25 versi che riscrivo da 25 anni (anno più, anno meno, verso più, verso meno)
Eppure ho visto stelle anche di inverno Ed i tuoi occhi belli anche in inferno Né m’è mancato mai il tuo sguardo buono Ogn’or che rintronava in cielo il tuono E non parea ci fosse via d’uscita Dentro l’oscurità della mia vita
Per non citare la favella chiara Ed ogni parola tua, amica cara, Che dava senso ad una scalinata Che tante volte ho corso all’impazzata Scendendo contromano la salita Finché non v’era vita nella vita
E wenn ci rivedrem laggiù in inferno Condannati sarem al brio eterno Per cui veleggeremo a cielo aperto E rideremo forte, ne sono certo, Mentre ti prenderò da ogni parte Per far dei nostri corpi un corpo e un’arte
(Ché finché tu giocherai col mio batacchio Di tutto il resto ci importerà un fico secco Oppure un cacchio e chiederotti Scusa anche per codesto pateracchio Che strepita come uno sceicco Rinchiuso in un’ampolla o un alambicco Per un abbaglio oppure un battibecco)
Il fatto é che quando sono morti Bach, De Falla, Ellington, Mingus, Jobim, Tenco, Piazzolla, Modugno, Demetrio Stratos e Miles Davis non avevamo Facebook. E se faccio bene i conti, il nostro chiacchierio in rete non c’era nemmeno ai tempi in cui sono finiti Kurt Cobain, Jaco Pastorius e Fabrizio De Andrè. Avremmo per certo scritto coccodrilli strappalacrime anche per loro. E l’avremmo fatto soprattutto per noi stessi: un modo goffo è piuttosto disperato per elaborare il lutto e non rimanere sopraffatti dalla triste certezza che non ci sarebbero state nuove note provenienti da quelle mani e da quelle bocche ormai consumate da vermi e formiche o già trasformate in mucchietti di cenere.
Giorno dopo giorno, Perdita dopo perdita, Vita dopo vita, I nostri ricordi Si sradicano dalla terra Per finire chissà dove.
Perché, in fondo, più che per il morto, ai funerali ed alle commemorazioni sulle reti sociali (quelle piene di pianti e rimpianti per le persone e per i personaggi che abbiamo più o meno ignorato per una vita e scoperto o riscoperto nel giorno della loro pubblica dipartita), più che per il morto, dicevo, mi pare che si pianga per se stessi: per quello che ci viene a mancare; per quello che abbiamo perso con l’avanzare degli anni; per il rimpianto di quello che eravamo quando entrammo in contatto col morto ai tempi in cui era ancora vegeto e vivo; per l’amore, per le considerazioni e per le emozioni che non potrà più darci e, non di meno, per il fottuto timore che prima o poi toccherà anche a noi (avevamo la stessa età…; abbiamo lo stesso sangue…; frequentavamo lo stesso bordello…; un giorno ci incontrammo a un altro funerale…; abbiamo mangiato lo stesso piatto di funghi avvelenati…; dottore, dottore, sento anch’io un dolore allo stomaco e mi gira la testa come se fossi al Luna Park…; dottore, mi dica quanto mi manca; non finga con me; ne ho viste già tante; ma tante, tante, tante che neanche lei sa quante…).
Poi a volte ci capita pure di piangere per persone lontane e sconosciute: vittime di catastrofi, incidenti memorabili, guerre, stermini e genocidi, e, nel farlo, seguiamo più o meno gli stessi meccanismi delle proprietà transitive e delle assimilazioni che finiscono immancabilmente per ritorcersi su noi stessi, sulla nostra fragile caduca e mortalissima persona (poteva capitare anche al mio amico Jules, a Pierre o a Juliette, oppure a Fulano, a Mengano o a Zutano che vivono da quelle parti e, se poteva capitare a loro, poteva capitare anche a me; e puoi scommetterci che capiterà, capiterà prima o poi, pure a te, a me e a tutti noi. Mannaggia ‘a miseria, mannaggia ‘a morte e mannaggia ‘a vita va c’è tene ‘nterra!).
