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((( aitanblog )))

~ Leggendo ci si allontana dal mondo per comprenderlo meglio.

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Archivi della categoria: da lontano

Venezia mi ricorda istintivamente…

13 mercoledì Nov 2019

Posted by aitanblog in da lontano, musiche, recensioni, vita civile

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alloisio, Guccini, Venezia

Il brano di Gian Piero Alloisio portato al successo nel 1981 da Guccini nell’album “Metropolis“, l’ultimo vinile del maestrone che ho comprato e consumato.

Alloisio, invece, l’ho incrociato tanti anni fa fuori il teatro Politeama di Napoli, dove c’era un concerto di Gaber.
Una persona squisita, simpatica e dotata di fine ironia. Alloisio, intendo.

Venezia, infine, è il ricordo più intenso dei miei 18 anni, compiuti là, perdendomi tra le calli, in direzione contraria al flusso incessante dei turisti. Accompagnavo malamente alla chitarra un gruppo di sudamericani. Intorno a noi si faceva la folla sui ponti, fuori dalla stazione e in piazza San Marco. Con i soldi che raccimolavamo compravano il vino e lo condividevamo con chi ci ascoltava cantare “Mais que nada“, “Gracias a la vida” e “La Fiesta de San Benito“… Eravamo in lotta continua con le pattuglie protoleghiste dei vigili. Mangiavamo quando potevamo e dormivamo sull’asfalto di Santa Lucia. Jehová arrotondava facendo ritratti ai passanti. L’ultima stagione dei maledetti saccopelisti selvaggi che invadevano la città. Ci svegliavano alle 6 del mattino con gli idranti.

La penultima volta tornai a Venezia quattro o cinque anni dopo, di passaggio, per il concertone dei Pink Floyd che segnò la fine del turismo giovanile a Venezia. Venivo da Granada. Organizzarono un’area fuori città per chi non aveva un posto per dormire.
A quei tempi l’acqua alta tutt’al più lambiva le caviglie.

La prima volta c’ero stato con mio padre in un viaggio verso Trieste.
L’ultima volta dormivo di nuovo in un albergo e Venezia mi diede fastidio. Come bere in un bicchiere di cristallo con la paura che si frantumi nelle tue mani. E non riuscivo più a sentire il sapore buono del vino.

Poi sono arrivate le orde dei crocieristi e l’acqua altissima di questi cambiamenti climatici.
Eppure, pare che il punto più alto si sia raggiunto nel 1966. L’anno in cui venni al mondo. Piuttosto lontano da Venezia, in verità.

La candela di Mustafà

23 mercoledì Ott 2019

Posted by aitanblog in da lontano, idiomatica, riflessioni, vita civile

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Atatürk, Maestri, Turchia

Una decina di anni fa mi trovavo in Turchia per uno scambio culturale e mi capitava spesso di sbellicarmi dalle risate insieme con il collega galiziano ascoltando le massime attribuite al SuperPredidente Mustafa Kemal Atatürk e riportate in vita da maestri di scuola, autorità cittadine e sottoministri.
Frasi di sconcertante banalità ripetute per cento anni e presentate come verità rivelate. Perle del tipo:
“Il mare è importante per la Turchia.”
“Se piove e non si ha l’ombrello, ci si bagna.”
“La sovranità appartiene al popolo.”
“Quando si attraversa la strada si deve guardare a destra e a sinistra.”
(Bisogna però dire che né io né Fernando conoscevamo il turco e non escludo che sia stato il passaggio alla lingua inglese ad aver svilito l’alt(r)o senso di quel pensiero.)

In ogni modo, per i turchi Atatürk è ancora il padre della nazione e, se sapessero che a Napoli si mastica e sputa un’imprecazione eufemistica che, per evitare riferimenti diretti al Padreterno, se la prende con Lui, ci dichiarerebbero guerra e punterebbero a decimarci come dei curdi o degli armeni pericolosi ed eversivi.

Il maestro candela - [Immagine trovata in rete, ne ignoro l'autore che conserva tutti i diritti]

Fatto sta che anche un orologio fermo porta l’ora esatta due volte al giorno. Così, in mezzo a tante corbellerie attribuite all’eroe nazionale della Turchia, c’è pure questa massima che conservo tra le migliori citazioni che ho mai sentito sul mio mestiere, una frase da incorniciare (ben funzionante anche in inglese o ritradotta in spagnolo o in gallego):

“Un buon insegnante è come una candela, si consuma per illuminare la strada per gli altri.”

È una considerazione che sento molto vicina, perché ho sempre pensato che la mia funzione formativa consista fondamentalmente nell’aiutare le nuove generazioni a diventare autonome e responsabili.
Un buon insegnante insegna come imparare, e quando gli alunni hanno davvero imparato a muoversi da soli, la sua guida diventa inutile; dopo tanto lavoro, può finalmente rintanarsi in un angolo e sparire; si spegne come si spegne una candela che ha fatto già il suo tempo e svolto la sua illuminante funzione.

