La mia unica consolazione è ricordare Mi disse E ricordarti Ma non so più come sia potuto succedere non averti più
Rivedo una sala buia e un film bellissimo inondato di luce e di mare
Davanti allo schermo solo due persone L’altra eri tu
Ora sta calando la notte e non ci cerchiamo più in mezzo al traffico Le mani tra le cosce La pioggia che batte sui finestrini e i tergicristalli che ci separano dal mondo
Io ti ascolto come ti ho sempre ascoltato
Ricordo che pensammo di cercare un posto appartato
Ma prima ti riempio di perle la bocca
Poi vedo altro Scene di noi tra gli altri e fuori dal mondo
Ma non so più come sia potuto accadere
Una magra consolazione per lo scricchiolio delle ossa e la la fiacchezza dei muscoli
In napoletano l’Estate si chiama ‘a Staggione. Perché l’estate è la stagione per eccellenza. Alla luce del suo sole, l’autunno, l’inverno e la primavera scompaiono. E insieme a loro tra qualche giorno scompaio anch’io. In attesa del prossimo sole.
La voce della traccia audio è di Nelson. Il frammento è il classico dei Righeira che ci ricorda da 37 anni che L’estate sta finendo. I disegni sono dello stesso periodo del brano (prima metà degli anni ’80) e, come il brano stesso, sono stati revisionati nel nuovo millennio.
Corsi, ricorsi, caddi e mi rialzai pronto a cadere un’altra volta e a sbucciarmi le ginocchia già sbucciate. Convinto che la prossima volta sarei caduto meglio e sarei inciampato in una pietra migliore.
L’uomo è unico animale che inciampa due volte nella stessa pietra, convinto che la prossima volta andrà meglio o che questa volta si trova davanti a una pietra migliore.
L’uomo è l’unico animale che quando scompare il sole è convinto che questa volta è più pronto ed attrezzato per affrontare il prossimo inferno con tutte quelle strade lastricate di buone intenzioni e pietre su cui inciampare e cadere sulle ginocchia già sbucciate.
Corsi. Corsi e ricorsi. E continuo a correre ancora. Ma ormai sono quasi senza fiato.
Un’altra figura riemersa dallo scorso millennio e moltiplicata nell’era del digitale spinto
È passato troppo tempo per sapere chi fosse Marl e da dove provenisse. Forse questo apparente nome e cognome rievocano una città della Renania e una della Baviera. Forse quel Karl è un richiamo a Marx che vuole conferire al disegno un tono brechtiano. Magari Marl è solo un diminutivo di Marlene messo lì per riportarci alla Dietrich che attraversò quasi tutto il secolo scorso come una diva mezza europea e mezza americana. Probabilmente –staledt sta per starlet e marl per marna (una roccia argillosa e fragile usata nelle miscele cementizie).*
Non so.
E della gemella sappiamo ancora meno. Salvo che in queste immagini appare più casta e meno diva, ma non per questo meno divina di sua sorella la gemella.
* In inglese la marna (che è anche il nome di un fiume francese; lo aggiungo per i risolutori di parole crociate) si dice proprio marl.
Ho appena letto “Madre di parole”, raccolta di poesie di Lina Sanniti pubblicata nel 2017. Queste le mie impressioni a caldo.
Il libro si compone di tre sezioni che, nel loro insieme, costituiscono una sorta di autobiografia poetica dell’autrice (o almeno di quello che l’autrice voleva dirci del lacerto di mondo che gravitava dentro e fuori di lei in quegli anni).
La prima sezione, quella che sento più affine al mio gusto e alla mia sensibilità di lettore, si intitola “Gli spazi vuoti” e volge lo sguardo verso l’esterno, dalla famiglia (il padre, soprattutto) all’ambiente circostante, con tutta la sua violenza e desolazione delle “case impopolari” (sic!) dell’infanzia dell’autrice (“perché a noi famiglie numerose / spettava il premio della casa”). Fuori dalla palazzine, il quartiere è affollato di ragazzi frettolosi che “si credono leoni” e “azzannano il tempo / come un osso fresco di cerbiatta” (da “I ragazzi di qui”, dove qui è proprio dove vivo anch’io; ma potrebbe anche essere altrove, temo).
