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Recensione dell’ultimo album del cantautore con nome da latin lover

Il Furore Composto di Porfirio Rubirosa

Un album, non una raccolta di canzoni venute fuori a cazzodicane nel tempo, ma un album composito e unitario come si faceva una volta. Il Furore Composto di Porfirio Rubirosa. Un concept album e un album concettoso assai – a tratti pure concettista – che in una mezz’ora abbondante, senza soluzione di continuità, senza pause tra una traccia e l’altra (salvo il passaggio dal lato A al lato B per chi compra la versione in vinile), racconta uno a uno i sette vizi capitali; ogni titolo un vizio in cui riflettersi e rivedersi un poco deformati come nelle specchio delle acque di un fiume che fluisce mentre restituisce l’immagine di noi e del mondo che ci gira intorno.

Di primo acchito mi viene da pensare a Non al denaro non all’amore né al cielo di De Andrè, chissà poi perché.
Forse per i titoli tutti preceduti da un articolo indeterminativo, forse per la copertina surrealdadaista, forse per la voce che scandisce in modo chiaro le parole, forse per l’unitarietà dell’intero album. Anche se lo so che Porfirio è più ciampiano e dylaniano (nel senso di Bob) che deandreano.

Ma lui, da buon dadaista, conosce la storia e pesca dappertutto, dai classici ai contemporanei, per tutto stravolgere e riproporre come i baffi attaccati sulla Gioconda o un cesso esposto in un museo. La sua è una poetica delirante, citazionista ed esperpéntica che ti restituisce una realtà deformata e illuminata da guizzi di intuizione che vengono da vicino e da lontano.

E infatti, appena lasci partire il disco, la stanza si riempie di una voce spiazzante che parla in greco antico; un po’ come le prime battute di Arbeit Macht Frei degli Area riempivano la stanza d’arabo e profumi d’oriente.
Quello che ascoltiamo è niente di meno che un testo di Omero, il primo degli aedi, il cantore dei cantori della cultura occidentale che ci parla della iubris, la superbia che scatenò la guerra di Troia. Ma non vi spaventate, il lamento di Tersite (lo “sfrontato”) dura meno di un minuto; dopo comincia Porfirio a cantarvi la perseveranza del vizio di Agamennone oltre duemila anni dopo le storia dell’Iliade e l’ira funesta che infiniti danni addusse.

Eccolo qua, dunque, Porfirio Rubirosa, il cantautore che ha rubato il nome a uno scapicollato diplomatico, pilota automobilistico e playboy latino (morto schiantato contro un albero a Parigi, con la sua Ferrari, dopo 5 ricchi matrimoni e decine di relazioni sentimentali che comprendevano nomi evocativi e incredibili come Marilyn Monroe, Dolores del Río, Ava Gardner, Rita Hayworth, Soraya, Kim Novak e Zsa Zsa Gábor), eccolo qua, il novello Porfirio che ci dà la sua versione contemporanea di Un superbo.
Una superbia della nostra epoca in cui ognuno si sente speciale perché ognuno può godere dei suoi warholiani 15 minuti di celebrità (“In the future, everyone will be world-famous for 15 minutes“).

Ci sentiamo tutti
Un po’ speciali
Con la paura
Di esser normali
Mia figlia alla primaria è
La prima della classe
Il mio bambino a calcio è
Un vero fuoriclasse
Sentissi come suona la pianola
Anche al mio cane manca la parola
[…]
Povera Italia
Nulla va dritto
Ci vorrebbe lui…
O il sottoscritto

Ma in fondo quella che regna è la paura, la paura di invecchiare dimenticati, la paura di non essere esistiti, di morire invisibili.

Ci sforziamo tanto
Di esser qualcuno
Per il terrore
Di esser nessuno
Come i vampiri
Fuggiam gli specchi
Nel desolato stillicidio
Del diventare vecchi

In un crescendo di schitarrate elettriche postpunk, la superbia sfuma nella seconda traccia che, a ritmo di valzer, scivola nel vizio comune di Un avaro roso da un’altra paura, la paura di non farcela ad affrontare un futuro sempre più oscuro e pieno di incertezze.

Ho paura del futuro
Di un licenziamento prematuro
Di finire sotto un ponte
[…]
La mia casa devastata da un ciclone
Rovinato dalla crisi del mattone
[…]
Ho paura quando vedo un mussulmano
Quando sento puzza di metano
Ho paura dell’ago di una siringa
Della spina in gola se mangio un’aringa
Ho paura della luce spenta
Di chi si fa ragione con violenza
Di chi è gentile e mi invita a cena
Per poi piantarmi una forchetta sulla schiena
[…]

Insomma, l’avaro è uno che ha paura di tutto e di tutti, perfino dei linotipisti, che sembrano venuti fuori direttamente dal mare profondo di Lucio Dalla; e allora, si rinchiude in se stesso e costruisce steccati, muri e barriere.

Ho paura di restare solo
Che rispuntino i contagi di vaiolo
Di morire di morte violenta
È per questo che non volo
E pertanto è meglio che non spenda niente
Che mi astenga da contatti con la gente

Subito dopo, con un atteggiamento uguale e contrario a quello dell’avaro, arriva Un lussurioso, uno che i contatti li cerca, tutti i contatti possibili, ma non si sa quanto reali o virtuali; come un hikikomori che consuma porno dal chiuso della sua cameretta in cui non esce più nemmeno per mangiare, e ci sciorina tutto l’elenco delle donne (reali o immaginarie) con cui ha consumato giornate e nottate d’amore.
L’elenco è gustoso e divertente. Fluisce in modo perfino scanzonato (anche nei versi più contundenti) fino a una coda che ci riporta dritti dritti su su fino a un orgasmo pinkfloydiano che cita senza pudore gli spasimi lirici di The Great Gig in the Sky (l’assolo vocale è di Sara Lupi).

