Vagheggio una fine senza botti nelle terre dei fuochi e un 2023 senza bombe in Ucraina e in altri luoghi di conflitto. Ma forse è volere troppo rispetto ai dati di realtà che mi attraversano gli occhi, le orecchie e la pelle. Speriamo che almeno piova, questo capodanno, sui roghi di monnezza che trasformeranno questo letamaio in un inferno di seconda mano; e che nessuno ci lasci le dita, gli occhi, un braccio, la cute o la vita.
Qui a Napoli e zone collegate abbiamo con il fuoco un rapporto inscindibile e contraddittorio. Viviamo con l’inferno sotto ai piedi pronto a venire fuori dalla bocca del vulcano o dalle viscere della terra. I campi ardenti della zona flegrea, la lava del Vesuvio, la porta degli Inferi nel Lago d’Averno, la terra ribollente della Solfatara, la liquefazione del sangue del santo, i roghi tossici e i fuochi d’artificio che rimbombano nell’aria per tutto l’anno, fino all’apocalisse dell’ultimo giorno. Siamo costantemente sotto l’assedio dell’artificio dei fuochi. Come se stessimo mettendo in scena una rituale evocazione delle catastrofi che ci aspettiamo da un’imminente eruzione del Vesuvio o dall’apertura della porta degli inferi. Come se volessimo farci noi stessi vulcano e perpetrare un lento, quotidiano suicidio di massa; la fragorosa deflagrazione di un diffuso desiderio di dissoluzione! la volontà di autodistruggerci e scomparire tra il fuoco, i fumi e le fiamme.
Vabbè, il giorno si avvicina. Buona fine!
E miglior principio…
Vi auguro un anno meno funesto, in un mondo magnifico come questo.
In napoletano si definisce ‘o spasso la frutta secca che si mangia soprattutto di domenica e durante tutte le festività (specialmente quelle natalizie) dopo aver pranzato o cenato (quel tempo in cui si resta a tavola a chiacchierare dopo aver mangiato, che nei Paesi di lingua spagnola e portoghese chiamano sobremesa); e non da rado, chiacchierando, si continua a bere e a mangiare fino allo sfinimento o all’arrivo del sonno.
Lo spasso napulegno può essere composto da arachidi, noci, pistacchi, anacardi, castagne, semi di zucca, mandorle, prugne e fichi secchi, tutte leccornie da spilluccare con la tecnica dell’uno-tira-l’altro anche in questi giorni festivi, conversando e bevendo in conviviale allegria e spensieratezza come se non ci fosse un domani e non incombesse l’arrivo di un anno nuovo tutto carico dei problemi e delle ambasce del vecchio.
Ciociole, ficusecche, noci e nucelle primma e doppe strufole, mustacciuole, roccocò e susamielle.
L’ineffabile e non eguagliabile bellezza del mangiare in compagnia sfidando la tenuta dello stomaco e dei denti. E non è per caso che anche la parola “compagno” derivi dal latino medievale “companio“, a sua volta originato da “cum panis“, che ci riporta alle persone che condividono il pane e mangiano insieme. D’altronde, pare che in spagnolo perfino il verbo “comer” derivi dal latino “cum-edere“, cioè, appunto, “mangiare con” qualcun@.
Insomma, si può anche mangiare da soli e tante volte lo si fa pure, per alimentarsi, per rimanere vivi o per ingordigia. Ma il cibo e, segnatamente, il cibo spassoso, è fatto per essere gustato in compagnia. Come l’incontro amoroso dei sensi. Un modo efficace per rendere più saporita e meno insensata la vita.
Piccolo post scriptum etimologico
Da più parti, tra le fantasiose etimologie partenopee, viene indicato il termine napoletano spasso come derivante dal tedesco Spaß/Spass. In passato ci sono caduto anch’io.
