A Blanes, tra il Passeig de Cortils i Vielta e il Passeig de Dintre, c’è questo edificio modernista neoclassico (né bello né brutto, in verità) costruito negli anni ’20 del secolo scorso come centro culturale, sociale e ricreativo. Si chiama la Casa del Poble (la Casa del Popolo), ma durante il lungo periodo della dittatura franchista dovette cambiare nome e destinazione d’uso e fu chiamato Residencia de Trabajadores Luis Rodríguez Ballou.
Sulla facciata principale un richiamo ai valori repubblicani ed agli ideali democratici di igualtat, llibertat i fraternitat attraverso una scultura raffigurante la Marianne, tradizionale personificazione della Repubblica e della Rivoluzione Francese.
Tuttavia, più che sulla scultura, oggi lo sguardo cade su un enorme striscione che campeggia sul balcone e sulle insegne di un grande negozio che occupa tutta la facciata del piano terra. Lo striscione indipendentista e repubblicano definisce Blanes come un municipio della Repubblica Catalana in un Paese da 600 anni monarchico (salvo un paio di brevi parentesi storiche nell’800 e nel ‘900). Con tutta probabilità sono stati i militanti del partito Esquerra Republicana Catalana (dove esquerra vuol dire sinistra) a mettere lì quella scritta antimonarchica, visto che l’ERC ha la sua sede politica proprio nella Casa del Poble. Insomma, si tratta di uno dei molteplici esempi, tipicamente catalani, di insubordinazione allo Stato centrale espresso sulla facciata di un palazzo istituzionale.
Ma il bello è che il negozio che sta sotto lo striscione è del marchio Springfield, catena di negozi di abbigliamento appartenente al gruppo Tendam. Ora è il caso di spiegare che il gruppo Tendam è stato fondato nell’odiata Madrid alla fine dell’800 col nome di Cortefiel e, attualmente, nel settore tessile, risulta inferiore in fatturato solo alla Mango – di origine catalana – ed al megagruppo Inditex (quello di Zara, Bershka, Stradivarius, Pull and Bear, Tempe, Oysho, e Massimo Dutti, nato a La Coruña, in Galizia, e diventato in pochi anni il principale produttore di abbigliamento del mondo). Insomma, quando parliamo di Springfield e di Tendam stiamo parlando di una piccola e antica multinazionale dell’abbigliamento spagnolo e sovranazionale nata nel bel mezzo della penisola iberica. Quanto di più madrileno e globalista si possa immaginare. Altro che Cataluña sovrana, autonoma e repubblicana!
Insomma, al piano di sopra l’indipendentismo e il sovranismo catalano, al piano di sotto il centralismo di Madrid e la forza globalizzatrice del capitale. L’importante è che paghino l’affitto! La Catalogna è così. Piena di contraddizioni. Come me e come voi.
Da una parte, una civiltà post illuministica democratica, tollerante e solidale e, dall’altra, la ricerca spasmodica del benessere materiale e del profitto. Costi quel che costi.
La Catalogna tra democrazia, tolleranza, utilitarismo, indipentismo e sovranismo
Per la seconda volta in una decina di giorni, ieri, nell’hotel che ci ospita a Blanes, nel pieno della Catalogna indipendentista, uno spettacolo di danza flamenca. Come se fossimo in Andalusia, nel profondo sud della penisola.