Detto ciò, mi pare che si pianga anche a comando o per contagio. Se piangi tu, piango anch’io, che di certo la mia sofferenza non è minore della tua e neanche a me mancano le buone ragioni e le giuste dosi di dolore per versare fiotti e fiumi di lacrime su questa valle lacrimosa in cui risiede la nostra vita reale e virtuale. Oltre al fatto che in quei momenti ci viene da riflettere sull’impatto che quella vita sfumata ha avuto ed ha sulle nostre vite ancora pulsanti. E qui la rete esercita un meccanismo di amplificazione in cui il lutto viene anche rappresentato, teatralizzato, finto così completamente che si arriva a fingere che è dolore il dolore (esistenziale e consustanziale alla finità dell’uomo) che davvero si sente.
(Lo so che vi suono antipatico e che voi gli volevate bene davvero. Anche se non lo conoscevate o lo avevate conosciuto di striscio. Ma piangetemi ai miei funerali. Anche se mi avete conosciuto di liscio, di sguincio o di striscio e mi avete capito poco o non mi avete capito per niente. Piangetemi, piangetemi lo stesso. Almeno un po’. Io sarò impegnato in altro e non potrò farlo da solo.)
Un sonetto dirompente, claudicante e artificiale ma non troppo
Note esplicative – La musica di questo video non è per niente artificiale e si deve al duduk del musicista armeno Djivan Gasparyan. – Uno di questi versi è stato scritto con l’ausilio dell’intelligenza artificiale di ChatGPT di OpenAI. – Quasi tutte queste immagini sono state concepite dall’intelligenza artificiale di DALL·E 2 (sempre di OpenAI) e ritoccate con l’app PicsArt. – Una delle voci di questo video è stata creata con un programma di sintesi vocale contenuto in TikTok. – Tutta la clip è stata montata con l’app di editing video CapCut, nata originariamente in Cina con il nome di Jianying. – Uno dei versi di questo sonetto non esiste (ed anche per questo esso è claudicante). – Uno di questi giorni vi chiederete perché perdete il tempo a vedere, ascoltare e leggere i miei “sbariamienti” analogici e digitali.
Considerazioni sulla scrittura poetica con molti riferimenti ai classici e con i moderni nascosti tra le righe del non detto.
…
“[A]ut prodesse volunt aut delectare poetae aut simul et iucunda et idonea dicere vitae” (Orazio “Epistole”, Libro II Epistola III, “Ars poetica”)
Per quanto Orazio abbia sostenuto che “i poeti si propongono di provocare giovamento o diletto, oppure di dire a un tempo cose piacevoli e utili alla vita”, l’esperienza insegna che tra l’utile e il dilettevole i più, tra i versificatori, si inclinano sul versante del dilettevole.
E non è (solo) una questione edonistica. In fondo, suscitare emozioni è una parte preponderante del loro mestiere e probabilmente risulta più agevole mettere insieme parole attentamente scelte, autenticamente ispirate ed esteticamente appaganti che provare a portare giovamento insegnando e divulgando cose che difficilmente si possono insegnare, oppure offrendo a chi legge specchi in cui ogni attento fruitore possa riconoscere parti di sé o del mondo in cui vive.
In un certo senso, possiamo dire con Leopardi che, mentre può esistere una poesia inutilmente piacevole, non potremmo mai definire poesia un testo utile ma non dilettevole.
“La poesia può essere utile indirettamente […] ma l’utile non è il suo fine naturale, senza il quale essa non possa stare, come non può senza il dilettevole, imperocché il dilettare è l’ufficio naturale della poesia“. (Leopardi, “Zibaldone”, pensiero del 1817)
In altri termini, per quanto non esistano scorciatoie o facili ricette, sappiamo che, quando l’impasto riesce bene e il lettore è ben disposto, si innesta la magia e scatta il godimento fruitivo in modo indipendente dal contenuto etico o didascalico dei versi.