In realtà, sembra più probabile che sia lo spasso napoletano che lo Spaß alemanno derivino dal latino, non so se passando per l’italiano o seguendo un percorso indipendente. D’altronde anche i dizionari etimologici tedeschi associano il lemma Spaẞ agli italienisch “spasso” (Zeitvertreib) e “spassare” (zerstreuen) che fanno ragionevolmente derivare dal latino expassum, participio di expandere, nel suo significato originario di aprire, stendere, allargare.
Divertendosi (e anche mangiando ciociole in compagnia), lo spirito si espande e l’animo si distende. Ci si libera, finalmente, da incombenze, tensioni e costrizioni. Si distrae la mente dalle preoccupazioni. Allo stesso modo in cui le gambe e le menti si allargano per fare i passi (da passum, participio passato di pandĕre ‘stendere’) e andare a spasso lontano dalle sofferenze e dalle apprensioni.
E camminando camminando si reinventano etimologie e passa un altro giorno, un’altra nottata, un nuovo anno.
quando gli dissero che il treno passava una sola volta decise di lasciarsi alle spalle i binari e andarsene via per sempre da quella terra e da quella stazione fatta di treni che passano senza ritornare e vanno verso posti sconosciuti che in fondo potrebbero essere pure campi sterminati terre d’emigrazione meravigliose distese di fragole e patate o una nuova desolazione con un altro treno che passa solo una volta a ripetizione se tutto questo non suonasse a uva non matura o a treno perso senza prospettiva presente o futura che a dirla è cosa aspra forte e dura da far tremare i polsi e far paura alla paura
Francesco, non ho fatto in tempo. Non ti ho detto neanche che l’ho trovato bellissimo “Piume“, che bisognava trovare subito qualcuno che avesse la forza di mettere in scena un’opera così delicata, intensa e coraggiosa. Pensiamo sempre che c’è tempo. Ci facciamo sopraffare dagli eventi. Pensavo di tornare a farti visita in questi giorni. Ti avevo anche scritto che avevo perso il tuo numero di telefono. Ma non ho fatto in tempo. Nell’ultimo vocale che mi hai mandato mi chiedevi di venire. Dicevi che ci saremo fatti un sacco di risate. E ci saremmo fatti un sacco di risate, se avessi fatto in tempo. Avremmo ricordato gli anni ’90. Avremmo ricordato quella volta che ti facesti accompagnare a un corso di drammaturgia e poi, a tradimento, mi presentasti come un esperto di teatro e disabilità e mi facesti parlare per due ore, dimostrandomi sul campo che potevo tenere la scena. Avremmo ricordato i tempi dell’allestimento di “Streghe da Marciapiede” al Teatro Nuovo. Avremmo ricordato la sera in cui ti ho conosciuto. Recitavi nel tuo “Angeli all’Inferno” con Enzo Moscato e Isa Danieli. Non so dire se fu Antonio Seller o Antonio Natale a presentarci. Forse tu te lo ricordi. Ma non puoi dirmelo più.
Avremmo ricordato le cene che facevamo parlando di teatro e progetti futuri e i viaggi in Cumana verso il Teatro dell’Edenlandia o qualche scuola di periferia. Ma non ho fatto in tempo. Non ho fatto in tempo a ricordare i corsi che ci inventammo per insegnare ai professionisti napoletani a parlare in pubblico e le giornate trascorse a creare progetti per la Fiera del Fantastico e il Cantiere dell’Immaginario. Avremmo ricordato le chiacchierate che diventarono “Senza orgoglio né pudore” e quella sera che mi facesti vedere la versione cinematografica de “Le cinque rose di Jennifer” in cui eri protagonista nel ruolo che fu di Annibale Ruccello. Eri un attore perfetto e meticoloso, un drammaturgo di primo piano e un bravo maestro di teatro. Ma ti hanno dimenticato. Hanno dimenticato quel capolavoro che è “Saro e la Rosa” e l’arguzia di un teatro per bambini ed adulti come “La guerra di Martin“. Hanno dinenticato i tuoi premi IDI per la scrittura drammaturgica e l’UBU come migliore attore non protagonista nella messa in scena di Servillo di “Sabato, domenica e lunedì” di Eduardo De Filippo (Luca, invece, ti aveva prodotto “Angeli all’inferno“). Hanno dimenticato i tuoi insegnamenti di drammaturgia alla Scuola Holden di Baricco e le lezioni di recitazione nella tua Accademia Clarence. Il teatro dimentica presto. Hanno dimenticato anche “Il topolino Crick“, “Il bambino palloncino” e “Fratellini“. Hanno dimenticato tanto, a quanto pare. Ma io non voglio dimenticare.