Il popolo catalano è un popolo tollerante, democratico e civile, ma è anche un popolo concreto, capace di sfruttare i propri talenti e quelli altrui per farne mercato; un popolo pronto a vendersi tutto il vendibile per aumentare il proprio benessere materiale; fino agli estremi della gentrificazione che hanno trasformato interi quartieri popolari di Barcellona in zone spersonalizzate, piene di migranti e turisti, con conseguente aumento del prezzo degli affitti, degli immobili e dei beni di prima necessità. Lucía Lijtmaer, nel romanzo che sto leggendo in questi giorni di mare e rilassamento, osserva che già una ventina di anni fa Barcellona si stava trasformando in una grande Lloret de Mar…
“In due anni qui si è riempito di guiris [turisti stranieri] come se fosse Lloret, dice qualcuno, ed è vero, il centro è como la Lloret della mia infanzia, lo stesso odore di cipolla fritta e waffle riscaldato, lo stesso mare di pelli bruciate, la stessa sensazione di nausea e stordimento per la quantità di gente e sole, combinati, gente e sole, gente in scatole di latta, sole in scatola, la latta che ti brucia la pelle quando cerchi di sederti sul cofano di una macchina vicino alla spiaggia e tua madre ti diceva: togliti di lì, non vedi che ti stai per scottare, togliti di lì, ti dice ora il tuo istinto e non tua madre, ogni volta che scendi dalla ronda di Sant Pere.” [Lucía Lijtmaer, “Cauterio“, 2022, p.81. La traduzione è mia.]
Ma torniamo allo show Flamenco e alla capacità dei catalani di sfruttare a più non posso tutti i luoghi comuni del turismo iberico per farne una redditizia fonte di guadagno.
In Catalogna hanno abolito la corrida ed hanno trasformato l’Arena di Barcellona in un mega-centro-commerciale, eppure continuano a vendere tori di plastica a orde di turisti in cerca di sapori autentici e prodotti tipici e topici. In Catalogna si sentono altri dal resto della Spagna, ma poi, a ben vedere, è tutto un proliferare di ventagli, banderillas, chitarre, nacchere, paellas valencianas, sangría e gazpacho andaluso. A Barcellona e nel resto della comunità autonoma, hanno in spregio i “charnegos” (gli spagnoli che vivono in Catalogna, ma non sono figli di catalani), ma hanno catalanizzato Picasso, un genio di Malaga (Andalusia) vissuto per la maggior parte della sua vita in Francia.
Il finto tablao flamenco di ieri, che ho solo sentito da lontano perché la bambina non è voluta scendere e ha preferito tenere a sottofondo delle sue letture, è parte di questo sfruttamento mercantile dell’idea di Spagna sedimentata nelle teste degli stranieri che da due o tre secoli cercano la Carmen in ogni angolo o anfratto della penisola iberica (allo stesso modo in cui i gondolieri veneti cantano “‘O sole mio” e “Simme ‘e Napule, paisà” ai turisti tedeschi e giapponesi che questo vogliono sentire, per avere la sensazione di trovarsi in acque italiane e vivere le emozioni del popolo degli spaghetti, della pizza, delle tarentelle, delle mafie, dei Sorrentino, dei pulcinella e della camorra di Gomorra).
D’altronde, la relazione della Catalogna col flamenco viene da lontano. Già alla fine dell’800 proliferavano a Barcellona spettacoli di danza gitana in café chantant che spesso, non a caso, avevano nomi che si richiamavano alla realtà andalusa, come Café Sevillano, Café Concierto Sevilla e Café Concierto Triana. Tuttavia, è innegabile che, col tempo, si formò una vera e propria tradizione flamenca catalana. Carmen Amaya, una delle più grandi e innovative danzatrici di flamenco del secolo scorso, era una gitana nata a Barcellona nel 1913.
Questo attiene, insomma, anche alla capacità dei popoli mediterranei di assimilare culture estranee e lasciarsi contaminare dall’altro. La cucina catalana è un’ulteriore riprova di questa tendenza ad aprirsi a gusti, a prodotti e a sapori provenienti da mondi vicini e lontani.
Insomma, niente di male, per carità. Un po’ di flamenco, anche incelofanato, non fa male a nessuno. Anzi. A me piacciono pure i Gypsy King, gitani andalusi residenti in Francia che hanno inventato una versione pop e commerciale della rumba flamenca. Questa è una musica nomade, che probabilmente ha mosso i primi passi nella lontana India e poi si è andata mischiando con i suoni di mezzo mondo già prima di approdare tra Cordova, Siviglia e Granada. E da quel momento il processo di contaminazione e commercializzazione non è mai finito.*
Sento solo qualche nota stridente tra questa musica senza frontiere e la Catalogna autonomista, indipendentista, sovranista e (vivaddio) pure, sempre e comunque, antifa e antifascista.