Ma in fondo (ed anche in superficie) contano poco i buoni propositi del poeta poetante. Spesso ci piacciono cose che sappiamo per certo o per sentito dire che non ci fanno bene, spesso desideriamo perfino ciò che può, con tutta probabilità, farci (del) male. Insomma, mi pare evidente che i meccanismi del desiderio e del piacere sono quasi sempre scollegati dai concetti di utilità e di benessere. In qualche modo, la lettura di versi ben concepiti solletica gli stessi gangli nervosi del piacere, e il piacere è manifestamente indipendente dalla ragione e dal torto. (Credo che Octavio Paz si riferisse proprio a questo collegamento col piacere quando scrisse da qualche parte: “La poesía es erotismo verbal“. E mi pare evidente che, per certi seduttori in forma scritta, risulti più facile essere attraenti o apparire interessanti che rendersi utili ai propri amanti).
Poi è chiaro che ci sono maestri che hanno saputo scuoterci e segnarci un cammino dilettandoci e maestri che ci hanno dilettato scrivendo cose immediatamente utili: lezioni di vita; istruzioni per il montaggio di aeroplani di carta; ricette per pozioni magiche o uova fritte; ammaestramenti sulla vita di santi e santoni, sull’arte della guerra e sulla pace universale; indicazioni sulla realizzazione di un orto concluso e insegnamenti di etica, di morale o di politica. Poeti della razza e della stazza di Eraclito (che annovero tra i poeti più grandi), Esiodo, Lucrezio, Virgilio, Juan de la Cruz, Teresa d’Ávila, Trilussa, Borges, Rafael Alberti, Rodari, Gloria Fuertes e Bertolt Brecht. Poeti come Dante Alighieri e T.S. Eliot che ci hanno messo in connessione col passato e col presente, per aiutarci a raggiungere una comprensione più profonda di noi stessi e della realtà in cui siamo immersi ed emersi. Poeti che hanno preso tutti i punti del “poetry slam” mescolando l’utile e il dilettevole in giuste dosi per creare una poesia che ci nutre, ci delizia e ci offre sprazzi di luce tra le sue combinazioni di vocali e consonanti. “Omne tulit punctum, qui miscuit utile dulci, Lectorem delectando pariterque monendo“. Di nuovo Orazio dalle pagine dell’Ars poetica (versi 342- 343).
Quante cose ho imparato leggendo i loro versi utili, dilettevoli e interessanti e quante emozioni mi hanno dato mentre apprendevo e imparavo… Quante storie d’amore ho avuto con le righe brevi delle loro pagine! Un erotismo un po’ di testa, qualche volta, ma molto intenso e appagante, per lo più.
“Che se altri richiedesse se la poesia sia utile o no, io a questo risponderei ch’ella non è già necessaria come il pane, né utile come l’asino o il bue; ma che, con tutto ciò, bene usata, può essere d’un vantaggio considerevole alla società. E, benché io sia d’opinione che l’instituto del poeta non sia di giovare direttamente, ma di dilettare, nulladimeno son persuaso che il poeta possa, volendo, giovare assaissimo. Lascio che tutto ciò che ne reca onesto piacere si può veramente dire a noi vantaggioso; conciossiaché, essendo certo che utile è ciò che contribuisce a render l’uomo felice, utili a ragione si posson chiamare quell’arti che contribuiscono a renderne felici col dilettarci in alcuni momenti della nostra vita […].” La quadratura del cerchio nel celebre “Discorso sopra la poesia” (1761) di Giuseppe Parini. E, più tardi, anche nel dichiarato intento manzoniano di perseguire “l’utile per scopo, il vero per soggetto e l’interessante per mezzo“. (Alessandro Manzoni, “Lettera sul romanticismo al Marchese Cesare d’Azeglio”, 1823)
Tuttavia, è chiaro che ci sono periodi di crisi personale o epocale in cui si ci concentra tutti sul mezzo, mettendo da parte l’utile e il vero.