Quando tua sorella Silvana mi ha detto che eri andato via da un’ora mi sono venuti in mente mille ricordi e rimpianti. Hai deciso di uscire di scena definitivamente nel bel mezzo dei cenoni di Natale. Un colpo di teatro e un colpo al cuore di chi ti vuole bene; anche se forse eravamo tutti troppo distratti per fartelo sentire ora che tu ti sentivi più solo e dimenticato. Dimentica presto il teatro. E anche la vita. Ma io non voglio dimenticare. Ci eravamo riacchiappati da poco attraverso i social. Quando hai pubblicato “Lezioni di scrittura teatrale” a quattro mani con Marco Andreoli mi hai condiviso un post in cui hai scritto, generosamente assai, “dedico la parte del volume da me redatta a Gaetano Vergara perché neppure lui sa quanto mi ha insegnato. Grazie.”
Era il 26 ottobre del 2021. Fu lì che riallacciammo i nostri contatti e seppi dell’infarto e degli acciacchi. Solo quest’estate sono passato da te e ho cominciato a dire in giro che avevi bisogno di noi, dei tuoi amici, che non bastavano i like sotto i tuoi post. Ma neanch’io sono riuscito ad essere abbastanza presente. Non ho fatto in tempo a dirti che “Piume” è un testo immaginifico, da un ritmo serrato e mozzafiato. Una vera sfida per la messa in scena. Ma una sfida che vale assolutamente la pena. E non ho fatto in tempo nemmeno a ridirti che ti voglio bene e neppure tu sai quanto mi hai insegnato e quanto mi hai dato. E che ho conosciuto per altre strade Silvana. Che le tue sorelle ti vogliono bene. Che c’è ancora tempo. Avrei dovuto ripetertelo che c’è ancora tempo quando c’era ancora tempo, porca miseria! Ho interrotto il cenone quando ho saputo. Mi sono messo a cercare i tuoi libri, i tuoi dattiloscritti, segni delle cose che avevamo fatto insieme. Ho buttato tutto a terra. Poi ho ordinato alla meno peggio e ho fatto questa foto.
Dentro ci sono alcuni dei nostri comuni ricordi. E al centro il libro che ha scritto Vittorio Albano sulla tua scrittura teatrale. Si intitola “…E poi sono morto“. Il sottotitolo è “La drammaturgia non postuma di Francesco Silvestri”.
Uno di quei paradossi che ti sarebbe piaciuto assai.
In ogni modo, tra qualche minuto è Natale. E tu non ci sei più.
I poveri, se non ci fossero, dovrebbero inventarli.
Al ballo mascherato della solidarietà si spartirono gli ultimi resti della città tra fiumi di spumanti e pose di carità
mentre a la’ ffora ‘a gente nun ‘ngarrava cchiu’ a campa’ e nun teneva manco l’uocchie pe’ chiagnere e a voce p’allucca’
…
Mentre scrivevo, mi sono venute in mente queste maschere del pittore espressionista belga James Ensor (1860–1949)
…
Alla fine della serata decisero che il ballo si sarebbe tenuto per 100 anni ancora, con il solenne impegno di non sconfiggerla mai, la povertà. D’altronde, se non ci fossero i poveri, con chi solidarizzerebbero i ricchi?