Detto in altri termini, immagino che ogni buon maestro abbia a disposizione un suo pacchetto di candele formato famiglia. Esaurita la cera, i ragazzi si allontanano portando con sé un po’ di quella luce e, in alcuni casi, facendosi loro stessi candela, mentre lui ne accende una nuova per un altro gruppo.
Ma non esistono pacchetti inesauribili né fiamme che non si spengono mai. A un certo punto si esaurisce tutta la cera a nostra disposizione e, per i più fortunati, comincia la pensione (altri, anche nella quiescenza, conservano ancora qualche candela in un cassetto e continueranno a illuminare il cammino di chi gli sta intorno fino al loro ultimo giorno della loro esistenza. Sono Maestri di vita destinati a restarlo a vita).

“A good teacher is like a candle – it consumes itself to light the way for others.”

Parimenti un popolo maturo non ha più bisogno di un Atatürk da citare a ogni piè sospinto e da mettere nell’ultima pagina di tutti i libri scolastici con un inno che sembra una preghiera al nume tutelare della patria. Una volta che il suo popolo si è fatto popolo, diventa inutile il suo insegnamento e ogni individuo porta da sé la sua luce insieme al vago ricordo del luci-fero che gli illuminò il cammino.

Mannaggia ‘o Pataturk!

La realizzazione dell’utopia e il cuore civile di Milton Nascimento

26 giovedì Set 2019

Posted by aitanblog in da lontano, idiomatica, musiche, recensioni, vita civile

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civile, Milton

Voglio l’utopia, voglio tutto e di più.
Voglio la felicità negli occhi di un padre.
Voglio l’allegria, tante persone felici…
Voglio che la giustizia regni nel mio paese.
Voglio la libertà. Voglio il vino ed il pane.
Voglio essere amicizia. Voglio amore, piacere…
Voglio la nostra città sempre piena di sole.
I ragazzi e il popolo al potere, voglio vedere.

San José di Costa Rica, cuore civile,
Ispira al mio sogno d’amore il Brasile.
Se il poeta è colui che sogna ciò che sarà reale,
È bello sognare le buone azioni che compie l’uomo
Ed aspettare i frutti nel cortile.

Senza più polizia, senza milizia né raggiri, dove sta il potere?
Viva l’accidia, viva la malizia che solo la gente sa avere.
Così, dichiarando la mia utopia, sto conducendo la vita mia.
Vivo molto meglio,
Nella spasmodica attesa di vedere che il mio sogno ostinato diventi realtà.

[Milton Nascimento, “Coração civil“, 1981.]

La traduzione, piuttosto libera, ma radicata nel testo originale, è mia.

Quero a utopia, quero tudo e mais.
Quero a felicidade dos olhos de um pai.
Quero a alegria, muita gente feliz…
Quero que a justiça reine em meu país.
Quero a liberdade. Quero o vinho e o pão.
Quero ser amizade. Quero amor, prazer.
Quero nossa cidade sempre ensolarada.
Os meninos e o povo no poder, eu quero ver.

São José da Costa Rica, coração civil,
Me inspire no meu sonho de amor Brasil.
Se o poeta é o que sonha o que vai ser real,
Bom sonhar coisas boas que o homem faz
E esperar pelos frutos no quintal.

Sem polícia, nem a milícia, nem feitiço, cadê poder?
Viva a preguiça, viva a malícia que só a gente é que sabe ter.
Assim dizendo a minha utopia eu vou levando a vida.
Eu viver bem melhor,
Doido pra ver o meu sonho teimoso, um dia se realizar.

Era il 1981. “Coração Civil” era la nona traccia dell’album “Caçador de mim“.
Milton Nascimento la compose a quattro mani con il poeta Fernando Brant, suo complice nella scrittura di oltre 200 canzoni che sono parte integrante della Música Popular Brasileira. Fernando e Milton, erano i Mogol/Battisti della MPB ed erano molto di più. Insieme con un collettivo di artisti che comprendeva, tra gli altri Lô e Márcio Borges, Wagner Tiso, Beto Guedes, Flávio Venturini e Toninho Horta, fondarono a Belo Horizonte (capitale di Minas Gerais) un movimiento musicale che prese il nome di “O Clube da Esquina“, il club dell’angolo. Erano gli anni ’60, in parallelo con i tropicalisti (Caetano Veloso, Gilberto Gil, Gal Costa, Tom Zé, Nara Leão, Rita Lee e Os Mutantes, Jorge Bem, Maria Bethânia…) la musica in Brasile stava cambiando.
“Nada ficou como antes“, niente restó come prima in quell’enorme federazione di Stati pieni di fermenti culturali, ma oppressi da una dittatura che durò fino alla metà degli anni ’80.
La bossa nova e il samba si incontravano con la musica pop britannica (soprattutto i Beatles), con la cultura hippy, i ritmi africani, il jazz e il jazz-rock, la psichedelia, la musica e l’arte di impegno civile…