Ma ci sono anche momenti in cui bisogna imbracciarle, le cetre, anziché appenderle alle fronde dei salici. Per dire quello che si deve dire suscitando l’interesse di chi ci legge e spargendo diletto tra i nostri amanti/e-lettori (quelli che scelgono di trascorrere con le nostre parole alcuni intervalli della loro vita troppo preziosa per essere sprecata a leggere cose che si leggono futilmente e senza piacere). A limite di questo discorso mi viene da dire che, con le parole, si fa l’amore con il rischio e la possibilità che possano essere generative e da parola possa nascere parola. Altro che “art for art’s sake“! L’arte poetica autentica è creativa e generativa. Non ha parole giuste o parole sbagliate, ma solo combinazioni sterili e combinazioni produttive che vengono alla luce con l’aiuto del lettore e che, a loro volta, indicano nuove strade agli illuminati.
(Senza contare l’estremo vizio di soggettività insito nei concetti di “dilettevole”, di “interessante”, di “vero” e di “produttivo” che si rincorrono in questo testo senza mai afferrarsi del tutto, proprio in virtù della loro imprendibile, personale e variabile essenza.)
(In questa ulteriore parentesi mi viene da osservare che, in ogni modo, girano per i libri, per le riviste e per la rete decine e decine di filastrocche di qualità molto superiore a decine di migliaia di liriche di “poeti laureati” in cui non scorre né il sangue né la ragione: sprechi di tempo, carta e spazi fisici o digitali che avrebbero fatto meglio a restare nella mente dei loro creatori, ma che magari hanno dato loro la soddisfazione effimera di un parto indolore e improduttivo. Fuffa né vera, né utile, né dilettevole, né interessante. Metafore di seconda mano, discorsi inutili, forme incerte e concetti consunti dal tempo. Poesie/sveltine, versi facili facili che danno il piacere, a lettori poco avvezzi all’arte amatoria, di aver goduto anche loro di una storia d’amore con la poesia. Ma in genere si tratta di roba che genera poco altro che un fenomeno editoriale o qualche intervista su qualche giornale che leggono in pochi o nessuno e che è destinato a durare lo spazio di un mattino).
Ma poi, alla fine dei canti, la questione è sempre una. Utile, interessante, vero, dilettevole, poco importa… L’arte non ha regole, obiettivi e finalità precise e univoche. Non è tanto come DOVREBBE essere e come dovrebbe farsi, il problema; il problema dell’arte è come POTREBBE essere e come potrebbe essere fatta in un dato momento della storia per svolgere la sua sfuggente funzione e rimanere nel tempo oltre quel dato momento della storia; per continuare a parlare oltre lo spazio di quel mattino che sfuma già in un altro tramonto della nostra in/civiltà e per fare di chi legge una persona più consapevole e capace di senno, senso e intendimento.
Scrivendo ‘sto sonetto mi propongo, a chi lo leggerà di dar piacere, ed anche un po’ di senno e intendimento su quello che io sento e dissento
Tutto il resto è tutto il resto su cui non dico né insisto.
Mare Fuori Napoli primo in classifica Le celebrazioni per Troisi I memorial per Pino Daniele I documentari di Martone I monologhi di Sorrentino ‘O ciuccio ca vola Le lasagne La pizza come si fa a Napoli Pizzofalcone Maurizio de Giovanni Liberato La mano di Dio Un posto al sole L’amica geniale ‘O babbà Le comiche di Siani La pastiera napoletana La mozzarella napoletana Il ragù napoletano La lingua napoletana I napoletani napoletani La Napoli napoletana Le vongole veraci La gomorritudine Made in Sud Le borse fatte a mano in Cina e taroccate a Forcella Le cravatte di Marinella I fiocchi di neve di Poppella Gli abiti di Amadeus realizzati a Gricignano Il più grande supermarket della droga con sede a Caivano ‘O sistema – ‘o fierro – ‘i tarantelle Gli uomini tosti e le femmine belle Oh – che bellu café – sulo a Napule ‘o sanno ffa’ ‘O pesce fritto e ‘o baccalà
La cultura napoletana non è mai stata così al centro degli interessi nazionali come in questo periodo. Per certi versi, la Napoli narrata mi pare persino sovraesposta, nel sistema della comunicazione mediatica nazionalpopolare. Ma mi sembra una sovraesposizione inversamente proporzionale alla presenza della più grande città del Sud Italia nelle leve della politica di questo Paese.