Le strade hanno passi di sangue impronte cieche, pesanti, silenziose. Corpi di donne che grondano colpe ignare di un destino che cuce le bocche, spezza le reni, sconquassa i cuori. S’insinua sotto pelle una scheggia di dolore che il tempo non dissolve, non risolve. (da “Passi di donne”)
Il dolore sembra essere lenito solo dai ricordi intimi e familiari di un mondo perduto (il padre, la casa della nonna, le ragazze semplici, il mare e i giardini segreti di Napoli).
Nell’alveare delle nostre nuove case mi mancava più di tutto lo sgabello della nonna sul quale sapevo saltare e cantare felice. (da “Case impopolari”)
Niente potevi se non fingere di raccogliere grappoli di stelle e incoronarmi regina del nulla. (da “Mio padre”)
Più avanti lo sguardo torna ad accarezzare il padre in una malinconica poesia che lo segue nei primi giorni della pensione, quelli in cui non ti riesci ancora ad abituare alla vita che cambia.
ricordi appena che il tuo lavoro è bello e andato impacchettato in una ammiccante pergamena che ti ringrazia e ti congeda (Da “Dopolavoro”)
Ma anche nel pieno della desolazione non bisogna rinunciare alla scelta di un intellettualismo etico volto alla persecuzione del bene, costi quel che costi:
A noi che del bene abbiamo solo la parvenza e asciutti nelle spalle srotoliamo maldicenza servirebbe appena un frullo di memoria per capire che c’è più morte nella vita ancora prima di morire (“Il bene”)
La seconda parte si intitola “Parentesi affettive” ed è quello che dichiara: una descrizione di una vita affettiva fatta di assenze, parentesi, inciampi e ultime scene descritte con un sofferto distacco che a volte rasenta il cinismo (ma si tratta di un cinismo dolente che oserei definire “autodifensivo”).
La tua assenza mi ha lasciato senza fiato senza un alito di vita eppure… io respiro! (Da “La tua assenza”)
Non pensare di accendere il tuo fuoco con la polvere sputata dalla mia bocca esangue proprio come terra di nessuno, di nessuno. (Da “Terra di nessuno”)
La terza ed ultima parte, intitolata come l’intera silloge “Madre di parole”, è quella dello sguardo rivolto verso se stessa, anche in quanto autrice di poesia e (forse anche per questo) contiene i versi più curati da un punto di vista formale.
La prima poesia di questa sezione comincia con quattro versi che suonano come la prima strofa di un sonetto:
All’ombra del cuscino senza pace mi svesto di sottana e di piacere. Le braccia sono rami all’infinito [e] le gambe piantan[o] rovi o forse ulivi. (Da “All’ombra del cuscino”; le parentesi quadre sono mie e mi sono servite per mettere in evidenza la metrica endecasillabica della quartina.)
In questa sezione ho apprezzato anche due poesie di tono allegorico (“Primavera” e “Andirivieni”) e l’intensificazione dell’uso di allitterazioni e rime. Esemplari, da questo punto di vista, le poesie intitolate “Illesa” e “Sensi” e la stessa “Madre di parole” che si conclude con questi due distici in rima baciata:
[…] nell’aria svolazza la rima impertinente riprendo a memoria il racconto silente.
Non sono madre di niente se non di parole e anch’esse a volte rimangono sole.
Tornano in questi versi le note costanti della desolazione, della solitudine, dell’aridità di “una vita non vita”.
Eterea, impalpabile, sono vita non vita (Da “Oltre ogni certo sentire”)
Ma se dai diamanti non nasce niente, dalle terre desolate vengono fuori fiori di parole. Qualche volta. E queste pagine sono piene di petali su cui soffermare il nostro sguardo e la nostra attenzione. Petali di una madre di parole.