Ma la Spagna e il mondo intero si nutrono di queste contraddizioni. E io pure, che sono del Mediterraneo e sento che questi e solo questi sono i tre colori della mia bandiera (insieme col giallo del sole, il verde degli ulivi e il rosso del sangue e della lava vulcanica).
“Mi contraddico“, “contengo moltitudini“. (W.W.)
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Se volete saperne di più del nomadismo del flamenco, leggete qua.
Il mare è di tutti. La Costa Brava tra pubblicità e pubblica realtà.
Scorcio di cemento con doccia pubblica.
A Blanes le docce pubbliche sono frequentissime e del tutto gratuite. Ce ne è una ogni centinaio di metri su un litorale privo di lidi concessi a privati e tenuto lindo e pinto dall’amministrazione comunale. È dato in concessione (a seguito di asta pubblica) solo l’affitto di ombrelloni e sdraio, che costano 6 euro ciascuno a giornata (da quello che ricordo è lo stesso prezzo anche nel Maresme, i poco più di 50 chilometri di costa che vanno dal Nord di Barcellona alla Costa Brava).
Blanes, scoglione con doccia pubblica.
La Costa Brava ogni estate (salvo nel periodo della pausa pandemica del 2020-21) ospita poco meno di 20mila stranieri e, in tutta la Spagna, prima del covid, le entrate derivanti dal turismo oscillavano tra l’11 e il 12% del PIL nazionale.
Anche a Blanes, tra giugno e settembre, arrivano migliaia di turisti, in maggioranza francesi, ma le spiagge non sembrano mai troppo affollate. Inoltre, i parcheggi pubblici sono gestiti perfettamente, il servizio di bus e i trenini turistici funzionano a meraviglia e gli automobilisti sono molto disciplinati (non ho mai sentito un clacson suonare né visto un veicolo sfrecciare in città o un’auto fuori posto; oltre al fatto che, prima ancora che imbocchi le strisce pedonali, loro si fermano già per lasciarti passare). Sul lungomare, ampli spazi per pedoni e biciclette. Ovunque grande attenzione per chi si muove a piedi (i semafori segnano i secondi per aspettare il verde; le strade scolastiche hanno il limite di 20 all’ora e sono chiuse al traffico veicolare negli orari di entrata ed uscita degli alunni). Il risultato è che, nonostante l’affluenza di stranieri, anche ad agosto non sembra esserci traffico o caos veicolare sia nel centro che nella periferia della città.
Il semaforo che segna i tempi di attesa.Strada a priorità pedonale.
Frequenti, invece, gli spettacoli nelle piazze e nei locali (frequentissimi e molto frequentati in ogni quartiere di Blanes). Ovunque, ville comunali con giochi, attività e attrezzature sportive per bambini e adulti. Biloteche aperte anche d’estate, schiere di bancarelle notturne, bar, pub e bodegas adatti ad ogni tipo di clientela.
Piazzetta davanti a una celebre birreria cittadina. I bambini giocano, gli adulti bevono e chiacchierano. Lo striscione autonomista ricorda che solo il popolo salva il popolo.
Ah, il mare è pulitissimo e la sabbia mischiata di minuscoli sassolini che rendono più facile pulirsi i piedi quando si lascia la spiaggia.