(E lo so che c’abbiamo un paio di ministri campani, nel Governo Meloni; ma credo che entrambi abbiano pochi legami con la città e si siano formati a Roma o a Nord di Roma. Tra i tanti che Napoli la vedono attraverso le lenti di un telescopio. Come un incendio visto da lontano).
In ogni modo, per quello che mi riguarda e sento dal profondo del mio cuore partenopeo, va pure bene questo bagno nel pittoresco (quello che aborrivano e combattevano i Troisi e i Daniele); e poi Mare Fuori (il trend seriale del momento) lo sto seguendo anch’io con gusto e piacere (a parte certe sbavature di sceneggiatura e certi scivoloni nell’uso del dialetto); a mia discolpa, aggiungo pure che ieri ho fatto anche la lasagna e il migliaccio (che nei giorni di Carnevale è dovere e tradizione); nelle mie vene scorrono litri di vongole, ragù e mozzarella; li ho adorati e li adoro i Daniele e i Troisi; quando vedo certe cartoline con pino e vulcano sparse per la rete e le tivù, mi emoziono, mi commuovo, comincio a cantare come Murolo, Bruni e Fausto Cigliano…; MA mi piacerebbe che si cominciasse anche a parlare di lavoro, a Napoli e zone collegate: tipo il Big Maxicinema di Marcianise che chiude lasciando a casa 12 dipendenti. E i 12 dipendenti nel giorno di San Valentino scioperano impedendo la visione dell’ultimo film di Alessandro Siani prodotto da Lucisano, il quale, sia detto per chiarezza, è pure proprietario della multisala in via di chiusura che li lascerà senza lavoro. E poi, mi piacerebbe che si cominciasse a estendere il tempo prolungato nelle scuole del Sud; o che si facesse un serio dibattito politico sull’autonomia differenziata; o che si mettesse in moto un studio sulla sanità pubblica e privata nel Sud e sui relativi investimenti pubblici; o che si facessero ponderate e mirate indagini sui sistemi di clientele o sul trasferimento dei fondi delle mafie da Sud a Nord… Insomma, mi piacerebbe che si ricominciasse a mettere al centro dell’attenzione la questione meridionale oltre che la cultura di Eduardo, Saviano e Pulcinella.
Nei momenti più tristi e più intricati Lancio a caso tre tiri di dadi Non importa che il fato sia clemente Oppure dispettoso e intransigente Ciò che pesa e conta veramente è giocare senza pensare a niente Con il cuore assopito e la mente Che si mette in pausa e non sente Più cosa alcuna né niente di niente Sia sei o sia uno non cambia il destino Di questo giocatore indolente Che ora si sente Cecco e beve vino Per non pensare che non gli sei vicino
Son belle le rughe dei ricordi. Bisogna portarle con orgoglio. Ed anche le cicatrici vanno indossate a testa alta. Ma solo fino a un certo punto. Se la sollevi troppo, la testa, rischi che si riaprano i punti di sutura e ti può cominciare a volare sangue sulle scarpe nuove, quelle che avevi comprato per andarci come si deve, alla cerimonia della tua sepoltura.
Report della prima serata scritto da uno che non l’ha vista né sentita.
Ieri non l’ho visto Sanremo (la giustifica la porto domani), ma stamattina non riesco a rinunciare al vostro dopofestival.
