamericane si rivolgessero a lui come “santo protector de los fogones y de los accidentes en las cocinas” (santo protettore dei fornelli e degli incidenti in cucina) e lo invocassero in formule di questo tipo:
San Pascual Baylón, báilame en este fogón. Tú me das la sazón, y yo te dedicó un danzón.
che traduco piuttosto liberamente:
San Pasquale Baylón, volteggiami tra i fornelli. Tu ci metti i mattarelli e io ti dedico un danzón.
(Nell’originale sazón sta per condimento; mentre il danzón è un ballo di origine cubana. In ogni modo, anche qua è probabile che tante invocazioni siano scaturite da questioni di rima; come ho detto anche prima.)
Per estensione, in molti Paesi di lingua spagnola, ogni volta che si desidera qualcosa ci si può rivolgere al buon Pasquale in questi termini:
San Pascual Bailón, San Pascual Bailón, … [Qui si dice quello che si desidera dal santo tipo: acaba con esa destrucción ovvero: falla finita con questa distruzione]. Si me lo concedes, te bailo un danzón o te canto una canción”.
Naturalmente, se il desiderio si compie, è d’uopo danzare e cantare così come promesso nell’invocazione. (Io direi di provarci.)
In Messico c’è chi assicura che rivolgendosi al nostro santo mentre si cucina (“San Pascual Bailón, ilumina mi sazón”), il piatto comincia ad assumere un aspetto appetitoso e arriva a piena cottura in tempi miracolosamente brevi. Similmente, in Colombia, si celebra una festa danzante in suo onore nella cittadina di Monguí caratterizzata dalla formula rituale:
San Pascualito, San Pascualito, tú pones tu granito y yo pongo otro tantito.
D’altra parte, anche in Italia, molti ricordano San Pasquale come il protettore dei cuochi e dei pasticceri e perfino c’è chi lo considera l’inventore dello zabaione. Una tradizione piemontese vuole che Pascual inventò questo dolce nella chiesa di San Tommaso a Torino, e, proprio per questo, i torinesi avrebbero denominato questa santa crema prima San Baylon e poi Sanbajon, fino ad arrivare all’odierno zabaione. Un’altra versione racconta che il Nostro portò la ricetta dell’uovo sbattuto con zucchero e vino passito dalla Spagna a Napoli e consigliò alle donne di prepararla per i loro mariti al fine di rinvigorirli e predisporli alle gioie dell’amore (soprattutto quando li trovavano un po’ pigri e inappetenti).
Sia come sia, pastore, predicatore, protettore delle donne, inventore dello zabaione, cuoco e pasticciere, a me piace ricordare di San Pasquale soprattutto questa frase tramandata di monastero in monastero e arrivata a me attraverso le maglie inesauribili della rete Internet:
“Nunca hay que negar el pan a nadie. Cuando hay generosidad y ganas de compartir, siempre se produce el milagro.”
“Non bisogna mai negare il pane a nessuno. Quando c’è generosità e voglia di condividere, sempre si ravviva il miracolo.”
E chesto e’. Con tanti auguri ai Pasquali, alle Pasqualine e pure a quelli che si fanno chiamare Paco o Paquito non sapendo che in Spagna questo è un diminutivo di Francisco, di cui ho già detto altrove e non mi voglio dilungare (si fa per dire).
Dove provo a illustrare cosa diamine sia mai l’esperpento con l’aiuto di Francis B. e di Francisco G.
#arte #goya #bacon #valle-inclán #francisbacon
Specchi che deformano la realtà per renderci più chiari e comprensibili i brividi che ci percorrono la schiena e le emozioni che ci salgono mute alla bocca come bava di lumaca. Urla che sussurrano nuove chiavi di lettura e l’evenienza di altri mondi dentro e fuori di noi. Deformazioni che rendono intellegibili le assurdità delle nostre esistenze ed il degrado in cui intrecciano i loro logori fili. Riflessi di una irrealtà possibile.
Esperpento.
“Gli eroi classici riflessi negli specchi concavi danno l’esperpento. Il senso tragico della vita spagnola può darsi solo con un’estetica sistematicamente deformata. […] La Spagna è una deformazione grottesca della civiltà europea. […] Le immagini più belle in uno specchio concavo sono assurde. […] Deformiamo l’espressione nello stesso specchio che ci deforma le facce e tutta la vita miserabile della Spagna.” Per ridirlo con le parole del moribondo Max Estrella nella XII scena di “Luces de Bohemia” (1920).
“Los héroes clásicos reflejados en los espejos cóncavos dan el Esperpento. El sentido trágico de la vida española sólo puede darse con una estética sistemáticamente deformada. […] España es una deformación grotesca de la civilización europea. […] Las imágenes más bellas en un espejo cóncavo son absurdas. […] Deformemos la expresión en el mismo espejo que nos deforma las caras y toda la vida miserable de España.” (Ramón del Valle-Inclán, l’autore)
tu non puoi sapere quanto ho sofferto per scavarmi dentro un verso che mi portasse fuori dalla disperazione nell’arco lungo e irto della sua costruzione
e a volte dura una notte che più di una vita dura anche una parola sola che cerca spazio tra una parola e una parola
Ma poi ci sono quelli che non ne vogliono e quelli che non ne possono mangiare
Al Nord e al Sud del mondo madri disperate perché i figli non mangiano si struggono simmetricamente
simmetricamente si struggono e non mangiano
Comunque ovunque et iniquamente
A chistu munno chi ha avuto tanto e chi nun tene niente A chistu munno tene troppo pane chi nun tene ‘e diente A chistu munno sta senza pane e chine ‘e pene troppa gente
E je parle parle ma nun dico niente.
In sottofondo, banale come il pane appena sfornato e sempre buono da mangiare, Erik Satie Gymnopédien.1.