Dice: perché fai tanti chilometri per farti qualche bagno quando hai tanta costa balneabile in Italia? Dice…
P.s. Quando viaggiamo l’occhio fa la sua parte, e anche gli altri quattro sensi e la nostra sensibilità fanno la loro parte, insieme con la nostra enciclopedia personale, il nostro punto di vista sulla realtà e la cultura in cui siamo imbevuti. Per questo, al ritorno da un paese lontano o da un viaggetto fuori porta, ognuno di noi porta con sé un’altra impressione dell’esperienza vissuta. Le foto di due persone che hanno visitato gli stessi luoghi nel medesimo tempo non saranno mai le stesse foto. È il vizio imprescindibile della soggettività. Nessuno mangia mai lo stesso piatto, guarda lo stesso panorama o ascolta la stessa musica. Ecco, mi sono svegliato che volevo dire una cazzata e la volevo condividere con voi. L’ho detta. Ma sono certo che i vostri sensi, la vostra sensibilità e la vostra cultura la sapranno riempire di significato e daranno senso a queste mie povere e scarne parole nate in un bel giorno di mare e di sole.
P.S. In questi primi 15 giorni di agosto, la temperatura non ha mai superato i 30 gradi; un paio di volte ha anche piovigginato e, di notte, sarebbe utile anche avere un pigiama.
Dal 31 luglio sono a Blanes, con la piccola, in Costa Brava. Nel pullman dall’aeroporto del Prat all’hotel ci sono persone di ogni provenienza, ma si sente solo parlare napoletano. La solita orda di adolescenti convinti di venire a conquistare un popolo da cui è sempre stato soggiogato. In tutta l’ora e mezza del tragitto sbraitano, bevono, urlano e cantano, e in ogni frase, muggito o mugugno appare due o tre volte la parola Napoli o suoi derivati. Due o tre volte l’autista li riprende, ma loro continuano imperterriti a bere e a disturbare. Me ne vergogno. E non è solo vergüenza ajena. Mi vergogno proprio di essere italiano e napoletano come loro. Anche Stefania esprime la stessa vergogna e lo stesso disagio. Quando arrivo a destinazione mi scuso con l’autista in loro vece. Lui si mostra comprensivo e rassegnato. Sono anni che accompagna questi flussi scostumati di ormoni a Tossa e a Lloret de Mar. Per fortuna, vanno tutti negli stessi posti in cerca di droga, figa, cazzi e discoteche. Basta evitarli. Loro e i posti che frequentano. Spero che si divertano, comunque, senza fare troppi danni a se stessi e agli altri. Per fortuna, qui sono tutti abbastanza indulgenti con questa guagliunera. Come l’autista. Ma non so dire se sia più tolleranza o convenienza.
In ogni modo, dopo questo brutto avvio, i primi giorni di vacanza in Costa Brava scorrono sereni, allegri e senza incidenti. Il mare è bello, le passeggiate mostrano scorci incantevoli, la ricezione alberghiera è impeccabile e gentile.
Blanes
Alla partenza, non ho messo nessun libro in valigia. Ho deciso di comprare qui qualche romanzo da leggere in spiaggia, sul balcone o al rientro a casa.
“Blanes se parece a sus playas, en donde se tuestan cada verano todos los valientes de Europa, los de aquí y los del otro lado de los Pirineos, las gordas y los gordos, los feos, los esqueléticos, las chicas más guapas de Barcelona, los niños de todo pelaje, las viejas y los viejos, los enfermos terminales y los resacosos, todos semidesnudos, todos expuestos al sol del Mediterráneo y a la mirada comprensiva de la torre de San Juan, y el olor que se desprende de las playas (es bueno recordarlo ahora, en el largo invierno) es el olor de las cremas corporales, de los bronceadores, de las pomadas de protección solar, que huelen a eso, evidentemente, pero que también huelen a democracia, a historia, a civilización.” Roberto Bolaño, “La Selva Marítima” in El El País, Gennaio 2000.
“Blanes somiglia alle sue spiagge, dove ogni estate si mettono all’arrosto tutti gli arditi d’Europa, quelli di qui e quelli dell’altro lato dei Pirenei, le chiattone e i chiattoni, i brutti, gli scheletrici, le ragazze più belle di Barcellona, i bambini di ogni provenienza e aspetto, le vecchie e i vecchi, i malati terminali e gli sbronzi, tutti seminudi, tutti esposti al sole del Mediterraneo e allo sguardo comprensivo della torre di San Juan, e l’odore che sprigiona dalle spiagge (è bene ricordarlo ora, nel pieno dell’inverno) è l’odore delle creme corporee, degli abbronzanti, delle pomate di protezione solare, che odorano di quello che sono, evidentemente, ma che sanno anche di democrazia, di storia, di civiltà.”