Da quello che ho capito, Benigni ha fatto il giullare del presidente; il presidente è riuscito a restare sveglio nonostante la noia e l’età; Blanco ha fatto la parte hendrix-månneskiana del distruttore, interpretando il sentimento di tanti che si sono rotti il caxxo, incluso il presidente che per un attimo avrà sognato di essere anche lui su quel palco a calpestare fiori; Morandi ha scopato, che, alla sua età, pure è una notizia; i ragazzi, invece, fanno un sacco di mmuina e non scopano più; i Pooh hanno fatto i Pooh, ma senza più la voce dei Pooh; Elodie è bbona; Anna Oxa c’ha ancora la voce; Mengoni pure ce l’ha la voce di Mengoni; Ariete s’è persa, e mi dispiace, perché a mia figlia ce piace Ariete, e lei mi sembra pure una brava figliola; tanti cantano, ma nun sapene canta’, e se_ci_andavo_io_a_Santemo_…; Zelensky nun e’ venute, teneva ‘a guerra ‘ncapa; i testi sono sempre più brutti e insignificanti; le musiche sono sempre più brutte e insignificanti; il pubblico è sempre più brutto e insignificante; gli orchestrali sono sempre gli orchestrali, però le canzoni che, a furia di sentire e risentire, canteremo per una stagione sotto la doccia, al primo ascolto hanno fatto mediamente la palla alla gran parte degli ascoltatori in cerca di colpi di scena per cercare di non addormentarsi nonostante l’ora tarda e l’età; insomma, il festival ogni anno non è più quello di una volta, e anche noi, non siamo più quelli di una volta; ma, soprattutto, Chiara Ferragni s’è scritto il #monologo_da_sola (e si vedeva pure, da quanto ho sentito e risentito).
Tuttavia, quello che davvero conta e canta è che Sanremo è Sanremo, noi teniamo la Costituzione più bella del mondo: tutti possiamo esprimere il nostro pensiero liberamente in un vociare indistinto, un brusio, un coro in cui ognuno prende per oro la sua stecca e non fa niente se non si capisce niente, tanto cantiamo ma nessuno ci sente.
E io pure me la sono suonata, me la sono cantata e non ho detto niente.
E non l’ho neanche vista la prima serata del festival. Ma è come se l’avessi vista. Questa, quella di domani e quella dell’anno prossimo.
In attesa della nuova raccolta di racconti dell’Associazione ex Alunni del Liceo “Durante”
Ad un anno dalla pubblicazione di “Alle sue spalle – Grandi personaggi raccontati dalle loro donne“, sotto l’impulso dell’infaticabile professoressa Teresa Maiello, è in stampa un’altra raccolta di racconti a cura dell’Associazione ex Alunni del Liceo “Francesco Durante” di Frattamaggiore. Prima che sia pubblicato il nuovo testo posto qui il racconto dello scorso anno dedicato alle donne dei dodici apostoli di Cristo, divise tra il magnetismo del carisma del Maestro e la preoccupazione per i suoi strani discorsi che rischiano di allontanare i loro mariti da loro, dalle loro case e dai loro letti.
I Discorsi della Montagna
Ormai al suo seguito non c’era più solo una dozzina di discepoli.
Una folla vociante gli veniva dietro e ascoltava le sue parabole e i suoi insegnamenti salendo su per la montagna. Ognuno in attesa di un po’ di conforto, di una parola buona o di un altro miracolo.
A un certo punto, il Maestro si sedette su una roccia e alzò lentamente la mano come quando si chiede la possibilità di intervenire in una riunione di piazza. Tutti fecero silenzio e ascoltarono le sue prediche colme di speranza per i poveri, per i misericordiosi, per gli afflitti, per gli affamati di giustizia e per gli assetati di pace. Loro erano il sale della terra e la luce del mondo.[1]
Ma quel sale cominciò a farsi insipido e la luce ad affievolirsi quando l’uomo venuto da Nazareth, dopo una lunga pausa, iniziò a dire che dovevano porgere l’altra guancia e amare i propri nemici.
A un dato momento Ad un certo punto sostenne che se il loro occhio o la loro mano destra fossero stati causa di peccato, avrebbero dovuto privarsene e gettarli via, lontano da loro, perché è meglio che un membro perisca, piuttosto che tutto il corpo venga sprofondato tra le fiamme dell’eterna perdizione.[2]
Fu allora che quel gruppo di donne si allontanò per appartarsi dietro uno spuntone della montagna.
– No, no, basta, io non riesco più a seguirlo. Stanno diventando troppo estreme le sue predicazioni.