“Coração civil” fu composta qualche anno dopo questi primi fermenti, quando ormai cominciava a intravedersi un processo di democratizzazione che preludeva alla fine della ventennale dittatura del Brasile.
Il riferimento al Costa Rica ed alla sua capitale (San José) è dovuto al fatto che questo piccolo Paese del Centro America è uno Stato di antica e salda democrazia e, dal 1948, è anche la prima nazione al mondo a non avere un esercito (con le caserme trasformate in musei e gli investimenti in armi deviati verso l’istruzione, la lotta alla povertà e la protezione dell’ambiente e del territorio):

Sem polícia, nem a milícia, nem feitiço, cadê poder?
Senza più polizia, senza milizia né raggiri, dove sta il potere?

Un’utopia realizzata, la concretizzazione del sogno di un poeta, perché

Se o poeta é o que sonha o que vai ser real,
Bom sonhar coisas boas que o homem faz
E esperar pelos frutos no quintal.

______

Al margine, in appendice…

Ascoltate anche questa versione tratta dal musical “Ser MINAS tão GERAIS“, un cui Milton canta con il gruppo teatrale Ponto de Partida e con il coro dei bambini di Araçuai.

Nella spasmodica attesa che il mio ricorrente sogno diventi realtà.

Il passato che non si cancella (da archive.org a splinder.it)

15 domenica Set 2019

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archivio, memoria, splinder


La memoria perenne del web mi fa ritrovare le pagine perdute di aitanblog.splinder.it/.com e tanto altro che credevo perduto. E io non so se sia un bene.


Nata in California nel 1996, Internet Archive (https://archive.org) è un’immensa biblioteca digitale, che custodisce e mette gratuitamente a disposizione di tutti i naviganti:

– milioni di libri in versione digitale (anche in connessione con biblioteche virtuali di mezzo mondo)
– software (da copie ISO di sistemi operativi in disuso a giochini “vintage” o a libera distribuzione)
– file audio (inclusi brani musicali)
– video (anche interi film)
– immagini (provenienti da centinaia di collezioni)
– pagine di siti web (anche scomparsi dalla rete).

Il suo obiettivo dichiarato è offrire la possibilità di un “accesso universale alla conoscenza”, il sogno, insomma, di una cultura libera e accessibile a tutti.

La parte più cospicua di questa sconfinata raccolta di dati digitali è l’archivio web (web.archive.org) costituito da una collezione di 377 miliardi di “istantanee” (snapshot) del World Wide Web archiviate secondo la data di acquisizione. Non si tratta, dunque, di semplici screenshot, ma di pagine dinamiche funzionanti in ogni loro aspetto; una risorsa importantissima per ritrovare siti scomparsi dalla rete o visualizzare i cambiamenti storici di siti ancora esistenti. In pratica, una macchina del tempo virtuale in cui, caricato l’URL di un sito sulla barra di ricerca del web-archivio, si scorre su un calendario la sua cache memory, visualizzando quello che quel giorno avrebbe visto chi vi avesse avuto accesso.


Ho messa alla prova questo sterminato contenitore di pagine web cercando la prima versione del mio blog personale ospitata sulla piattaforma Splinder.
Splinder fallì nel 2011 facendo sprofondare nell’oblio una parte cospicua della blogosfera italiana che, a quei tempi, era ancora molto attiva e vitale (nel 2011 Facebook non aveva ancora fagocitato il mondo dei blog: allora il social network di Zuckerberg & Co. si limitava a 7-800 milioni di utenti contro gli oltre due miliardi di oggi).
Il mio blog (tuttora attivo e resistente su wordpress) è stato ospitato da Splinder (prima nella versione splinder.it poi nella versione splinder.com) dal 2003 al 2011.
In questi anni le sue pagine sono state state “riprese” da archive.org una sessantina di volte, il che mi ha permesso di rivedere oggi aitanblog come era allora, con la formattazione scelta da me e tutte le immagini e i giochini (per lo più, in javascript) che caricavo; mentre nella migrazione che feci illo tempore su wordpress.com molto era andato perduto o risultava formattato in modo differente dalla versione originale.