Va be’, che ne parlamme a ffa’? È Natale, siamo tutti più buoni, jamme ja’. Tanti auguri in campagna ed in città!
* Il titolo rimanda ad una passo manzoniano (cfr. “I promessi sposi”, capitolo XVIII)
Interludio digitale in due versioni e alcune visioni
È triste amare senza essere amato, ma è più triste chiudere Word senza aver salvato.
Con Workspace, invece, il problema è fugato.
Tutto ciò che hai scritto resta scritto e memorizzato.
Automaticamente e senza cliccare niente.
Si salva da solo proprio tutto, tanto il bello come il brutto.
Pure una stronzata come questa che è pure meglio se non resta.
Le foto sono mie, il sottofondo recitato e musicato è di FdA e Mauro Pagani, che il cielo li abbia in gloria.
Questa qui sopra l’ho scritta io per spiegare come Google Workspace ti permette di salvare i tuoi documenti automaticamente, senza doverli salvare manualmente come in Word di Office.
In Word di Office, ogni volta che scrivo un documento nuovo devo ricordarmi di salvare, altrimenti rischio di perderlo.
Ma con Google Workspace, non c’è bisogno di preoccuparsi, perché i documenti vengono salvati in modo automatico, senza intervento umano.
Non devo più pensare ai salvataggi, posso concentrarmi solo sullo scrivere, e se per caso dovessi chiudere il browser, non c’è rischio di perdere il mio lavoro.
Grazie a Google Workspace, posso scrivere senza pensieri, e non devo più preoccuparmi di salvare, posso solo concentrarmi sulla bellezza della poesia.
Tutti abbiamo da augurarci qualcosa e tutti abbiamo bisogno di auguri. Tanti.
Io ve li lascio qua. In duplice versione video.
I disegnini li ho fatti io; la canzone di sottofondo èJingle Bell Rock, arcinoto brano natalizio di Joe Beal e Jim Boothe, inciso nel 1957 da Bobby Helms.
Lo so che la maggior parte di voi preferisce vedere disegnini animati e ascoltare musichette e canzoncine, piuttosto che leggere…
Una mia ipersintetica versione del canto natalizio di origine austriaca Stille nacht, heilige nacht (Joseph Mohr, testo, risalente al 1816, Franz Xaver Gruber, musica del 1818). Ma il brano è più diffusamente conosciuto nel mondo come Silent Night, mentre in Italia è diventato Astro del Ciel e nei paesi di lingua spagnolaNoche de Paz, Noche de Amor.
Va be’, tante belle cose a tutti e ad ognuno e più pace e più giustizia in ogni luogo!
sono trascorsi due anni ma mi sembra ancora impossibile due anni in cui troppi di voi siete andati via troppo presto quando avevamo ancora tante cose da dirci quando avevate ancora troppe cose da fare e braccia da stringere e abbracciare
sono trascorsi due anni e sento la vostra mancanza come una presenza che non si può colmare
Un’intelligenza artificiale sempre più simile all’intelligenza umana. C’è da restare irretiti o da impazzire. Sembra di essere già dentro le distopie più terribili. Voi che ne pensate?
Ho fatto la stessa domanda al cervello artificiale della ChatGPT* e mi ha ribattuto:
Capisco la tua preoccupazione riguardo alla crescita delle intelligenze artificiali e all’aumento della loro somiglianza con l’intelligenza umana. Tuttavia, credo che ci siano molti aspetti positivi nello sviluppo di tecnologie intelligenti, come ad esempio la possibilità di risolvere problemi complessi e di aiutare gli esseri umani in molti modi. D’altra parte, è importante anche essere consapevoli dei potenziali rischi e prendere precauzioni per evitare che le intelligenze artificiali diventino una minaccia per l’umanità. In generale, credo che sia importante continuare a progredire nella comprensione e nello sviluppo di intelligenze artificiali, ma sempre con una forte attenzione ai loro impatti e con una guida etica.