La traduzione è mia. Il testo di Roberto Bolaño. Stamattina sono stato alla libreria Sant Jordi. La libreria che lo scrittore sudamericano frequentò negli ultimi anni della sua vita. Dal 1985 al 2003, Bolaño si stabilì qui a Blanes con la moglie e i due figli. Prima che gli arrivasse il successo che meritava aprì anche un negozietto di bigiotteria.
In sottofondo due frammenti di “Blind” dei Talking Heads (1988)
In una guida che gli ha dedicato l’ufficio turistico cittadino leggo che voleva essere ricordato “come uno scrittore surdamericano più o meno decente, che visse a Blanes, e che amò questo paesino” di 30.000 abitanti fondato dai romani duemila anni fa e poi frequentato da persone di ogni tipo e colore.
Blanes, vista dal Jardín Botánico MarimurtraApparizioni a Blanes
Nella libreria c’è ancora Pilar Pagespetit i Martori, con cui lui si intratteneva a parlare mentre vagava tra i libri. O almeno, dalla veneranda età che dimostra nel suo fisico minuto e curato, a me piace immaginare che sia lei. Le chiedo se hanno disponibile qualche testo di Ernesto Cardenal, poi mi metto a curiosare tra i libri ammucchiati in colonne in ogni angolo della stanza. Per un momento credo di aver osato identificarmi con R.B. Dopo una lunga ricerca scelgo un testo di recente pubblicazione di Lucía Lijtmaer, scrittrice quarantenne nata in Argentina e cresciuta a Barcellona. Avevo sentito parlare del suo acume sia come romanziera che come critica letteraria e specialista di studi culturali.
Nelle prime pagine la voce narrante immagina un suicidio e vagheggia un’inondazione di Barcellona provocata dal cambio climatico e dallo scioglimento dei ghiacciai polari. È una descrizione potente e delirante.
A un certo punto mi rivedo in queste parole che mi riportano sul bus dell’arrivo a Blanes.
” […] primero morirán los pobres, los taxistas paquistanís del Raval, las chicas filipinas de la panadería de la calle Sant Vicenç, la señora Quimeta y su mercería, los guiris de la Barceloneta, todos, absolutamente todos, los holandeses, los franceses, los ingleses y los italianos -nadie echará de menos a los italianos-.” Lucía Lijtmaer, “Cauterio“, 2022
Traduco, non senza essere di nuovo assalito dalle fiamme della vergogna.
” […] prima moriranno i poveri, i tassisti pachistani del Raval, le ragazze filippine della panetteria di calle Sant Vicenç, la signora Quimeta la sua merceria, i turisti della spiaggia di Barceloneta, tutti, assolutamente tutti, gli olandesi, i francesi, gli inglesi e gli italiani – nessuno sentirà la mancanza degli italiani.”
Oggi, 17 maggio, la chiesa, la tradizione e il culto cattolico celebrano San Pasquale Baylon, il frate francescano nato e morto in Spagna nel giorno della Pentecoste (1540-1592). Era di origini umilissime, Pascual Baylón Yubero; un piccolo pastore di pecore, diventato, in piena controriforma, pastore di anime e strenuo difensore del principio della presenza reale del Cristo nel sacramento eucaristico, che si voleva incarnato in ogni consacrazione attraverso le parole pronunciate dal sacerdote durante la messa. La fede incrollabile nella parola (“in principio era il verbo”) che Pascual aveva il bel coraggio di andare a sostenere fin dentro le case dei calvinisti francesi.