Ho scelto, pertanto, di conservare qui il link delle pagine che mi sono parse più indicative (e meno ripetitive), anche al fine di attingervi per mettere ordine alla versione wordpress attuale (compatibilmente col tempo che non ho):

http://web.archive.org/web/20031213223726/http://aitanblog.splinder.it/
http://web.archive.org/web/20040206011639/http://aitanblog.splinder.it/
http://web.archive.org/web/20040414111434/http://aitanblog.splinder.it/
http://web.archive.org/web/20040526062359/http://aitanblog.splinder.it/
http://web.archive.org/web/20040614062307/http://aitanblog.splinder.it/
http://web.archive.org/web/20040814124138/http://aitanblog.splinder.com/
http://web.archive.org/web/20040924082746/http://aitanblog.splinder.com/
http://web.archive.org/web/20041128180318/http://aitanblog.splinder.com/
http://web.archive.org/web/20050201052329/http://aitanblog.splinder.com/
http://web.archive.org/web/20050207023756/http://aitanblog.splinder.com/
http://web.archive.org/web/20050305092135/http://aitanblog.splinder.com/
http://web.archive.org/web/20050408163130/http://aitanblog.splinder.com/
http://web.archive.org/web/20050606235408/http://aitanblog.splinder.com/
http://web.archive.org/web/20050716022127/http://www.aitanblog.splinder.com/
http://web.archive.org/web/20050929190354/http://aitanblog.splinder.com/
http://web.archive.org/web/20051124174523/http://aitanblog.splinder.com/
http://web.archive.org/web/20051210074450/http://aitanblog.splinder.com/
http://web.archive.org/web/20060219040426/http://www.aitanblog.splinder.com/
http://web.archive.org/web/20060614182413/http://www.aitanblog.splinder.com/
http://web.archive.org/web/20060721093604/http://aitanblog.splinder.com/
http://web.archive.org/web/20060831140307/http://aitanblog.splinder.com/
http://web.archive.org/web/20060914014444/http://aitanblog.splinder.com/
http://web.archive.org/web/20061004114504/http://aitanblog.splinder.com/
http://web.archive.org/web/20061208001219/http://aitanblog.splinder.com/
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http://web.archive.org/web/20070224232655/http://www.aitanblog.splinder.com/
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http://web.archive.org/web/20110826211701/http://aitanblog.splinder.com/
http://web.archive.org/web/20111006152059/http://aitanblog.splinder.com/
http://web.archive.org/web/20111103044248/http://aitanblog.splinder.com/


Una prova ulteriore che il passato, una volta pubblicato in rete, non si cancella e resta là /qua, a futura memoria, anche quando vorremmo liberarcene e tenerlo lontano dagli occhi indiscreti di questo eterno presente.


 

Il flamenco, l’arte universale dei gitani spagnoli (dal nomadismo all’accademia)

31 sabato Ago 2019

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flamenco, gitani, zingari

Discorso di presentazione a uno spettacolo di danza popolare andalusa e gitana de las hermanas Miriam y Sara Costanzo

Señoras y señores:

Mi metto su un piedistallo ed esordisco instaurando un parallelo tra me, seduto qui tra voi, e nientepopodimeno che Federico García Lorca, in piedi, nel 1933, in una sala di Buenos Aires.
In quella conferenza del tutto simile a questa Lorca sosteneva che si annoiava ad assistere a conferenze simili a questa; gli veniva voglia di aria e di sole e temeva che da un momento all’altro sarebbe arrivato “il terribile moscone della noia che infilza tutte le teste con un tenue filo di sonno e mette negli occhi degli ascoltatori sparuti gruppi di punte di spillo.” (García Lorca, “Gioco e teoria del duende”).

Lorca, Juego y teoría del duende (cubierta)
In parole povere, come il buon Federico, mi impegno a non farvi troppo la palla e a dire cose non del tutto banali. Ma più di questo non posso fare.
Comincerò, infatti, nel più noioso dei modi, leggendo quello che ho scritto un po’ in fretta qualche ora fa senza avere né il tempo di prepararmi a dirvi tutto a braccio né la possibilità di sintetizzare ulteriormente il mio intervento.


Ci sono musiche che hanno un impatto immediato sull’ascoltatore.
Appena le senti ti viene voglia di muovere il piede ed alzare il culo dalla sedia per ballare.
Ci sono canti che ti sconvolgono, ti fanno piangere, ti fanno ridere, pescano tra i tuoi ricordi. Non importa in che lingua li stiano cantando…, parlano proprio a te e di te.

Il flamenco fa parte di questa vasta e ristretta categoria di danze, musiche e canti che toccano corde sensibili di tutti gli ascoltatori. Non è un caso il fatto che si balli, si ascolti, si suoni e “si parli” flamenco dappertutto, dalla Russia al Giappone, dal Marocco alla Lapponia.