– Chiamate Maddalena. Voglio sapere se è vero che il suo amato Maestro ha detto in una pubblica piazza che solo chi era senza peccato poteva scagliare la prima pietra e che questo l’aveva salvata quando stavano sul punto di lapidarla.[3] Che ne è ora di quei principi?
– No, no, lasciatela stare quella sgualdrina. Lei ormai pende dalle sue labbra e segue ogni movimento della sua mano e del suo sguardo.
– Sì, ma, dico io, con quelle sante parole che salvarono quella puttana di Maddalena dalle pietre, lui non voleva farci capire che siamo tutti peccatori e, al tempo stesso, tutti meritevoli di perdono? E ora, tutto d’un tratto, parla di occhi cavati dalle palpebre e di mani mozzate… Non siamo noi ad essere cambiate. È lui che sta cambiando le carte in tavola da un momento all’altro.
– Può darsi, può darsi, però io penso che se ora dice altro, avrà le sue buone ragioni.
– Ma quali buone ragioni? Il nazareno va denunciato subito agli scribi e ai farisei, prima che si prenda tutti i nostri uomini e lasci le nostre case vuote e noi a bocca asciutta in un letto troppo grande per dormire da sole.
– Dai, ma che dici?
– Quello che dice è la pura verità. Mio marito Mattia sono settimane e settimane che non mi… conosce più.
– Infatti, infatti… Ma lo avete sentito l’altro giorno quando ha fatto quella orrenda esaltazione degli scoglionati?
– Come dimenticarlo? Ogni frase di quella predica mi è rimasta impressa nella memoria. In parole povere sosteneva che ci sono degli eunuchi che sono tali dalla nascita; altri eunuchi che sono stati fatti tali dagli uomini (quelli che gliele tagliano da piccoli, le palle) e ci sono degli eunuchi i quali si son fatti eunuchi da sé a cagion del regno dei cieli. “Chi può capire, capisca.”,[4] ha concluso, lasciandoci tuti sospesi e a bocca aperta.
– E sì, io ho capito, ma certo che ho capito. Questo sta facendo in modo che i nostri uomini si allontanino per sempre da noi.
– O che ci ignorino. Come se, d’improvviso, non esistessimo più.
– Li vuole tutti senza palle, tutti eunuchi e scoglionati. Come quel Giovanni che gli ronza intorno come una vergine in calore.
– Li sta riempiendo di chiacchiere, e qua di fatti non se ne vedono da mesi. Solo parole, parole, parole.
– Con la testa rivolta al regno dei cieli si dimenticheranno di tutto questo ben di Dio che li aspetta in terra.
– Ma perché, il fatto di mio marito non lo avete ancora saputo? Simon Pietro, che Dio lo benedica, gli dice: “Maestro, noi abbiamo lasciato tutte le nostre cose e ti abbiamo seguito”. E lui lo guarda negli occhi con quello sguardo incantatore e gli fa: “In verità in verità ti dico, non c’è nessuno che abbia lasciato casa o moglie o fratelli o genitori o figli per il regno di Dio che non riceva molto di più nel tempo presente e la vita eterna nel tempo che verrà”.[5]
Sono queste le parole con cui sta mettendo contro di noi i nostri uomini. È così che separerà i figli dalle loro madri e i fratelli dai fratelli. Questo santone va disquisendo dappertutto di vita eterna e di pace, ma vuole la guerra in ogni casa e in ogni famiglia.
– Taci, taci, figlia mia! Ma hai già dimenticato quella notte in cui il buon Simone gli chiese aiuto per me, che ero a letto febbricitante, e lui si precipitò in casa, mi toccò la mano e fece in modo che il male lasciasse il mio corpo e la pace regnasse per sempre nella mia anima?[6]
– Madre, io non ho dimenticato. Io non dimentico niente. Ed ero lì anche quando moltiplicò i pesci[7] e quando fece camminare quel morto.[8] Ma, capiscimi, ora sono io che resto ogni giorno senza cibo, morta e sepolta nel mio giovane letto di sposa. Tu ormai hai troppi anni addosso per capire…
– Sì, vecchia, tua figlia ha ragione. Forse la pace dei sensi aveva già raggiunto il tuo corpo quando lui venne e ti fece passare quella febbricola.