Un testo anaforico facile, spiccio e raccogliticcio che illustra uno scadente disegnino dello scorso millennio
Preferisco le curve sinuose e mobili dei punti interrogativi alla statica fissità degli esclamativi❗ Preferisco le svolte, i tornanti, i bivi e i crocicchi ai sensi unici su rettilinei privi di deviazioni e sorprese. Preferisco l’angolo alla retta e l’arco all’angolo, soprattutto se si tratta di un angolo retto che può ferirmi col suo spigolo e la sua presunta superiorità morale. Preferisco che mi sorprendi con una nota inaspettata e che imbocchi un sentiero non segnato sulle mappe. Preferisco non sapere già dove vuoi andare a parare e immaginare che anche tu non stia seguendo un pattern, una regola scritta, una convenzione, una maniera o uno spartito. Preferirei cambiare anche la struttura del mio dire. Preferisco dubitare fin quando e quanto lo posso fare, per dubitare anche del mio dubitare.
E invece vedo sempre più opifici di certezze in cui fabbri con i paraocchi trasformano i dubbi e le domande in affermazioni ed esclamazioni che torneranno a curvarsi sotto i raggi del primo sole.
Rielaborazione digitale di un disegnino analogico del 1984 o del 1985; non so.
(La materia prima è un diamante grezzo, una fonte di acqua pura che può dissetare o affogare, una miniera che si alimenta del suo dubitare.)
Come specchi che si riflettono uno nell’altro in una mise en abyme tendente al non finito.
Al margine, aggiungo tre petali di terzi. Tre ulteriori strati in forma di citazione. Altri tre specchi su cui riflettere e moltiplicarsi.
Cipolla, anfora di luce, petalo a petalo si formò la tua bellezza, squame di cristallo ti crebbero e nel segreto della scura terra s’arrotondò il tuo ventre di rugiada. Da “Ode alla cipolla” di Pablo Neruda
Cercare la causa prima è come sbucciare una cipolla. Ogni spiegazione dà origine a una nuova domanda a un livello più profondo. Joseph E. Stiglitz
La cipolla è un’altra cosa. Interiora non ne ha. Completamente cipolla Fino alla cipollità. Cipolluta di fuori, cipollosa fino al cuore, potrebbe guardarsi dentro senza provare timore. Da “La cipolla” di Wisława Szymborska
E così anche un convinto antimilitarista come me si è trovato, in una calda giornata di agosto, a combattere la sua personale guerra contro l’animale assurto a simbolo della pace (almeno nella sua versione femminile), quello che a giusta ragione ho sentito definire in Germania il ratto dei cieli.
Segue una vecchia immagine di quando questi pennuti scacazzanti ancora avevano la loro dimora di fronte casa mia.
E stavo più tranquillo anch’io. Prima dell’invasione.
Finché non ti entra in casa, la guerra è solo un incendio visto da lontano o un paragrafo di un libro di storia.
A meno che non ti arrivi la polvere sul tavolo (sta capitando anche questo, con l’abbattimento di questo palazzone) oppure si abbia un conseguente aumento del prezzo del gas e dell’olio di semi di girasole.
Epigramma triste e inconsolabile in forma di videopoesia breve
Nessuno sa il giorno l’ora e il momento Ma si vive come se non fosse importante che ad ogni battito o folata di vento si avvicina il rintocco dell’ultimo istante
Momenti di riconciliazione, abbattimento e ricostruzione
Ormai da qualche giorno sono rientrato a Fratta, nel quartiere di Chiazza Mantano, dove sono nato e vivo da più di mezzo secolo. Dopo il bagno di mare e civiltà dei giorni trascorsi a Blanes, sono stato assalito da un senso di vuoto e di inappartenenza. Nostalgia per una città di mare ben organizzata, attenta alla difesa dei beni comuni, piena di verde e di spazi pubblici attrezzati; una città senza traffico, nonostante la marea di turisti riversati sul lungomare. Qui, invece, tutto come lo avevo lasciato, e io sono tornato a sentirmi un po’ più straniero nella terra dove sono nato, come quando ero ragazzo e cominciavo a esplorare l’Europa in cerca d’altro e di un presunto me stesso che non era altro che quello che facevo per cambiare quello ero, in funzione di quello che mi sarebbe piaciuto diventare (per quanto, allora come ora, non sappia dire cosa). Poi, mentre mi arrovellavo nei miei pensieri e nelle mie malinconie, come manna giunta dal cielo pigro di internet, mi sono imbattuto in questo video che sto ascoltando in loop come un antidepressivo che mi sta aiutando a uscire dall’astenia e dal torpore per ritrovare l’amore per la mia terra e per riappropriarmi dei miei sogni per cambiare Fratta e me stesso. Un modo, anche, per ritrovare l’amore per la mia terra e riappropriarmi dei miei sogni di rifondazione e cambiamento.