Suppongo che tutti vi siate ritrovati qualche volta a canticchiare “Djobí Djobá” o a entusiasmarvi per una pubblicità che mostrava il corpo nudo e danzante di Joaquín Cortés o a battere le mani al ritmo di una rumba gitana in un locale di Barcellona o in un villaggio turistico di Pescopagano.
Joaquín Cortés, semidio seminudo
Insomma, conta poco che siate persone favorevoli all’integrazione tra i popoli o razzisti inveterati. Il flamenco, comunque, non vi è estraneo.
Nemmeno se siete parte integrante dell’ampia maggioranza di italiani che non-sono-razzisti, ma-gli-zingari-però…

Ecco gli zingari… i rom, i sinti, i camminanti, i kalè residenti in Spagna da almeno sei secoli, los gitanos, i gitani, les gitanes che danzano sul pacchetto blu di una famosa marca di sigarette francesi…, è a loro che si deve l’invenzione, la diffusione ed anche la riformulazione in chiave moderna e contemporanea di questa musica e del “cante” e del “baile” che l’accompagnano.

pacchetto di Gitanes da 20

Fin dalle sue opache origini, il flamenco era espressione del popolo nomade dei romaní che durante le sue migrazioni attraversò l’Asia e l’Europa scambiando suoni, canti e passi di danza con i popoli del Medio Oriente, dei Balcani e del Mediterraneo…
E l’origine di quel popolo nomade è tanto misteriosa e opaca quanto quella del flamenco.
Probabilmente appartenevano a caste bistrattate che provenivano dal Punjab e dall’attuale Pakistan e che furono costrette al nomadismo da conflitti interni e dalla ricerca di migliori condizioni di vita. Non a caso ci sono tanti parallelismi tra la musica flamenca e quella tradizionale dei raga indiani. Anoushka, la figlia del grande Ravi Shankar, ha costruito melodie bellissime basate sui modi del flamenco fusi con le strutture musicali e gli strumenti della tradizione indiana.



In ogni caso, pare che dopo tante peripezie il popolo gitano emigrò dal Punjab all’Egitto per poi attraversare l’Europa e stabilirsi in terre meno ostili. (Quasi certamente il termine gitano viene da “
aegyptanus“, il che ha fatto anche ipotizzare una provenienza egiziana dei kalè spagnoli.)

Quello che è certo è che una parte di questo popolo in cammino si spinse fino all’estremo Occidente dell’Europa e divenne pressoché stanziale in Andalusia, territorio multietnico che restò tollerante con i gitani anche quando, nel 1492, furono espulsi dalla penisola iberica ebrei e arabi. Probabilmente, anche perché nel frattempo

los gitanos si erano cristianizzati e ancora oggi si devono loro alcune delle più caratteristiche manifestazioni della religiosità andalusa, come La Romería de la Virgen del Rocío (un pellegrinaggio che si tiene 50 giorni dopo la Semana Santa, nella provincia di Huelva).

La Romería de la Virgen del Rocío
Sento aleggiare sulle vostre teste il moscone della noia, ma mi sembrava necessario fare un po’ di storia di questo popolo senza storia. Anche perché sono convinto che una parte cospicua del fascino universale del flamenco derivi proprio dalla sintesi di elementi diversi che nel loro vagare di terra in terra questi gitanos andavano assumendo dai popoli e dalle culture musicali che incontravano nel cammino: canti bizantini e gregoriani, melismi della tradizione ebraica ed araba, strumenti asiatici e occidentali, chitarra spagnola, danze e percussioni indiane, balcaniche e magrebine…

Continue contaminazioni.

Benedetti contagi.
Musica che attraversa i confini e li annulla…

Ma veniamo alla storia più recente della musica popolare andalusa e gitana. Nella seconda metà dell’ottocento, la tradizione flamenca, inizialmente basata solo sul

baile accompagnato dal cante e dal battito delle mani (las palmas) si incontrò con una consolidata tradizione chitarristica. In questo stesso periodo si svilupparono a sud del fiume Guadalquivir tre “focolai” di evoluzione della musica flamenca, da cui nacquero tre distinte scuole stilistiche: Cadice, Jerez de la Frontera, e il barrio di Triana a Siviglia.
In seguito il flamenco cominciò a uscire dai campi gitani e a diffondersi prima nei “café chantant” e poi nei “tablaos” frequentati della borghesia spagnola e dai turisti in cerca di esotismo, passione latina e souvenir a pois bianchi, neri e rossi da incorniciare nella propria memoria.
Prende le mosse da qui la diffusione internazionale della musica di questi zingaracci andalusi. Cominciano a interessarsi al modo frigio del flamenco anche jazzisti del calibro di Charles Mingus, John Coltrane, Gil Evans, Miles Davis, Chick Corea, Michael Camilo… e a sua volta il flamenco comincia a contaminarsi con i ritmi sudamericani, in concomitanza con i flussi migratori ispanoamericani.



