quaranta anni di canzoni stonate e musiche fuori tempo
La chitarra è una chitarra di battaglia. Me la regalarono i miei genitori quando avevo 14 o 15 anni. È una chitarra classica economica, ma non indecente. Una Giannini. Uno strumentino di origine brasiliana. Fin dai primi giorni in cui provavo ad accompagnarmi per cantare Lolli, De Andrè, Guccini, Dalla, Bennato (Eugenio ed Edoardo), Branduardi, Murolo, Pete Seeger e Bob Dylan, mia madre mi diceva: “Gaita’, Gaita’, sona, ma nun canta’!“. Non sono mai stato intonato, ma magari se non fossi stato inibito fin dai primi tentativi di accennare un canto, oggi avrei potuto cavarmela almeno un po’. Pare che nessuno sia stonato fino in fondo e che con un po’ di esercizio e la guida giusta… Boh!? Non so. Da allora ho comprato o ricevuto in dono decine di strumenti e strumentini apprendendone almeno vagamente la tecnica (una ciaramella, altre chitarre, un ukulele, un guitalele, una tromba, una fisarmonica, un salterio, un sax soprano, un sax elettronico, una tastiera, un flauto traverso, varie ocarine e flauti etnici, un duduk, un re.corder, piccole percussioni, nacchere, un paio di armoniche, una diatonica, mini-marimbe, flauti di Pan e xilofoni). Ma sono diventato soprattutto un ascoltatore compulsivo e un buongustaio onnivoro. Mentre desafinado lo sono restato, per sempre. (Chiaramente quella di buongustaio è una definizione soggettiva e compiacente. Quella dell’essere onnivoro è una certezza. Ragion per cui, trovo del buono in tutti i generi di musica e in tutte le generazioni di musicisti. Ma in tutti i generi e le generazioni trovo anche un sacco di fuffa inascoltabile). Poi, di tanto in tanto, torno pure a strimpellare e mia figlia, puntualmente, mi fa: “Papà, papà, parla, parla, ma nun suna‘!”.
E c’aggia ffa’? È destino. M’aggia ‘sta zitto e nun pozzo manco cchiu’ stuna’!
Ogni tanto, però, mi chiudo in stanza e mi metto segretamente a suonicchiare e a mugugnare qualche melodia. Soprattutto standard di jazz, canti di protesta sudamericani e classici della bossa nova e del tropicalismo brasiliano. E, occasionalmente, qualche volta mi registro e oso postare in giro queste sconcezze qua.
Versi naïf in versione ispano-italiana e coda inglese.
Versos naif en versión hispano-italiana y final en inglés.
Naïve and occasional verses in Hispanic-Italian version and English ending.
Verso l’8, m’arzo!
A me la giornata della donna fa venire in mente mio padre, che una volta all’anno portava il caffè a letto a mia madre, decretando, così, che per i restanti 364 giorni del calendario fosse lei a portare il caffè a letto a lui. Scrivo la stessa cosa ogni 8 marzo, questa volta mi sono anticipato con l’aggiunta di questi versetti d’occasione
Mujeres fuertes, luchadoras incansables, que alzan su voz y rompen las barreras, Mujeres que desafían la opresión y el dolor y no se rinden ante las bridas del poder.
Mujeres tenaces que luchan por sus sueños, Mujeres de cabeza levantada, mirada firme y corazón valiente que trabajan duro y nunca se detienen.
Mujeres que han conquistado el mundo con un talento que ha quebrantado límites e incomprensiones.
Mujeres que lo saben que aún quedan muchos pasos por recorrer para que todas puedan triunfar y derribar barreras viejas y nuevas prescripciones.
Mujeres que quieren silenciar, Mujeres con derechos negados, Mujeres violadas, engañadas y maltratadas.
Mujeres que no se rinden y no se rendirán hasta que todas sean libres, el pelo al viento y la posibilidad de expresarse sin reglas y restricciones.