Il video si intitola Jazz Mantana, ed è uno splendido omaggio alla mia terra e al mio quartiere, Chiazza Mantano, che un tempo fu la periferia di Frattamaggiore sorta nei pressi di una palude di fango e acque stagnanti (un pantano, appunto) da cui, nel secolo scorso, è venuta fuori tanta musica contaminata col jazz e con gli altri suoni provenienti dai bassifondi angloamericani e, più tardi, anche con le sonorità provenienti dal resto del mondo.*
Il brano è stato composto, arrangiato e suonato dai TProject di Gino Frattasio (basso e programmazione) e Pasquale Marchese (batteria e percussioni), con il suggestivo e avvolgente intervento al sax tenore di Giovanni Sorvillo e con la produzione di Ciro Bianco (ingegnere del suono). Apprendo dalla rete che “Jazz Mantana” è la prima di undici tracce di un album di prossima uscita su cui i TProject stanno lavorando da quattro anni. Le foto del video che raffigurano le strade di Via Roma, Via Croce San Sossio e Via Vittorio Veneto (il cuore di Chiazza Mantano) sono state in gran parte prestate dall’Istituto di Studi Atellani e selezionate da Marino Landolfo. Si alternano e si sovrappongono con le immagini di grandi jazzisti internazionali (tra gli altri, Lester Young, Charles Mingus, Elvin Jones, Sonny Rollins, Chet Baker, John Coltrane e Charlie Parker) e con le foto di alcuni musicisti locali (i fratelli Munari, che cominciarono la loro carriera suonando il jazz per gli americani delle basi NATO, Franco Del Prete, cofondatore degli Showman e dei Napoli Centrale, e Larry Nocella, il grande sassofonista di Battipaglia che a Chiazza Mantano era di casa). Di tanto in tanto le immagini si animano con qualche frammento video dei musicisti del TProject nell’atto di suonare e registrare il brano che stiamo ascoltando. Se vede pure ‘a casa mia, comm’era e comm’è, e quella di Franco Del Prete! Siamo entrambi talmente chiazzamantanesi che Franco, da ragazzo, lavorava nel bar di mio nonno materno e per tutto il resto della sua vita ci incontravamo e salutavamo con affetto dappertutto, in salumeria, dal giornalaio, dal fruttivendolo, nel bar Mastrominico dove suonava fino a tarda notte con Larry Nocella, fuori casa sua e fuori casa mia. Ed io ricordavo che nel juke-box del bar del nonno risuonavano sempre le sue canzoni…
Da un punto di vista più strettamente musicale “Jazz Mantana” è un bel brano di jazz rock dall’andamento lento e suggestivo che ricorda il Miles Davis degli ultimi anni (soprattutto quello anni ‘80 degli album arrangiati e prodotti da Marcus Miller), ma ha anche una sua mediterraneità (riscontrabile fin dalle prime battute di uno strumento a corde che potrebbe essere un oud o una mandola) che ci riconducono alle produzioni di Chick Corea, John McLaughlin e Al Di Meola, ed anche dalle parti del Perigeo e dei Napoli Centrale, of course. In ogni modo, i riferimenti significano poco ed hanno il vizio della soggettività (per il tappeto sonoro elettronico, caldo e ipnotico avrei potuto parlare anche del jazz scandinavo di un Nils Petter Molvær o di quello inglese di John Surman, tano per moltiplicare gli esempi). Quello che conta è che il brano ha una sua personale forza evocativa e il suo incedere fluisce in modo liquido e insinuante nelle orecchie e nell’animo dell’ascoltatore, grazie anche al recitare ruvido di Pasquale e alle note graffianti del sax di Sorvillo. Potente e suadente la linea di basso che percorre i 5 o 6 minuti di musica.