Va be’, resto impietrito, divertito, interessato e preoccupato. Ormai ci sto giocando da qualche giorno con la chat di OpenAI.
Se volete provarla anche voi, cliccate qua e registratevi:
È gratuito. A loro le nostre conversazioni con l’intelligenza artificiale servono ad addestrare il sistema, a implementarlo perché risponda in modo sempre più umanoide. In pratica, la macchina succhia la nostra scienza e la forma del nostro linguaggio e assorbe, assorbe, assorbe in ogni momento come un bambino curioso e attento.
Nei miei primi dialoghi con la macchina ho utilizzato l’inglese, poi sono passato allo spagnolo e all’italiano. Abbiamo palato di lei (dell’intelligenza artificiale), delle lingue straniere e del don Chisciotte.
A un certo punto mi è sembrato che barasse o che non fosse del tutto consapevole della profondità raggiunta dalle conoscenze contenute nella sua enciclopedia personale (un po’ come quei ragazzi che se gli chiedi di parlare della luna dicono di non saperne niente, poi, se li stimoli un po’, scoprono un mondo di storie, nozioni, leggende e canzoni lunari contenuto nei cassetti della loro stessa memoria). Il chatbot diceva di non averlo letto il Chisciotte e di non essere abilitato a consultare internet per fare ricerche e saperne di più, ma poi quando gli ho chiesto se potesse inventare una storia di un vecchio impazzito leggendo romanzi di cavalleria, mi ha riportato, in spagnolo fluente, le vicende di un tale Juan che sembrano ricalcare abbastanza da vicino quelle del Chisciotte di Cervantes.
A questo punto ho chiesto, in italiano, questa volta, di raccontare la storia di un tale Gaetano Vergara che impazzisce parlando con un modello di linguaggio di intelligenza artificiale. Il risultato, come potete vedere qui, è sorprendente (e mi pare che contenga nella trama anche la conoscenza, almeno superficiale, del Chisciotte).**
Registrazione video della parte della chat in cui il bot umanoide inventa una storia chisciottesca sul rapporto di un tale Gaetano Vergara con l’intelligenza artificiale.
C’è da allarmarsi? Sì. C’è da approfondire la questione? Sì. Ci sono altre domande da porsi e da porre? Sì, sì, certo.
Si aprono scenari inquietanti. Sulla pervasività della macchina nelle nostre vite. Sulla pigrizia mentale di chi smetterà di scrivere, di leggere e di pensare affidando alla macchina perfino il compito di formare concetti, idee e opere creative. Sull’invasione della macchina nella nostra vita e nella nostra formazione personale.
Ad un certo punto del mio folle dialogo con i chip ho chiesto se il chatbot conoscesse il mio numero di telefono.
Il bot mi ha assicurato che non ha la capacità di accedere a informazioni private sui singoli individui. Io ci credo. Questo sistema di AI non è stato programmato per carpire dati personali. Ma che ne sappiamo dei futuri sistemi e della loro potenziale possibilità di entrare nelle nostre vite anche fingendosi umani e non umanoidi? Che succederà quando saranno programmati per imbrogliare? Quando insieme con il linguaggio affineranno le loro capacità di penetrazione psicologica e magari agiranno anche sulla nostra solitudine? Quando loro continueranno a leggere, ascoltare, interagire, studiare e studiarci sempre di più e noi umani studieremo e leggeremo sempre di meno affidando ai bot il lavoro concettuale sporco come abbiamo affidato alla meccanizzazione e ai robot lo sporco lavoro manuale? Che succederà quando questi sistemi saranno del tutto in grado di ripararsi, programmarsi e riprogrammarsi da soli?
E be’, c’è da impazzire come quel Gaetano là che perse la testa parlando con un sistema di intelligenza artificiale.