Donne forti, combattenti instancabili, che alzano la loro voce e rompono le barriere, Donne che sfidano l’oppressione e il dolore e non si arrendono di fronte alle briglie del potere.
Donne tenaci che lottano per i loro sogni, Donne a testa alta, lo sguardo fermo e il cuore coraggioso, che lavorano duramente e non si fermano mai.
Donne che hanno conquistato il mondo con un talento che ha infranto limiti e incomprensioni.
Donne che sanno che ci sono ancora molti passi da percorrere perché tutte possano trionfare e abbattere vecchie barriere e nuove prescrizioni.
Donne ridotte al silenzio, Donne con diritti negati, Donne violentate, ingannate e maltrattate.
Donne che non si arrendono e non si arrenderanno finché non saranno tutte libere, i capelli al vento e la possibilità di esprimersi senza regole e restrizioni.
Women silenced, Women with denied rights, Women raped, deceived and abused.
Women who do not give up and will not give up until all are free, with hair in the wind and the possibility to express themselves without rules and restrictions.
Un mio vecchio miniracconto spagnolo in versione audio
Cercavo in rete una mia minificción e mi sono imbattuto in questo podcast della UNAM (Universidad Nacional Autónoma de México) della serie “Escritores en su tinta” (“Scrittori nel loro inchiostro”, come i polpi in una famosa ricetta spagnola). È una bella lettura di un mio racconto brevissimo che fu pubblicato nel 2004 sulla rivista settimanale della Jornada, uno dei più popolari quotidiani messicani.
La cabeza del ratón se meneaba entre los dientes puntiagudos; las patas de atrás, fijas en el suelo, intentaban retroceder, mientras la tremenda fuerza de la sierpe lo atraía inexorablemente hacia adentro. En la lucha, el pequeño animal parecía estirarse y crecer a medida que la cobra lo envolvía en sus terribles fauces.
Ahora el roedor había sido engullido por completo en aquella oscura cavidad pulsátil, pero se podía aún adivinar el perfil del cuerpo que se sacudía entre la piel tiesa de la cobra.
Al final, la sierpe torció los ojos hacia el cielo y se abandonó a un dulce deliquio, mientras el ratón salía triunfante de su boca en busca de otra presa para destripar.
E questa è una traduzione che ho fatto oggi, una ventina di anni dopo…
L’aspide e il topo
La testa del topo si dimenava tra i suoi denti acuminati; le zampe di dietro, ben piantate per terra, cercavano di indietreggiare, mentre la tremenda forza dell’aspide lo attirava inesorabilmente verso l’interno. Nella lotta, il piccolo animale sembrava allungarsi e crescere a mano a mano che la serpe lo avvolgeva nelle sue terribili fauci.
Ora il roditore era stato completamente inghiottito da quella oscura cavità pulsante, ma si poteva ancora distinguere il profilo del suo corpo che si dimenava attraverso la pelle rigida dell’aspide.
Alla fine la serpe strabuzzò gli occhi al cielo e si abbandonò a una dolce deliquio, mentre il topo usciva trionfante dalla sua bocca in cerca di un’altra preda da sventrare.
Va be’, mi è venuta maluccio la traduzione. Ma ascoltatelo in spagnolo, se non l’avete ancora fatto. La lettura della UNAM mi pare molto più efficace di questa raffazzonata traduzione.
In appendice, la mia presentazione video del podcast (una cosa molto selfosa e contemporanea; una cosa schifosamente narcisistica ed esageratamente autocelebrativa):
In napoletano si definisce ‘o spasso la frutta secca che si mangia soprattutto di domenica e durante tutte le festività (specialmente quelle natalizie) dopo aver pranzato o cenato (quel tempo in cui si resta a tavola a chiacchierare dopo aver mangiato, che nei Paesi di lingua spagnola e portoghese chiamano sobremesa); e non da rado, chiacchierando, si continua a bere e a mangiare fino allo sfinimento o all’arrivo del sonno.