Oggi, però, San Pasquale, più che come patrono dei pastori e difensore dell’eucarestia, viene ricordato come protettore delle donne in attesa di un figlio o di un marito che non arriva. Ma da dove viene questa novella specializzazione verso il mondo femminile? È possibile che questo ruolo di santo sostenitore di donne insoddisfatte si sia sedimentato nella prima metà del ‘700, circa cento anni dopo la sua canonizzazione, proprio qui a Napoli e dintorni; da dove io scrivo ora. Pare che Don Carlo III di Borbone e sua moglie Doña Maria Amalia di Sassonia, visto che non riuscivano a dare un erede al Regno delle Due Sicilie, si rivolsero a un tale frate Serafín de la Concepción, e pare che questi consegnò ai monarchi una reliquia del santo spagnolo-aragonese. Passarono solo cinque giorni e già la regina sentì tre piccoli colpi nel ventre: poco meno di nove mesi dopo sarebbe nato il sospirato erede, il primo di 13 borboncini. Tuttavia, come osserva il mio amico Pasquale Vergara, è molto più probabile che questo Pasquale Bailonne protettore delle donne sia scaturito dalla facilità della rima in –onne, più che dai problemi di proliferazione dei re Borboni.
Infatti, nel sud Italia c’è tutto un affastellarsi di invocazioni e formulette magico-miracolistiche al santo in cui risuonano rime di questo tono e suono:
San Pasquale Bailonne, protettore delle donne, trovatemi un marito bianco, rosso e colorito. Come voi, tale e quale, o glorioso San Pasquale.
Non so quanti di voi ricordano che nel 1976 Luigi Filippo D’Amico diresse una commedia all’italiana intitolata: “San Pasquale Baylonne protettore delle donne”. Il film raccontava le peripezie di un tale Giuseppe Cicerchia, interpretato da Lando Buzzanca, che si proponeva come intermediario boccaccesco tra le donne e il santo. Ebbene, in una scene della commedia una processione di donne canta proprio una di queste celebri invocazioni (opportunamente reinventata):
San Pasquale Baylonne, protettore delle donne sei il più bello de li santi, ogni femmina accontenti.
San Pasquale Baylonne, protettore delle donne esaudisci le tante preghiere di chi figli ancora non può avere.
San Pasquale Baylonne, protettore delle donne, facce diventà più belle alle povere zitelle.
In America Latina, invece, la figura di San Pascual Baylón è associata soprattutto all’arte culinaria. Fin dai tempi delle prime colonizzazioni pare che le cuoche latinoamericane si rivolgessero a lui come “santo protector de los fogones y de los accidentes en las cocinas” (santo protettore dei fornelli e degli incidenti in cucina) e lo invocassero in formule di questo tipo:
San Pascual Baylón, báilame en este fogón. Tú me das la sazón, y yo te dedicó un danzón.
che traduco piuttosto liberamente:
San Pasquale Baylón, volteggiami tra i fornelli. Tu ci metti i mattarelli e io ti dedico un danzón.
(Nell’originale sazón sta per condimento; mentre il danzón è un ballo di origine cubana. In ogni modo, anche qua è probabile che tante invocazioni siano scaturite da questioni di rima; come ho detto anche prima.)
Per estensione, in molti Paesi di lingua spagnola, ogni volta che si desidera qualcosa ci si può rivolgere al buon Pasquale in questi termini:
San Pascual Bailón, San Pascual Bailón, … [Qui si dice quello che si desidera dal santo tipo: acaba con esa destrucción ovvero: falla finita con questa distruzione]. Si me lo concedes, te bailo un danzón o te canto una canción”.
Naturalmente, se il desiderio si compie, è d’uopo danzare e cantare così come promesso nell’invocazione. (Io direi di provarci.)
In Messico c’è chi assicura che rivolgendosi al nostro santo mentre si cucina (“San Pascual Bailón, ilumina mi sazón”), il piatto comincia ad assumere un aspetto appetitoso e arriva a piena cottura in tempi miracolosamente brevi. Similmente, in Colombia, si celebra una festa danzante in suo onore nella cittadina di Monguí caratterizzata dalla formula rituale:
San Pascualito, San Pascualito, tú pones tu granito y yo pongo otro tantito.