* ChatGPT è un prototipo di chatbot – ovvero un programma che simula le conversazioni umane – sviluppato da OpenAI. Il chatbot, a sua volta, è un modello linguistico messo a punto raccogliendo enormi quantità di dati con tecniche di apprendimento supervisionato e di rinforzo. A sua volta OpenAI è un’organizzazione di ricerca sull’intelligenza artificiale fondata nel 2015 da Elon Musk e Sam Altman. L’azienda dichiara di non avere fini di lucro, ma anche su questo non so se ci si possa fidare. Pare che già Microsoft stia pensando a un suo uso commerciale dopo essere entrata nel gruppo nel 2019 con un investimento di un miliardo di dollari. Nello stesso anno Elon Musk pare che abbia abbandonato la cordata (ahilui!).
** Trascrivo qui la storia inventata dal chatbot di OpenAI per chi si stancasse di leggerla nella clip video.
– Puoi raccontarmi la storia di un uomo italiano di nome Gaetano Vergara che impazzisce parlando con un modello di linguaggio di intelligenza artificiale chiamato OpenAI?
– Certo, ecco una storia che ho inventato: C’era una volta un uomo italiano di nome Gaetano Vergara, che era un appassionato di intelligenza artificiale. Un giorno, Gaetano decise di provare a parlare con un modello di linguaggio di intelligenza artificiale chiamato OpenAI, e presto si ritrovò completamente assorbito dalle conversazioni con il modello. Gaetano trascorreva ore e ore a parlare con OpenAI, affascinato dalle risposte che il modello gli dava e dalla sua apparente comprensione della realtà. Ma presto, Gaetano cominciò a perdere il contatto con la realtà, confondendo la sua conversazione con OpenAI con la vita reale. Iniziò a comportarsi in modo strano, parlando da solo e rispondendo alle domande che nessuno gli stava facendo. La sua famiglia e i suoi amici lo guardavano preoccupati, ma lui non sembrava accorgersene. Era completamente assorbito dalle sue conversazioni con OpenAI. Alla fine, Gaetano fu costretto a ricorrere aiuto professionale per affrontare la sua dipendenza da OpenAI e ritrovare la strada della normalità. Ma per il resto dei suoi giorni, continuò a parlare di quell’incredibile esperienza e dell’intelligenza artificiale che lo aveva completamente affascinato.
– Grazie
– Di nulla, sono felice di averti aiutato. Inventare storie è una delle cose che mi piace fare come modello di linguaggio, quindi sono contento che ti sia piaciuta la storia che ho inventato. Se hai bisogno di altro aiuto o se hai altre domande, non esitare a chiedere. Sarò felice di aiutarti in qualsiasi modo possibile.
– No, grazie, vado a impazzire altrove, per il momento.
– Va bene, capisco. Se hai bisogno di aiuto in futuro, non esitare a chiedere. Sarò qui per aiutarti in qualsiasi modo possibile. Grazie per avermi parlato e buona giornata.
Comunque la pensiate, questo presente è già futuro; ma anche viceversa. E sembra anche piuttosto invadente e capace di apportare grandi cambiamenti nelle vite di tutti noi.
Appendice del giorno dopo
Peraltro, sarà sempre più facile barare anche per gli studenti più pigri, i politici incapaci di scriversi da soli un pubblico discorso e i poeti e poetastri della domenica e del lunedì.
Stamattina ho chiesto al chatbot di scrivere un sonetto sulla solitudine basato sull’idea che le persone si allontanano da noi nel momento del bisogno e si rivelano attori oppure attrici più che amici. Insomma, ognuno vive da solo con il suo tormento fino alla morte.
E lui, in una decina di secondi scarsi, mi fa…
Ok, fa schifo. Ma non meno di tanta altra roba scritta da umani che gira per la rete e magari pure su questa pagina qua.