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Il suicidio dell’umanità e l’indifferenza del pianeta Terra


The planet is fine.
The people are fucked.”
(George Carlin)


Agli sgoccioli dello scorso millennio, lo scienziato olandese Paul Crutzen – premio Nobel per la chimica per i suoi studi sulla formazione e sulla decomposizione dell’ozono – popolarizza il termine antropocene per riferirsi all’epoca geologica in cui viviamo; un’epoca di merda caratterizzata dal forte impatto umano sull’ambiente terrestre con tutto il suo carico di concentrazioni di materiali inquinanti rilasciato nell’atmosfera.
Da allora si diffonde sempre più un’idea (di per sé già vecchia di decenni, in verità) secondo la quale l’uomo dell’antropocene starebbe mettendo in pericolo la sopravvivenza del pianeta.
Io non sono d’accordo. Trovo che questa visione sia viziata dall’arroganza e dall’antropocentrismo.
A mio parere l’uomo dell’antropocene non sta mettendo a repentaglio la vita della terra; l’uomo dell’antropocene sta mettendo a repentaglio la sua propria vita sulla terra, che, al momento, è l’unico pianeta in cui è assicurata la sopravvivenza umana, per la presenza di acqua, aria buona ed altri elementi vitali che non so dire e che non so.
La terra, la natura, madre e matrigna, è più forte dell’uomo. Le nostre modifiche la scalfiscono, ma non riusciranno a distruggerla; piuttosto rischiano di distruggere noi.


In sottofondo al videoclip, un frammento del poema sinfonico di Musorgskij “Una notte sul Monte Calvo” (1867).

L’uomo costruisce città di cemento e asfalto, ma resta sempre una fenditura da cui viene fuori un filo d’erba. L’uomo cambia gli argini dei fiumi, disbosca pianure e montagne, cementifica il territorio, satura l’aria di gas inquinanti; ma questo implica solo una modifica dell’ecosistema, non la sua cancellazione.
Intanto, episodicamente, i fiumi straripano, i mari sono in tempesta, i vulcani eruttano, le terre tremano e dai ghiacciai vengono giù valanghe che sembrano grattacieli sprofondati su se stessi. Eppure non è detto che dietro ognuna di queste calamità ci sia sempre lo zampino dell’uomo; il che non vuol dire nemmeno che non ci sia mai.
È chiaro che se continuiamo a togliere alberi dalle città, dai boschi e dalle foreste, avremo più inondazioni, più valanghe, più calore e meno ossigeno. Come è chiaro che se prosciughiamo i fiumi, soffriremo la siccità, e se continueremo a inquinare l’aria e i mari, renderemo invivibili (per l’uomo) dei territori via via sempre più ampli.

Epperò non dobbiamo sopravvalutarci.
Le catastrofi naturali possono essere dipendenti o indipendenti dalle nostre azioni, ma la forza della natura sta là, a ricordarci che il pianeta pulsa, vive e si trasforma anche indipendentemente dalla storia, dalla vita e dall’esistenza stessa dell’animale uomo (un’esistenza che, sub specie aeternitatis, non è altro che una piccola parentesi millenaria nella storia tendente a infinito della vita dell’universo e del pianeta).

Svegliamoci! Il sole non gira intorno alla Terra e la Terra non gira su se stessa per fare da giostra ai nostri piedi.

Con questo non voglio certo negare che l’azione dell’uomo stia provocando anche un pericoloso innalzamento delle temperature su scala mondiale. Ma pericoloso per chi?
La natura si adatta al cambiamento. Il Mediterraneo si tropicalizza. Ai poli gli iceberg si sciolgono e vengono giù come neve al sole. La flora e la fauna si trasformano….
Si trasformano. Non muoiono. Quella che è a rischio non è la loro sopravvivenza. Quella che è a rischio è la sopravvivenza della vita umana così come la conosciamo in un ambiente mutato dalla millenaria azione dell’uomo, che, in fondo, può essere considerata come null’altro che una calamità che si affianca all’azione inesorabile e indifferente della natura, con i suoi terremoti, i suoi uragani e i suoi tsunami.

Anche i castori costruiscono dighe.
Anche le api fanno gli alveari.
Ma solo noi uomini continuiamo incessantemente a consumare risorse come se fossero inesauribili, come se non ci fosse un domani (pur essendo dotati di una coscienza che probabilmente non hanno né le api e i castori né il mare in tempesta né il cielo tuonante né la terra in movimento); solo noi continuiamo a inquinare lo spazio in cui viviamo, come se poi potessimo trasferire la nostra vita e la nostra contaminazione altrove, verso una nuova frontiera da colonizzare e sottomettere. Continuiamo a crederci i padroni di un mondo creato apposta per noi da un dio fatto a nostra immagine e somiglianza. Continuiamo a pensare che non siamo parte della Natura, ma suoi padroni; come se non fossimo noi ad appartenere alla terra, ma la terra ad appartenere a noi.

Forse quando ci renderemo conto che stiamo andando verso un suicidio di massa sarà troppo tardi per la nostra specie; ma la terra continuerà a sopravvivere e, lentamente, verrà cancellata ogni traccia dell’uomo dal pianeta. Le nostre impronte, i nostri segni e i nostri graffi saranno erosi dall’azione inesorabile del tempo.
A quel punto, sarà finita anche l’era dell’antropocene, ma non resterà più nessun uomo per dare un nome nuovo all’epoca successiva.

Se ancora non siete stanchi e volete farvi quattro amare risate sull’estinzione dell’uomo dalla faccia della terra, vi consiglio la visione di questo monologo del comico americano George Carlin (1937-2008), il quale diceva, una quindicina di anni fa, molte delle cose che ho provato a dirvi io in queste mie riflessioni. Ma Carlin le diceva con maggiore verve ed esibendo una esorbitante capacità di coinvolgimento che io non ho nemmeno di striscio.

Al margine voglio specificare che (contrariamente a quella che sembra la posizione ideologica di George Carlin) io sto dalla parte degli attivisti che chiedono all’uomo un comportamento responsabile e cosciente del peso della propria impronta ecologica sul territorio in cui vivono.
Quella che non mi va giù è la narrazione pseudo-ecologista secondo cui questo comportamento sarebbe orientato a salvare il pianeta.
Lo ribadisco e concludo, io penso che se dobbiamo avere un comportamento responsabile non è per salvare la Terra, ma per salvarci noi il culo e assicurare continuità alla specie umana. D’altronde, se pure continuassimo ad avere un comportamento irresponsabile e tendenzialmente suicida, non credo che potrebbe scomparire la terra dalla faccia dell’universo. Al limite saremo noi umani e qualche altra specie a scomparire. Come fu per i dinosauri, gli pterosauri e i mammut e come è stato per i rinoceronti bianchi, le tigri del Caspio e i cervi giganti.

Per dirla di nuovo con le parole di George Carlin: “Il pianeta sta bene. Siamo noi che siamo fottuti“.

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