Lo spasso napulegno può essere composto da arachidi, noci, pistacchi, anacardi, castagne, semi di zucca, mandorle, prugne e fichi secchi, tutte leccornie da spilluccare con la tecnica dell’uno-tira-l’altro anche in questi giorni festivi, conversando e bevendo in conviviale allegria e spensieratezza come se non ci fosse un domani e non incombesse l’arrivo di un anno nuovo tutto carico dei problemi e delle ambasce del vecchio.
Ciociole, ficusecche, noci e nucelle primma e doppe strufole, mustacciuole, roccocò e susamielle.
L’ineffabile e non eguagliabile bellezza del mangiare in compagnia sfidando la tenuta dello stomaco e dei denti. E non è per caso che anche la parola “compagno” derivi dal latino medievale “companio“, a sua volta originato da “cum panis“, che ci riporta alle persone che condividono il pane e mangiano insieme. D’altronde, pare che in spagnolo perfino il verbo “comer” derivi dal latino “cum-edere“, cioè, appunto, “mangiare con” qualcun@.
Insomma, si può anche mangiare da soli e tante volte lo si fa pure, per alimentarsi, per rimanere vivi o per ingordigia. Ma il cibo e, segnatamente, il cibo spassoso, è fatto per essere gustato in compagnia. Come l’incontro amoroso dei sensi. Un modo efficace per rendere più saporita e meno insensata la vita.
Piccolo post scriptum etimologico
Da più parti, tra le fantasiose etimologie partenopee, viene indicato il termine napoletano spasso come derivante dal tedesco Spaß/Spass. In passato ci sono caduto anch’io.
In realtà, sembra più probabile che sia lo spasso napoletano che lo Spaß alemanno derivino dal latino, non so se passando per l’italiano o seguendo un percorso indipendente. D’altronde anche i dizionari etimologici tedeschi associano il lemma Spaẞ agli italienisch “spasso” (Zeitvertreib) e “spassare” (zerstreuen) che fanno ragionevolmente derivare dal latino expassum, participio di expandere, nel suo significato originario di aprire, stendere, allargare.
Divertendosi (e anche mangiando ciociole in compagnia), lo spirito si espande e l’animo si distende. Ci si libera, finalmente, da incombenze, tensioni e costrizioni. Si distrae la mente dalle preoccupazioni. Allo stesso modo in cui le gambe e le menti si allargano per fare i passi (da passum, participio passato di pandĕre ‘stendere’) e andare a spasso lontano dalle sofferenze e dalle apprensioni.
E camminando camminando si reinventano etimologie e passa un altro giorno, un’altra nottata, un nuovo anno.
In napoletano usiamo l’espressione “Nun me fa’ cummattere!” (letteralmente “Non farmi combattere”) per rivolgerci a qualcuno che ci sta facendo perdere la pazienza, come una sorta di monito affinché la smetta di esacerbare i nostri animi. Personalmente, mi fa pensare a una madre e ad bambino irrequieto (che potrei essere io a otto-nove anni, o mio fratello, mio cugino, un ragazzino spagnolo che mi tormentò l’anima in una stazione di Jaén…). Lui sbuffa, non riesce a stare un attimo fermo, la interrompe mentre lei parla al telefono, dà un calcio a un pupazzo e rompe due bicchieri, spegne la televisione e sale su una sedia appoggiando le mani sull’inferriata del balcone. Lei, esasperata, sbotta:
“Basta, basta! Nun me fa cummattere!
Nun-me-fa–cu–mma-tte-re!“
L’ultima frase la scandisce, come se volesse cercare di entrare nella testa del bambino ed avvertirlo che la misura è colma; come se volesse essere sicura che questa volta lui la stia veramente ascoltando e agisca di conseguenza, prima che tra loro scoppi una tempesta dalle conseguenze imprevedibili. Un modo severo per implorarlo di smetterla, un avvertimento, un deterrente, un ultimatum per riconquistare un po’ di pace, o almeno una tregua che le dia il tempo per rimettersi in sesto prima di continuare a battagliare.
