La Catalogna tra democrazia, tolleranza, utilitarismo, indipentismo e sovranismo
Per la seconda volta in una decina di giorni, ieri, nell’hotel che ci ospita a Blanes, nel pieno della Catalogna indipendentista, uno spettacolo di danza flamenca.
Come se fossimo in Andalusia, nel profondo sud della penisola.

Il popolo catalano è un popolo tollerante, democratico e civile, ma è anche un popolo concreto, capace di sfruttare i propri talenti e quelli altrui per farne mercato; un popolo pronto a vendersi tutto il vendibile per aumentare il proprio benessere materiale; fino agli estremi della gentrificazione che hanno trasformato interi quartieri popolari di Barcellona in zone spersonalizzate, piene di migranti e turisti, con conseguente aumento del prezzo degli affitti, degli immobili e dei beni di prima necessità. Lucía Lijtmaer, nel romanzo che sto leggendo in questi giorni di mare e rilassamento, osserva che già una ventina di anni fa Barcellona si stava trasformando in una grande Lloret de Mar…

“In due anni qui si è riempito di guiris [turisti stranieri] come se fosse Lloret, dice qualcuno, ed è vero, il centro è como la Lloret della mia infanzia, lo stesso odore di cipolla fritta e waffle riscaldato, lo stesso mare di pelli bruciate, la stessa sensazione di nausea e stordimento per la quantità di gente e sole, combinati, gente e sole, gente in scatole di latta, sole in scatola, la latta che ti brucia la pelle quando cerchi di sederti sul cofano di una macchina vicino alla spiaggia e tua madre ti diceva: togliti di lì, non vedi che ti stai per scottare, togliti di lì, ti dice ora il tuo istinto e non tua madre, ogni volta che scendi dalla ronda di Sant Pere.”
[Lucía Lijtmaer, “Cauterio“, 2022, p.81. La traduzione è mia.]
Ma torniamo allo show Flamenco e alla capacità dei catalani di sfruttare a più non posso tutti i luoghi comuni del turismo iberico per farne una redditizia fonte di guadagno.
In Catalogna hanno abolito la corrida ed hanno trasformato l’Arena di Barcellona in un mega-centro-commerciale, eppure continuano a vendere tori di plastica a orde di turisti in cerca di sapori autentici e prodotti tipici e topici. In Catalogna si sentono altri dal resto della Spagna, ma poi, a ben vedere, è tutto un proliferare di ventagli, banderillas, chitarre, nacchere, paellas valencianas, sangría e gazpacho andaluso. A Barcellona e nel resto della comunità autonoma, hanno in spregio i “charnegos” (gli spagnoli che vivono in Catalogna, ma non sono figli di catalani), ma hanno catalanizzato Picasso, un genio di Malaga (Andalusia) vissuto per la maggior parte della sua vita in Francia.
Il finto tablao flamenco di ieri, che ho solo sentito da lontano perché la bambina non è voluta scendere e ha preferito tenere a sottofondo delle sue letture, è parte di questo sfruttamento mercantile dell’idea di Spagna sedimentata nelle teste degli stranieri che da due o tre secoli cercano la Carmen in ogni angolo o anfratto della penisola iberica (allo stesso modo in cui i gondolieri veneti cantano “‘O sole mio” e “Simme ‘e Napule, paisà” ai turisti tedeschi e giapponesi che questo vogliono sentire, per avere la sensazione di trovarsi in acque italiane e vivere le emozioni del popolo degli spaghetti, della pizza, delle tarentelle, delle mafie, dei Sorrentino, dei pulcinella e della camorra di Gomorra).
D’altronde, la relazione della Catalogna col flamenco viene da lontano.
Già alla fine dell’800 proliferavano a Barcellona spettacoli di danza gitana in café chantant che spesso, non a caso, avevano nomi che si richiamavano alla realtà andalusa, come Café Sevillano, Café Concierto Sevilla e Café Concierto Triana. Tuttavia, è innegabile che, col tempo, si formò una vera e propria tradizione flamenca catalana. Carmen Amaya, una delle più grandi e innovative danzatrici di flamenco del secolo scorso, era una gitana nata a Barcellona nel 1913.
Questo attiene, insomma, anche alla capacità dei popoli mediterranei di assimilare culture estranee e lasciarsi contaminare dall’altro.
La cucina catalana è un’ulteriore riprova di questa tendenza ad aprirsi a gusti, a prodotti e a sapori provenienti da mondi vicini e lontani.
Insomma, niente di male, per carità. Un po’ di flamenco, anche incelofanato, non fa male a nessuno. Anzi. A me piacciono pure i Gypsy King, gitani andalusi residenti in Francia che hanno inventato una versione pop e commerciale della rumba flamenca. Questa è una musica nomade, che probabilmente ha mosso i primi passi nella lontana India e poi si è andata mischiando con i suoni di mezzo mondo già prima di approdare tra Cordova, Siviglia e Granada. E da quel momento il processo di contaminazione e commercializzazione non è mai finito.*
Sento solo qualche nota stridente tra questa musica senza frontiere e la Catalogna autonomista, indipendentista, sovranista e (vivaddio) pure, sempre e comunque, antifa e antifascista.

Ma la Spagna e il mondo intero si nutrono di queste contraddizioni. E io pure, che sono del Mediterraneo e sento che questi e solo questi sono i tre colori della mia bandiera (insieme col giallo del sole, il verde degli ulivi e il rosso del sangue e della lava vulcanica).

“Mi contraddico“, “contengo moltitudini“. (W.W.)
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Se volete saperne di più del nomadismo del flamenco, leggete qua.
https://aitanblog.wordpress.com/2019/08/31/flamenco-contaminazione-e-nomadismo/