Insomma, la contaminazione continua al di là dell’EurAsia e produce nuovi frutti come lo splendido
Entre dos Aguas di Paco De Lucía, che nel 1975 fa sentire al mondo intero questa straordinaria rumba sospesa tra le acque dell’Atlantico e quelle del Mediterraneo, un meraviglioso palo de ida y vuelta, un flamenco di andata e ritorno.



Oggi si contano decine di “

palos”, ovvero di stili di flamenco differenziati in base alla melodia, alla tonalità, all’argomento trattato e al compás.
Il compás, a sua volta, è la sequenza ritmica che caratterizza i diversi tipi di palos. Di norma, viene “tenuto” con las palmas, le quali possono essere sorde, quindi realizzate creando un vuoto d’aria, oppure eseguite battendo le dita di una mano nella concavità dell’altra.
Alcuni palos sono accompagnati dalla chitarra, altri sono “a palo seco”, ovvero sono cantati a cappella, senza accompagnamento strumentale e con los bailaores che si accompagnano con palmas e zapateado, ovvero battiti di mani e scarpe che battono il tavolato di legno dando un ritmo ai movimenti sinuosi dei corpi (questo fa sì che i ballerini di flamenco siano sempre anche dei veri e propri percussionisti).



Ma ci sono anche palos senza accompagnamento di chitarra in cui sentiamo risuonare il suono di un martello percosso ritmicamente su un incudine. Si tratta di un tipo di

toná chiamato martinetes e nato forse come un canto di lavoro, visto che molti gitanos erano dediti alle attività di calderaio, fabbro e maniscalco ed erano pratici nell’uso dell’incudine e del martello.



Per fare un po’ di ordine nella varietà di

palos esistenti oggi, molti studiosi provano a distinguerli in due macrogruppi: quello del cante jondo (canto profondo), cui appartengono palos più antichi e malinconici che rappresentavano la condizione di emarginazione e sofferenza vissuta dai gitani, e quello del cante chico, basato su temi più leggeri, festosi e allegri.


Sara e Miriam si esibiranno in questo primo blocco in una alegrias lenta al compás di 12, un palo seco al compás di 4, un tango gitano al compás di 4 e una sevillanas in 3/4, tutti balli che attengono alla vena più gioiosa del flamenco.


Nel secondo blocco presenteranno brani di “flamenco fusion”, ovvero musica tradizionale gitana contaminata con musica strumentale e pop.
In particolare, le ammireremo in una coreografia basata sulla colonna sonora di Zorro, del compositore statunitense James Horner, e due brani dei Gipsy Kings (i monarchi del flamenco pop): ovvero lo strumentale Allegria e una versione aflamencada di My Way che nelle mani dei Re Gitani diventa A mi Manera.


Nel terzo blocco di balli avremo un saggio del fortunato incontro del flamenco con la musica classica. Ancora una contaminazione, benché cólta e accademica.
Confesso che in questo ambito le mie preferenze vanno all’opera autoctona di Manuel de Falla, ma Miriam e Sara hanno preferito lasciarci sulle aricinote note della Carmen di Bizet, un compositore francese trascinato dalla moda spagnola che imperversava tra gli artisti europei del Romanticismo.

In realtà, già nel ‘700 erano rimasti irretiti dai ritmi e dalle armonie della musica popolare andalusa autori del calibro di Domenico Scarlatti, Boccherini, Gluck e Mozart.

Ma fu soprattutto nell’800 e, segnatamente, in Russia e Francia, che esplose l’interesse della musica colta per il flamenco con autori come Debussy, Ravel, Rimsky-Korsakov, Tchaikovsky e, per l’appunto, Bizet, con la sua celebre opera ambientata a Siviglia di cui assisteremo ora a due quadri coreografici (la famosa habanera e una danza di stile aragonese). La Carmen è un’opera basata sul fuoco della passione, e sospesa tra eros e thanatos come piaceva ai romantici e come continua a piacere al pubblico di oggi. Un’opera senza mezze misure, tutta vestita di rosso e di nero.



Speriamo che nell’interpretarla

las dos hermanas Costanzo siano prese di nuovo dal “duende”, dal “munaciello”, da quel demone “misterioso che tutti avvertono e che nessun filosofo riesce a spiegare”.
Proprio nella conferenza con cui ho osato esordire, García Lorca affermava che el duende è uno spirito che viene dalla terra e “sale interiormente partendo dalla pianta dei piedi”, un fuoco sacro “trasmigrato dai misteri greci nelle ballerine di Cadice”.
Il che conferma il carattere tutto terreno del flamenco, un ballo dionisiaco che punta i piedi al suolo ed è tutto basato sul ritmo e sulla fisicità degli interpreti, tanto quanto la danza classica occidentale tende a liberare i piedi dal suolo per rendere i corpi eterei, leggeri, apollinei e svolazzanti…

Vedete questo demone in azione in un gruppo di foto de las hermanas Costanzo realizzate da Rosario D’Angelo.