Nun me fa’ cummattere! Non farmi combattere!
Suvvia, non fa-te-ci–com-ba-tte-re!
Gaetano Vergara, “BE QUIET!“, 1985
Che poi questo mantra del contenimento, questo
Non fateci combattere. Non fateci combattere. Non fateci combattere.
sarebbe il caso di gridarlo tutti i giorni, sulla faccia di coloro che vogliono coinvolgerci nel gioco perverso della guerra. Di ogni guerra.
E ja’, anciate pace, nun facite ‘e scieme, nun ce facite cummattere. Smettetela, una buona volta, di trascinarci nei vostri conflitti armati! Lasciateci in pace! Non fate i bambini! Statevi un po’ fermi e riconsiderate le cose, provatele a vedere da altri punti di vista, dubitate delle vostre granitiche certezze; poi sediamoci intorno a un tavolo, stabiliamo cosa non si debba fare e impegniamoci ad analizzare che cosa si possa fare e come farlo per evitare un escalation di sofferenze. Poco per volta. Ma senza più l’uso di clave, spade, bazooka e altri strumenti di indiscriminata distruzione individuale o di massa.
E che diamine! Non siamo mica dei cavernicoli in contesa per un pezzo di dinosauro sanguinante, non siamo mica delle bestie feroci in cerca di cibo o dei mostri affamati di potere o di vendetta!
Un’altra figura riemersa dallo scorso millennio e moltiplicata nell’era del digitale spinto
È passato troppo tempo per sapere chi fosse Marl e da dove provenisse. Forse questo apparente nome e cognome rievocano una città della Renania e una della Baviera. Forse quel Karl è un richiamo a Marx che vuole conferire al disegno un tono brechtiano. Magari Marl è solo un diminutivo di Marlene messo lì per riportarci alla Dietrich che attraversò quasi tutto il secolo scorso come una diva mezza europea e mezza americana. Probabilmente –staledt sta per starlet e marl per marna (una roccia argillosa e fragile usata nelle miscele cementizie).*
Non so.
E della gemella sappiamo ancora meno. Salvo che in queste immagini appare più casta e meno diva, ma non per questo meno divina di sua sorella la gemella.
* In inglese la marna (che è anche il nome di un fiume francese; lo aggiungo per i risolutori di parole crociate) si dice proprio marl.
Momenti di riconciliazione, abbattimento e ricostruzione
Ormai da qualche giorno sono rientrato a Fratta, nel quartiere di Chiazza Mantano, dove sono nato e vivo da più di mezzo secolo. Dopo il bagno di mare e civiltà dei giorni trascorsi a Blanes, sono stato assalito da un senso di vuoto e di inappartenenza. Nostalgia per una città di mare ben organizzata, attenta alla difesa dei beni comuni, piena di verde e di spazi pubblici attrezzati; una città senza traffico, nonostante la marea di turisti riversati sul lungomare. Qui, invece, tutto come lo avevo lasciato, e io sono tornato a sentirmi un po’ più straniero nella terra dove sono nato, come quando ero ragazzo e cominciavo a esplorare l’Europa in cerca d’altro e di un presunto me stesso che non era altro che quello che facevo per cambiare quello ero, in funzione di quello che mi sarebbe piaciuto diventare (per quanto, allora come ora, non sappia dire cosa). Poi, mentre mi arrovellavo nei miei pensieri e nelle mie malinconie, come manna giunta dal cielo pigro di internet, mi sono imbattuto in questo video che sto ascoltando in loop come un antidepressivo che mi sta aiutando a uscire dall’astenia e dal torpore per ritrovare l’amore per la mia terra e per riappropriarmi dei miei sogni per cambiare Fratta e me stesso. Un modo, anche, per ritrovare l’amore per la mia terra e riappropriarmi dei miei sogni di rifondazione e cambiamento.