Ascoltandolo mi sto un po’ riconciliando con la mia terra e sto facendo pace con questo invadente me stesso in perenne abbattimento e ricostruzione. Come il cemento del mio quartiere e della mia città.
Tre Note
* Ricordo, a piè di pagina, che prima dell’unità d’Italia e ancora fino al primo dopoguerra, Frattamaggiore era divisa in chiazze – quartieri storici – che presumibilmente si svilupparono a raggiera intorno al centro della città, denominato Chiazza d’Agno, dove “agno(lo)” vuol dire “angelo”. A Chiazza d’Agno (oggi più comunemente definita ‘Mmiezzo ‘e Fratta) c’era la chiesa di San Sossio, risalente agli ultimi anni dell’Alto Medievo, e più tardi anche la sede del Municipio. Gli altri punti nevragici della città erano popolarmente conosciuti come Chiazza Pertuso (un “pertugio” alle spalle della chiesa); Abbascio all’Arco (oggi Piazza Riscatto); ‘Nmont’Accetta (zona residenziale più moderna sviluppata ai tempi del fascismo; come si evidenzia dall’accetta di questo suo toponimo che pare essere una rievocazione dell’ascia del fascio littorio effigiata su un muro di quella che è oggi Via Padre Mario Vergara); Sfasciacarrozza (oggi Voltacarrozza, zona lungo il lato destro della provinciale per Afragola, così chiamata perché la strada era così malridotta da rompere le ruote dei carri). E ancora; ‘Nmonte San Giuanne (oggi Via Genoino), Abbascio a’ Cupa (tra via Matteotti, sede storica del Liceo Durante, e via Cumana); ‘Ngoppe ‘e filatore (Via Fiume); ‘Aret’a Iacciera (Via Carmelo Pezzullo, sede di una ghiacciera); ‘Ngoppe ‘a Muntagnella (zona rialzata di Chiazza Mantano, parallela a Via Vittorio Veneto); ‘Ngoppe ‘e Filangieri (tra Via Vergara e la provinciale Fratta-Afragola, sede storica della ragioneria); ‘Nmonte ‘Icienzo (Via Amendola); ‘Ngoppe ‘a Carantonia (Via Biancardi); ‘Nmonte ‘e Scieme (zona periferica in cui negli anni ‘30 il dottor Tropeano fece costruire Villa Laura per ospitare persone con problemi psichici e psichiatrici); Abbascio ‘a Palla (via XXXI Maggio); ‘A Torre ‘e Palumme (torretta, ormai cadente, priva di parte dei merli, situata nella zona di Chiazza Mantano più vicina alla piazza centrale di Chiazza d’Agno)… E di certo dimentico qualche altro toponimo caratteristico della mia città, “sola abbandonata / invisibile spiata / fiera disprezzata / feroce incontrollata / ma è la mia città”.** “Ma che bella città – ah, ah, ah, ah. Sento l’acqua alla gola – ah, ah, ah, ah. Forse è un colpo di mano – oh, oh, oh, oh. Forse è stata la scuola – ah, ah, ah, ah, ah. Io venivo di là… Ah, ma che bella città… Ah!”***
** Da “La mia città“, brano di Edoardo Bennato dall’album “Pronti a salpare” del 2015.
*** Da “Ma che bella città“, brano di Edoardo Bennato dall’album “I buoni e i cattivi” del 1974. Come passa il tempo! Come sono lente a cambiare le cose dalle nostre parti.