Nel balletto classico i passi sono codificati e le coreografie predeterminate, nel flamenco l’improvvisazione la fa da padrona. Anche perché “per cercare il duende non v’è mappa né esercizio”.
“I grandi artisti della Spagna meridionale, gitani o flamenchi, sia che cantino, ballino o suonino, sanno che non è possibile alcuna emozione senza l’arrivo del duende”.
“Il duende non si ripete, come non si ripetono le forme del mare in burrasca.”

Insomma, godiamocele queste onde e lasciamoci trascinare dal ritmo. Il flamenco non è fatto per rilassare la mente o fare da sottofondo. Il flamenco è fatto per scuotere e agitare. La sua essenza attiene più alla trance degli sciamani e al fuoco dei tarantolati che alla meditazione degli asceti. Per quella consiglio Debussy, il silenzio e Satie.

La calca siamo noi

08 giovedì Ago 2019

Posted by aitanblog in da lontano, musiche, riflessioni, vita civile

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calca, mare

(Ovvero, la ricerca di sé passa per te e per me nelle stesse spiagge dello stesso mare. Salvo eccezioni.)

Ti giri intorno a fatica; c’è tanta gente; mentre torci il tuo corpo ti incontri col corpo di un altro, di un altro e di un altro ancora; sgomiti, sudi, ti lamenti della calca; ma non ti accorgi che sei tu, la calca.


Tutti ar mare,
tutti ar mare
a mostra’
le chiappe chiare,
co’ li pesci,
in mezzo all’onne,
noi s’annamo a diverti’.


Tutti al mare, tutti al mare, la facciamo noi, tutti insieme, questa sudata calca balneare in cerca di sol-lazo, pax e sol-edad.
Eppure ognuno sogna di non incontrarla, la calca, che è come dire, non incontrare se stessi in mezzo a una marea d’altri se stessi percorsi dallo stesso sogno esclusivo di pace, intimità, gioia e solitudine.
Un modo come un altro per sentirsi diversi come tutti gli altri, stando tutti in mezzo a tutti gli altri. Ognuno in cerca di sé, come te e come me, e in fondo persi tutti dentro ai fatti nostri. La calca, la calca, appunto.

In ogni modo qui, quest’estate, in giro c’è meno gente di quanto pensassi. Molta di meno, in verità.
Dove è la calca?
Dove sono gli altri che siamo noi?
Dove siamo noi?
Verranno tutti a Ferragosto o si stanno accalcando in altri siti, in altre piagge e in altri lidi?

________

In sottofondo musica ambientale cinese in presa diretta.
Ma non siamo nell’isola di Hainan.

Fuga da Lisbona

09 giovedì Mag 2019

Posted by aitanblog in da lontano, riflessioni

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Lisbona

Sono stato rapito da Lisbona tra la fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90.
La prima volta ci sono stato poco prima dell’incendio del Chiado che cominciò a segnare un cambio e un ammodernamento della facciata della città.

Confronto i miei diari con le notizie della rete e ricostruisco che era l’88. Mi trovavo a Madrid per scrivere i primi capitoli della mia tesi di laurea e un bel giorno decisi di concedermi una vacanza dalla baldoria e dai bagordi turistici della movida spagnola. Pochi anni dopo, io e i miei amici degli ASA (Abusivi Spazi Acustici), avremmo cantato: “Fuggirò a Lisbona / Mi verranno a cercare”…
Arrivai alla Estação do Oriente di mattino presto, in pullman, ed ebbi subito l’impressione di trovarmi altrove. L’Europa, dopo gli anni ’70, stava diventando tutta uguale: stessi negozi, stesse metropolitane, medesimi centri commerciali e stessi manifesti pubblicitari a imbrattare i muri e le menti. Ma il Portogallo no, il Portogallo nella sua dignitosissima povertà non era così, si trovava altrove e ti faceva sentire in un posto differente da tutto il resto che veniva prima e dopo. Eri arrivato alla fine dell’Europa e di fronte all’estremo del fronte occidentale, e lo sentivi anche nell’aria che respiravi. Nessuno fuori da Lisbona e zone collegate conosceva ancora i Madredeus, e Wim Wenders non aveva messo ancora mano a Lisbon Story. La città non era stata ancora invasa da catene di fast food e multisale. Ogni quartiere aveva una sua personalità ben definita e i bar, le librerie e le salumerie erano popolate da persone del posto che erano in confidenza con i proprietari. Di turisti ce n’erano ben pochi; tanto più in comparazione con le orde di stranieri che assalivano Madrid.