Il video si intitola Jazz Mantana, ed è uno splendido omaggio alla mia terra e al mio quartiere, Chiazza Mantano, che un tempo fu la periferia di Frattamaggiore sorta nei pressi di una palude di fango e acque stagnanti (un pantano, appunto) da cui, nel secolo scorso, è venuta fuori tanta musica contaminata col jazz e con gli altri suoni provenienti dai bassifondi angloamericani e, più tardi, anche con le sonorità provenienti dal resto del mondo.*
Il brano è stato composto, arrangiato e suonato dai TProject di Gino Frattasio (basso e programmazione) e Pasquale Marchese (batteria e percussioni), con il suggestivo e avvolgente intervento al sax tenore di Giovanni Sorvillo e con la produzione di Ciro Bianco (ingegnere del suono). Apprendo dalla rete che “Jazz Mantana” è la prima di undici tracce di un album di prossima uscita su cui i TProject stanno lavorando da quattro anni. Le foto del video che raffigurano le strade di Via Roma, Via Croce San Sossio e Via Vittorio Veneto (il cuore di Chiazza Mantano) sono state in gran parte prestate dall’Istituto di Studi Atellani e selezionate da Marino Landolfo. Si alternano e si sovrappongono con le immagini di grandi jazzisti internazionali (tra gli altri, Lester Young, Charles Mingus, Elvin Jones, Sonny Rollins, Chet Baker, John Coltrane e Charlie Parker) e con le foto di alcuni musicisti locali (i fratelli Munari, che cominciarono la loro carriera suonando il jazz per gli americani delle basi NATO, Franco Del Prete, cofondatore degli Showman e dei Napoli Centrale, e Larry Nocella, il grande sassofonista di Battipaglia che a Chiazza Mantano era di casa). Di tanto in tanto le immagini si animano con qualche frammento video dei musicisti del TProject nell’atto di suonare e registrare il brano che stiamo ascoltando. Se vede pure ‘a casa mia, comm’era e comm’è, e quella di Franco Del Prete! Siamo entrambi talmente chiazzamantanesi che Franco, da ragazzo, lavorava nel bar di mio nonno materno e per tutto il resto della sua vita ci incontravamo e salutavamo con affetto dappertutto, in salumeria, dal giornalaio, dal fruttivendolo, nel bar Mastrominico dove suonava fino a tarda notte con Larry Nocella, fuori casa sua e fuori casa mia. Ed io ricordavo che nel juke-box del bar del nonno risuonavano sempre le sue canzoni…
Da un punto di vista più strettamente musicale “Jazz Mantana” è un bel brano di jazz rock dall’andamento lento e suggestivo che ricorda il Miles Davis degli ultimi anni (soprattutto quello anni ‘80 degli album arrangiati e prodotti da Marcus Miller), ma ha anche una sua mediterraneità (riscontrabile fin dalle prime battute di uno strumento a corde che potrebbe essere un oud o una mandola) che ci riconducono alle produzioni di Chick Corea, John McLaughlin e Al Di Meola, ed anche dalle parti del Perigeo e dei Napoli Centrale, of course. In ogni modo, i riferimenti significano poco ed hanno il vizio della soggettività (per il tappeto sonoro elettronico, caldo e ipnotico avrei potuto parlare anche del jazz scandinavo di un Nils Petter Molvær o di quello inglese di John Surman, tano per moltiplicare gli esempi). Quello che conta è che il brano ha una sua personale forza evocativa e il suo incedere fluisce in modo liquido e insinuante nelle orecchie e nell’animo dell’ascoltatore, grazie anche al recitare ruvido di Pasquale e alle note graffianti del sax di Sorvillo. Potente e suadente la linea di basso che percorre i 5 o 6 minuti di musica.
Ascoltandolo mi sto un po’ riconciliando con la mia terra e sto facendo pace con questo invadente me stesso in perenne abbattimento e ricostruzione. Come il cemento del mio quartiere e della mia città.