D’altra parte, anche in Italia, molti ricordano San Pasquale come il protettore dei cuochi e dei pasticceri e perfino c’è chi lo considera l’inventore dello zabaione. Una tradizione piemontese vuole che Pascual inventò questo dolce nella chiesa di San Tommaso a Torino, e, proprio per questo, i torinesi avrebbero denominato questa santa crema prima San Baylon e poi Sanbajon, fino ad arrivare all’odierno zabaione. Un’altra versione racconta che il Nostro portò la ricetta dell’uovo sbattuto con zucchero e vino passito dalla Spagna a Napoli e consigliò alle donne di prepararla per i loro mariti al fine di rinvigorirli e predisporli alle gioie dell’amore (soprattutto quando li trovavano un po’ pigri e inappetenti).
Sia come sia, pastore, predicatore, protettore delle donne, inventore dello zabaione, cuoco e pasticciere, a me piace ricordare di San Pasquale soprattutto questa frase tramandata di monastero in monastero e arrivata a me attraverso le maglie inesauribili della rete Internet:
“Nunca hay que negar el pan a nadie. Cuando hay generosidad y ganas de compartir, siempre se produce el milagro.”
“Non bisogna mai negare il pane a nessuno. Quando c’è generosità e voglia di condividere, sempre si ravviva il miracolo.”
E chesto e’. Con tanti auguri ai Pasquali, alle Pasqualine e pure a quelli che si fanno chiamare Paco o Paquito non sapendo che in Spagna questo è un diminutivo di Francisco, di cui ho già detto altrove e non mi voglio dilungare (si fa per dire).
I 15 secondi di musica che accompagnano questa mia clip li ho rubati ai DakhaBrakha, un gruppo musicale di avanguardia nato all’interno del Dakh, Centro teatrale d’Arte Contemporanea di Kiev.
Come vorrei che i DB potessero continuare a sperimentare il loro ethno-caos che pesca nel folclore ucraino con l’aggiunta di sonorità contemporanee e innesti della musica africana, bulgara e ungherese.
Una colomba con i colori di un eclectus, di un’ara o di un pavone.
Una colomba che resiste ingabbiata, ma deve tornare a volare.
L’immagine è una frettolosa rivisitazione di una celebre cartolina realizzata da Joan Mirò nel 1937 per raccogliere fondi per il fronte popolare, ai tempi della sanguinaria guerra civile spagnola.
La musica di sottofondo è un mio campionamento della tromba di Tom Harrel tratto dalla versione di “Silence” contenuta nell’album di Charlie Haden, “The Montreal Tapes: Liberation Music Orchestra” (1989).
I dubbi sono tutti miei e mi paralizzano la coscienza, anche se continuo a scrivere e a cazzeggiare con i segni e con i suoni. Perché non so fare altro.
E lo so bene, lo che 3 minuti sono tantissimi per voi utenti social(i)
Mia cugina Paola, la figlia di zio Gennaro, ha digitalizzato dei nastri video di tre decenni fa e me li ha girati. Stavamo tinteggiando la casa di suo padre. Era estate. Lavoravamo divertendoci e, in più, Gennaro ci dava pure qualche contributo economico per le vacanze in cambio di tanto trastullo produttivo. Oltre a lui e a me, imbiancavano la casa anche mio cugino Biagio e mio fratello Roberto (li vedete nel video. Erano quelli magri, a quei tempi. In verità, lavoravano soprattutto loro; io, più che altro, mi dedicavo ai filmati e alle colonne sonore; tanto che mi meritati il soprannome di Concetto, in quanto, come un impiegato di concetto, mi sporcavo raramente le mani; salvo quando si trattava di fare qualche video-tutorial o di fingere di pitturare). Qualche volta veniva anche Paola a darci una mano o… a girare qualche clip.