– Noi bruciamo.
– I nostri sensi ardono.
– Abbiamo un vuoto che da sole non potremo mai colmare.
– E poi con tutti questi eunuchi in giro, che ne sarà del popolo di Israele? Chi assicurerà una discendenza alle nostre case? Chi chiamerà te nonna e nonno tuo marito?
– È vero, è vero. L’altro giorno gli ho sentito dire: “Se uno viene a me e non odia suo padre, sua madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e persino la propria vita, non può essere mio discepolo”.[9] L’ho sentito con le mie orecchie, che Dio mi sia da testimone!
– Eccolo qua, il Maestro, viene, fa due miracoli, si proclama figlio di Dio e vuole provocare scompiglio nelle nostre povere case.
– Parla di amore per il prossimo e predica l’odio in famiglia.
– E sua madre?, lo sapete di sua madre, che andò qualche mese via dalla Galilea e tornò con quel bel pancione di gravida?
– Lo dici a me che sono una sua vicina?
– E ora il figlio di Maria di Nazareth viene qua, fresco fresco, e vuole parlare a noi di peccato e di adulterio…
– E si prende tutti i nostri uomini, si prende.
– Abbiamo il sacro dovere di difendere le nostre famiglie.
– Dobbiamo riportare a casa i nostri uomini.
– Nei nostri letti vuoti.
– Dai nostri figli.
– La deve smettere di riempirci la testa di fandonie e regni celesti.
– Donne, così non possiamo andare avanti. Dobbiamo trovare una soluzione.
– Sì, una soluzione per noi e la terra di Israele.
– Siamo il popolo di Dio, non possiamo farci sterminare da questo cialtrone.
Il giorno dopo si incontrano tra gli ulivi dell’orto del Getsemani.
La prima a prendere la parola fu la moglie di Simon Pietro. Sua madre, invece, aveva preferito restare a casa a prendersi cura del genero e del Maestro.[10]
– Allora, qualcuno di voi ha in mente un piano per liberarci del santone e riportare finalmente a casa i nostri uomini?
Sedute in circolo all’ombra degli ulivi, intorno al fuoco, come in un sabba, fecero mille ipotesi: pensarono di chiedere aiuto a Giuseppe e a Maria per frenare quello che consideravano un progetto per dissolvere le loro famiglie; pensarono di andare un paio di loro in missione e indurre il Cristo in tentazione; qualcuna ipotizzò perfino di usare Maddalena o Giovanni per fargli abbassare le difese, o di danzargli tutte intorno come Salomé con Erode Antipa;[11] una disse che avrebbero dovuto scambiarsi i loro uomini per ridare smalto alla passione sopita; un’altra voleva accarezzare il nazareno nel sonno e ungerlo di oli egizi; molte pensarono di catturarlo, di torturalo e di fargli confessare che era un impostore, oppure di fare la spia per venderlo ai farisei, agli scribi o, perfino, ai romani.
Mille e mille ipotesi, fecero, per riprendersi i loro mariti e togliersi quel presunto maestro di torno; ma, soprattutto, parlando parlando, sfogarono il loro livore e lasciarono correre a briglia sciolta le loro più segrete fantasie. In qualche modo, quell’incontro servì a farle sentire più tranquille e appagate. Senza proferire nessun’altra parola, decisero di dare una tregua ai loro propositi e tornare con il gruppo dei seguaci e non parlare con nessuno di quell’incontro segreto. Nel mentre, Giuda Iscariota, a pochi passi dal giardino, aveva già venduto il nazareno per trenta denari, rispondendo a quella che era l’imperscrutabile volontà del Signore.[12]
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[1] Cfr. Matteo 5:1-7
[2]ibidem
[3] Cfr. Giovanni 8:3-11
[4] Cfr. Matteo 19:11,12
[5] Cfr. Luca, 18,28-30
[6] Matteo 8:14,15
[7] Matteo 14:13-21, Marco 6:30-44, Luca 9:12-17, Giovanni 6:1-14