Tre Note
* Ricordo, a piè di pagina, che prima dell’unità d’Italia e ancora fino al primo dopoguerra, Frattamaggiore era divisa in chiazze – quartieri storici – che presumibilmente si svilupparono a raggiera intorno al centro della città, denominato Chiazza d’Agno, dove “agno(lo)” vuol dire “angelo”. A Chiazza d’Agno (oggi più comunemente definita ‘Mmiezzo ‘e Fratta) c’era la chiesa di San Sossio, risalente agli ultimi anni dell’Alto Medievo, e più tardi anche la sede del Municipio. Gli altri punti nevragici della città erano popolarmente conosciuti come Chiazza Pertuso (un “pertugio” alle spalle della chiesa); Abbascio all’Arco (oggi Piazza Riscatto); ‘Nmont’Accetta (zona residenziale più moderna sviluppata ai tempi del fascismo; come si evidenzia dall’accetta di questo suo toponimo che pare essere una rievocazione dell’ascia del fascio littorio effigiata su un muro di quella che è oggi Via Padre Mario Vergara); Sfasciacarrozza (oggi Voltacarrozza, zona lungo il lato destro della provinciale per Afragola, così chiamata perché la strada era così malridotta da rompere le ruote dei carri). E ancora; ‘Nmonte San Giuanne (oggi Via Genoino), Abbascio a’ Cupa (tra via Matteotti, sede storica del Liceo Durante, e via Cumana); ‘Ngoppe ‘e filatore (Via Fiume); ‘Aret’a Iacciera (Via Carmelo Pezzullo, sede di una ghiacciera); ‘Ngoppe ‘a Muntagnella (zona rialzata di Chiazza Mantano, parallela a Via Vittorio Veneto); ‘Ngoppe ‘e Filangieri (tra Via Vergara e la provinciale Fratta-Afragola, sede storica della ragioneria); ‘Nmonte ‘Icienzo (Via Amendola); ‘Ngoppe ‘a Carantonia (Via Biancardi); ‘Nmonte ‘e Scieme (zona periferica in cui negli anni ‘30 il dottor Tropeano fece costruire Villa Laura per ospitare persone con problemi psichici e psichiatrici); Abbascio ‘a Palla (via XXXI Maggio); ‘A Torre ‘e Palumme (torretta, ormai cadente, priva di parte dei merli, situata nella zona di Chiazza Mantano più vicina alla piazza centrale di Chiazza d’Agno)… E di certo dimentico qualche altro toponimo caratteristico della mia città, “sola abbandonata / invisibile spiata / fiera disprezzata / feroce incontrollata / ma è la mia città”.** “Ma che bella città – ah, ah, ah, ah. Sento l’acqua alla gola – ah, ah, ah, ah. Forse è un colpo di mano – oh, oh, oh, oh. Forse è stata la scuola – ah, ah, ah, ah, ah. Io venivo di là… Ah, ma che bella città… Ah!”***
** Da “La mia città“, brano di Edoardo Bennato dall’album “Pronti a salpare” del 2015.
*** Da “Ma che bella città“, brano di Edoardo Bennato dall’album “I buoni e i cattivi” del 1974. Come passa il tempo! Come sono lente a cambiare le cose dalle nostre parti.
La Catalogna tra democrazia, tolleranza, utilitarismo, indipentismo e sovranismo
Per la seconda volta in una decina di giorni, ieri, nell’hotel che ci ospita a Blanes, nel pieno della Catalogna indipendentista, uno spettacolo di danza flamenca. Come se fossimo in Andalusia, nel profondo sud della penisola.