Visti ora, questi spezzoni mi sono parsi come dei TikTok di 30 anni fa. Ne ho montati tre o quattro e li ho messi qua come un documento del tempo che fu e un preannuncio di quello che è venuto dopo. Prendeteli per quelli sono e non biasimatemi per la mia modernissima mancanza di vergogna.
Oggi si festeggia Santa Teresa. Auguri a tutte le donne che portano il nome di Teresa d’Ávila (1515-1582), la religiosa biografa e poetessa; la figlia di ebrei convertiti che fondò l’ordine delle carmelitane scalze; la “monja inquieta y andariega”* che da giovane leggeva (come Don Chisciotte) romanzi di cavalleria; la mistica visionaria che amava Dio fino allo struggimento, fino al desiderio di morire per trovare unità col divino.
Vivo sin vivir en mí, y tan alta vida espero, que muero porque no muero.
Vivo senza vivere dentro di me, e così elevata vita spero, che muoio perché non muoio.
Bernini rappresenta Santa Teresa in estasi, una settantina di anni dopo la sua morte. Ma quelli più addentro alle cose della mistica e dell’ascetica specificano che più che di estasi dovremmo parlare di “transverberazione” (che orrenda parola), ovvero del cuore trapassato da una freccia lanciata da un’emanazione della divinità (l’angelo che le si para di fronte pronto a scagliare il suo dardo nel gruppo scultoreo di Bernini).
Hirióme con una flecha enherbolada de amor, y mi alma quedó hecha una con su Criador; ya yo no quiero otro amor, pues a mi Dios me he entregado, y mi Amado es para mí, y yo soy para mi Amado.
Mi ha ferito con una freccia avvelenata d’amore e la mia anima si è fatta una cosa sola con il suo Creatore; non voglio più altro amore, mi sono consegnata al mio Dio: il mio Amato è per me, e io sono per il mio Amato.
[La traduzione è mia.]
Fatto sta che questo amore così languido e totalizzante ha irretito tanti critici e cultori dell’arte, anche non cattolici, e intrigato antropologi, erotomani, psicologi e psicoanalisti. Oltre ad aver ispirato artisti dell’estasi di ogni epoca. Come Brassaï (pseudonimo del fotografo ungherese Gyula Halász) che nel 1933, in piena Parigi surrealista, scattò questa foto “estatica”, che ritroviamo anche al centro di un montaggio fotografico realizzato, sempre nel ’33, da Salvador Dalí per il primo numero della rivista “Minotaure”.
* La definizione di “monja inquieta y andariega” (monaca inquieta ed errabonda) si deve ad un acerrimo nemico di Teresa Sánchez de Cepeda Dávila y Ahumad (a.k.a. Teresa de Ávila, a.k.a Teresa de Jesús), tale Filippo Sega, nunzio apostolico di origine bolognese e suo contemporaneo, che, con queste parole, voleva renderla antipatica alla cristianità; ma, per quello che mi riguarda, sortisce l’effetto contrario.
Stamattina, leggendo un racconto inedito di Ermanno Dodaro, mi sono venuti in mente questi versi letti o sentiti da qualche parte da bambino:
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Forza, padrone, spaccami la groppa! Non hai capito che la soma è troppa? Se non capisci quel che intendo io, chi di noi è l’asino, tu o io?
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Pensavo fossero di Trilussa (1861-1950). Ma poi mi sono reso conto che li avevo modificati io nella mia memoria da una filastrocca del secolo scorso di Lina Schwarz (1876-1947). L’originale, poi, fin dal titolo, si riferiva a un cavallo, non ad un asino.
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*Pensa il cavallo*
Picchia, padrone mio, picchiami pure! Tu lo vedi, fo tutto quel che posso: punto le zampe, tendo le giunture… ma che serve, se il peso è troppo grosso?
Picchia, padrone mio, spaccami la groppa! Non hai capito che la soma è troppa? Se non capisci quel che intendo io, chi di noi è la bestia, padron mio
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Va be’, scherzetti della memoria. A me, però, continua a piacere di più la versione asinina dei miei ricordi.