Ci sono tornato più di una volta in Portogallo, fino al ’94, poi ho cominciato ad avvertire che qualcosa stava cambiando: i tram e i ristoranti erano affollati di stranieri (me compreso, of course), aumentavano i discopub e spuntavano dappertutto finti locali tipici dove ascoltare il fado, bere una bica, seguire le orme di Tabucchi, immaginarti Pessoa o mangiare pastéis de nata tra copas de moscatel e azulejos.
Quell’anno a Lisbona mi sono anche innamorato di un amore che mi ha fatto parlare portoghese per più di dieci anni, ma in Portogallo non ci sono più tornato. Avevo paura di confrontarmi con i miei ricordi.
Oggi leggo che Lisbona è una delle città più gentrificate d’Europa e del mondo. Sento parlare di una città e di un Paese invasi da capitali stranieri. È scoppiato il Lisboom e il Portogallo non sarà di certo più lo stesso, non sarà se stesso e sarà lo stesso di tanti altri luoghi di questo piccolissimo villaggio globale.
Neanche io sono più lo stesso, ma sono assalito da una profonda nostalgia che ha il sapore dolce e salato delle acque del Tago e delle lacrime compiaciute e strazianti di un fado suonato in un localaccio del Bairro Alto. Se non avessi paura delle parole maiuscole parlerei di Sehnsucht e di Saudade.

Anniversario di periferia

23 domenica Set 2018

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blog

In un giorno come questo nacque ((( aitanblog ))).

Questi erano i post di settembre del 2003.

https://aitanblog.wordpress.com/2003/09/

Ma ho visto che nel passaggio dalla piattaforma italiana di Splinder (che ha ospitato i miei “sbariamienti” fino al 2012) a quella mondiale di WordPress (ancora attualmente attiva e vegeta) mi sono perso il disegnino che illustrava il mio secondo post. Magari, quando ho un po’ di tempo, faccio una ricerca sul PC per cercare di capire di che si trattasse.

Ritenta, sarai più fortunato!

10 martedì Lug 2018

Posted by aitanblog in da lontano, idiomatica, vita civile

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try again

“Ever tried. Ever failed. No matter. Try again. Fail again. Fail better.”

(Samuel Beckett “Worstward Ho”, 1983)

Ritenta, sarai più fortunato!

Era la scritta che c’era sulle gomme masticanti scadenti che compravamo a 10 lire l’una nei negozietti improvvisati nei bassi di palazzine cadenti di Via Roma e Via Cumana, quelli che vendevano fionde, soldatini, pazzielle, ciociole, botticelle, gomme e caramelle. Sulla carta, potevi vincerne un’altra. Ma normalmente le scartavi, ti affrettavi a leggere e trovavi sempre la stessa scritta: “Ritenta, sarai più fortunato”.
Nel mentre ti trovavi con la lingua rosa, le papille impastate da zuccheri e sciroppi sintetici e la mascella che si muoveva in modo sguaiato e pareva non potersi più fermare.
Ogni tanto facevi anche un palloncino e qualche bambino più piccolo ti invidiava, perché lui non sapeva ancora fischiare né trasformare la materia in globi trasparenti che crescevano a vista d’occhio. Tu abbassavi lo sguardo alla sua altezza, inarcavi le sopracciglia, lo fissavi severo e pareva che stessi lí lí per dirgli: “Ci hai provato. Non ci sei riuscito. Ritenta. Fallirai di nuovo. Fallirai meglio…”. E infatti la sua sfortunata bocca continuava a fare fetecchie e sembrava che sarebbe stato così fino alla fine del mondo, fino alla fine dei tempi.

________

P.s. Mentre pubblico, mi viene in mente che nelle gomme di Rin Tin Tin la scritta era diversa, molto più icastica e semplificata. Si leggeva solo, tutto in maiuscolo: NON HAI VINTO.
Molte volte abbiamo ritagliato con cura quel NON e, a furia di tentare e ritentare, qualche volta, con la vecchina che chiamavano ‘a spurtellara, ci è andata anche bene.
Ma ora mi viene il sospetto che lei, che vedevamo così burbera negli abiti neri e i capelli lunghi e arruffati, facesse finta di non accorgersi della nostra maldestra truffa ai danni di Rin Tin Tin.
Che Dio l’abbia in gloria! A lei e a Rin Tin Tin.

Non temo il Salvini in sé, ma il Salvini che è in te e in me.

19 martedì Giu 2018

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razzismo

Miguel de Unamuno, scrittore spagnolo liberale e conservatore, sosteneva che “il fascismo si cura leggendo e il razzismo si cura viaggiando.”
Forse è proprio qui il punto. Ormai sono rimasti in pochi a leggere testi più lunghi di un SMS, un WhatsApp o un post su Facebook e i viaggi…, i viaggi si fanno in spazi artificiali che annullano le differenze e appiattiscono il mondo; spazi in cui lo straniero lo incontri solo per farti portare il caffè o pulirti la stanza.

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