Il popolo catalano è un popolo tollerante, democratico e civile, ma è anche un popolo concreto, capace di sfruttare i propri talenti e quelli altrui per farne mercato; un popolo pronto a vendersi tutto il vendibile per aumentare il proprio benessere materiale; fino agli estremi della gentrificazione che hanno trasformato interi quartieri popolari di Barcellona in zone spersonalizzate, piene di migranti e turisti, con conseguente aumento del prezzo degli affitti, degli immobili e dei beni di prima necessità. Lucía Lijtmaer, nel romanzo che sto leggendo in questi giorni di mare e rilassamento, osserva che già una ventina di anni fa Barcellona si stava trasformando in una grande Lloret de Mar…
“In due anni qui si è riempito di guiris [turisti stranieri] come se fosse Lloret, dice qualcuno, ed è vero, il centro è como la Lloret della mia infanzia, lo stesso odore di cipolla fritta e waffle riscaldato, lo stesso mare di pelli bruciate, la stessa sensazione di nausea e stordimento per la quantità di gente e sole, combinati, gente e sole, gente in scatole di latta, sole in scatola, la latta che ti brucia la pelle quando cerchi di sederti sul cofano di una macchina vicino alla spiaggia e tua madre ti diceva: togliti di lì, non vedi che ti stai per scottare, togliti di lì, ti dice ora il tuo istinto e non tua madre, ogni volta che scendi dalla ronda di Sant Pere.” [Lucía Lijtmaer, “Cauterio“, 2022, p.81. La traduzione è mia.]
Ma torniamo allo show Flamenco e alla capacità dei catalani di sfruttare a più non posso tutti i luoghi comuni del turismo iberico per farne una redditizia fonte di guadagno.
In Catalogna hanno abolito la corrida ed hanno trasformato l’Arena di Barcellona in un mega-centro-commerciale, eppure continuano a vendere tori di plastica a orde di turisti in cerca di sapori autentici e prodotti tipici e topici. In Catalogna si sentono altri dal resto della Spagna, ma poi, a ben vedere, è tutto un proliferare di ventagli, banderillas, chitarre, nacchere, paellas valencianas, sangría e gazpacho andaluso. A Barcellona e nel resto della comunità autonoma, hanno in spregio i “charnegos” (gli spagnoli che vivono in Catalogna, ma non sono figli di catalani), ma hanno catalanizzato Picasso, un genio di Malaga (Andalusia) vissuto per la maggior parte della sua vita in Francia.
Il finto tablao flamenco di ieri, che ho solo sentito da lontano perché la bambina non è voluta scendere e ha preferito tenere a sottofondo delle sue letture, è parte di questo sfruttamento mercantile dell’idea di Spagna sedimentata nelle teste degli stranieri che da due o tre secoli cercano la Carmen in ogni angolo o anfratto della penisola iberica (allo stesso modo in cui i gondolieri veneti cantano “‘O sole mio” e “Simme ‘e Napule, paisà” ai turisti tedeschi e giapponesi che questo vogliono sentire, per avere la sensazione di trovarsi in acque italiane e vivere le emozioni del popolo degli spaghetti, della pizza, delle tarentelle, delle mafie, dei Sorrentino, dei pulcinella e della camorra di Gomorra).
D’altronde, la relazione della Catalogna col flamenco viene da lontano. Già alla fine dell’800 proliferavano a Barcellona spettacoli di danza gitana in café chantant che spesso, non a caso, avevano nomi che si richiamavano alla realtà andalusa, come Café Sevillano, Café Concierto Sevilla e Café Concierto Triana. Tuttavia, è innegabile che, col tempo, si formò una vera e propria tradizione flamenca catalana. Carmen Amaya, una delle più grandi e innovative danzatrici di flamenco del secolo scorso, era una gitana nata a Barcellona nel 1913.
Questo attiene, insomma, anche alla capacità dei popoli mediterranei di assimilare culture estranee e lasciarsi contaminare dall’altro. La cucina catalana è un’ulteriore riprova di questa tendenza ad aprirsi a gusti, a prodotti e a sapori provenienti da mondi vicini e lontani.