Anna faceva l’amore con la luce spenta
Federica non godeva neppure se non era violenta
Chiara ripeteva ogni volta che il sesso è gioia
Margherita si eccitava soltanto se la chiamavi troia
E io
Io me ne stavo da dio
Come sui banchi di scuola
Nudo tra le lenzuola
Con Francesca l’ho fatto un’estate nel cesso di un treno
Schizzinosa come Rita, nessuna, non lo toccava nemmeno
Alessandra lo negava sempre, ma voleva dei figli
Sonia non si accontentava mai, e dispensava consigli

E così via, con Loredana che lo voleva in vesti da ufficiale nazista, Giovanna l’igienista che pretendeva che facesse sempre prima il bidet, Marta seguace del poliamore, Maria che si guardava allo specchio, Jenny che dopo piangeva, Eleonora e le sue manette e perfino un intermezzo di Marylin con la voce di Sara Lupi che sussurra Bye, bye Mister President.

Poi, restando sempre così, in equilibrio instabile tra la leggerezza e la profondità, Porfirio veste le vesti di Un invidioso, un odiatore seriale che esprime tutta la sua contrarietà verso gli intellettuali, la pioggia, il sole, i benpensanti, gli anticonformisti, gli ignoranti, “gli esseri pensanti, vivi, morti, donne, uomini”…

Odio proprio tutti quanti
Odio i vecchi ed il concetto che si stava meglio ieri
Tutti quanti gli incendiari c’han le tute da pompieri
Odio i giovani che godono nel dare dispiaceri,
Una cosa è certa, che si stava meglio ieri
[…]
Odio politici, tifosi, preti, santi, imprenditori,
attori, giudici, avvocati, odio pure i cantautori
Odio tutto, anche l’odio, odio pure il sottoscritto,
È una gara in solitaria in cui non esci mai sconfitto

Un odio che monta e si trasfigura nell’invidia seriale del social hater che passa la vita a vedere la vita degli altri che scorre su uno schermo piatto che gli fa da finestra e da specchio.

“Nel frattempo un nuovo vizio” e, così, “all’improvviso”, arriva Un goloso che mette in mostra il suo attaccamento per il cibo andando a spasso nel tempo, avanti e indietro, da Lutero a Carlo Magno e a Leone III, da Rabelais a Sartre a dal gourmet Auguste Escoffier a Dante ed alla sua condanna eterna per i peccati di gola.
Una ballad lenta e cullante arricchita da suadenti e insinuanti assoli di chitarra che non riescono a nascondere un vuoto incolmabile che nessun cibo riuscirà a soddisfare.

Ma di questo vuoto ne ho abbastanza
Che non lo riempie una pietanza
Mi squarto la pancia col taglierino
E poi mi estraggo l’intestino
In cerca di risposta e di speranza
Ma trovo solo cibo in abbondanza

In coda, il tenore Jacopo Pesiri canta il passo della Divina Commedia, dedicato a Ciacco, il goloso (Inferno, VI, vv. 34-75).

Non finisci neanche di digerirlo e già è la volta di Un iracondo.
Un brano lento e arpeggiato, persino commosso, sui rapporti familiari e l’influenza che hanno i vizi dei padri sulla vita dei figli.

Quel che si dice a volte in presenza di un bambino
Può minarne la vita, segnarne il destino
Se ora io sono, se sono quel che sono
Un’impalcatura di difetti che sostiene un uomo
Ti devo soltanto la mia ossessione
Di essere il contrario di te in ogni mia azione.

Uno dei brani più belli dell’album, se mi è concesso separare la parte dal tutto.

A seguire, dopo un bridge in cui si dichiara che il testo precedente era tutto un sogno, al suono incalzante di un ukulele in stile hawaiano, arriva l’ultimo pezzo del mosaico, l’ultimo vizio, l’ultimo peccato capitale, quello di Un accidioso.

Una bella ballata che racconta di una coppia di contadini, di un mulo e della gente accidiosa che dal bar li critica sia che in sella al mulo ci sia solo lei, sia che ci sia solo lui, sia che ci siano entrambi, sia quando decidono di non montarlo affatto, il mulo.
Alla fine, i due contadini decidono di fare del mulo un brasato ed abbandonare la vita dei campi per darsi anche loro all’accidia della vita di città. Ma è già lì una nuova coppia di paesanotti da criticare standosene seduti al bar del paese, o a casa, dietro lo schermo di un computer o di un telefonino.

I paesani sghignazzano al fresco dell’ombra di un muro scrostato fumando Muratti:
“Questi c’hanno il mulo e neppure ci salgono sopra…più scemi che matti!”
Ora la moglie è a casa alle prese col mulo, col mulo brasato
Nei campi l’erba ormai è alta, è tutto, è tutto abbandonato
Il contadino è sempre al bar con gli amici, con gli amici che beve
Poi un giorno un nuovo contadino, con la moglie ed il mulo, arriva in paese…



I sette vizi capitali finiscono qui.
Ma ti restano dentro tanti suoni e tante parole che dicono anche dei tuoi vizi e dei tuoi peccati, chiuso in una stanza che ti tiene sempre più appartato dal mondo e separato dalla realtà extravirtuale, con i suoi afrori, i suoi odori, le puzze, i suoni, i lividi, le carezze e i sapori. Con le sue gioie e i suoi furori antieroici e composti.



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Note pratiche

L’album, prodotto artisticamente da Fabio Merigo, si può acquistare in vinile o in CD, scrivendo all’etichetta Isola Tobia Label per riceverlo, con tanto di autografo di Porfirio Rubirosa, direttamente a casa, senza muovere il culo dalla sedia.

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