Insomma, niente di male, per carità. Un po’ di flamenco, anche incelofanato, non fa male a nessuno. Anzi. A me piacciono pure i Gypsy King, gitani andalusi residenti in Francia che hanno inventato una versione pop e commerciale della rumba flamenca. Questa è una musica nomade, che probabilmente ha mosso i primi passi nella lontana India e poi si è andata mischiando con i suoni di mezzo mondo già prima di approdare tra Cordova, Siviglia e Granada. E da quel momento il processo di contaminazione e commercializzazione non è mai finito.*
Sento solo qualche nota stridente tra questa musica senza frontiere e la Catalogna autonomista, indipendentista, sovranista e (vivaddio) pure, sempre e comunque, antifa e antifascista.
Ma la Spagna e il mondo intero si nutrono di queste contraddizioni. E io pure, che sono del Mediterraneo e sento che questi e solo questi sono i tre colori della mia bandiera (insieme col giallo del sole, il verde degli ulivi e il rosso del sangue e della lava vulcanica).
“Mi contraddico“, “contengo moltitudini“. (W.W.)
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Se volete saperne di più del nomadismo del flamenco, leggete qua.
Dal 31 luglio sono a Blanes, con la piccola, in Costa Brava. Nel pullman dall’aeroporto del Prat all’hotel ci sono persone di ogni provenienza, ma si sente solo parlare napoletano. La solita orda di adolescenti convinti di venire a conquistare un popolo da cui è sempre stato soggiogato. In tutta l’ora e mezza del tragitto sbraitano, bevono, urlano e cantano, e in ogni frase, muggito o mugugno appare due o tre volte la parola Napoli o suoi derivati. Due o tre volte l’autista li riprende, ma loro continuano imperterriti a bere e a disturbare. Me ne vergogno. E non è solo vergüenza ajena. Mi vergogno proprio di essere italiano e napoletano come loro. Anche Stefania esprime la stessa vergogna e lo stesso disagio. Quando arrivo a destinazione mi scuso con l’autista in loro vece. Lui si mostra comprensivo e rassegnato. Sono anni che accompagna questi flussi scostumati di ormoni a Tossa e a Lloret de Mar. Per fortuna, vanno tutti negli stessi posti in cerca di droga, figa, cazzi e discoteche. Basta evitarli. Loro e i posti che frequentano. Spero che si divertano, comunque, senza fare troppi danni a se stessi e agli altri. Per fortuna, qui sono tutti abbastanza indulgenti con questa guagliunera. Come l’autista. Ma non so dire se sia più tolleranza o convenienza.
In ogni modo, dopo questo brutto avvio, i primi giorni di vacanza in Costa Brava scorrono sereni, allegri e senza incidenti. Il mare è bello, le passeggiate mostrano scorci incantevoli, la ricezione alberghiera è impeccabile e gentile.
Blanes
Alla partenza, non ho messo nessun libro in valigia. Ho deciso di comprare qui qualche romanzo da leggere in spiaggia, sul balcone o al rientro a casa.
“Blanes se parece a sus playas, en donde se tuestan cada verano todos los valientes de Europa, los de aquí y los del otro lado de los Pirineos, las gordas y los gordos, los feos, los esqueléticos, las chicas más guapas de Barcelona, los niños de todo pelaje, las viejas y los viejos, los enfermos terminales y los resacosos, todos semidesnudos, todos expuestos al sol del Mediterráneo y a la mirada comprensiva de la torre de San Juan, y el olor que se desprende de las playas (es bueno recordarlo ahora, en el largo invierno) es el olor de las cremas corporales, de los bronceadores, de las pomadas de protección solar, que huelen a eso, evidentemente, pero que también huelen a democracia, a historia, a civilización.” Roberto Bolaño, “La Selva Marítima” in El El País, Gennaio 2000.
“Blanes somiglia alle sue spiagge, dove ogni estate si mettono all’arrosto tutti gli arditi d’Europa, quelli di qui e quelli dell’altro lato dei Pirenei, le chiattone e i chiattoni, i brutti, gli scheletrici, le ragazze più belle di Barcellona, i bambini di ogni provenienza e aspetto, le vecchie e i vecchi, i malati terminali e gli sbronzi, tutti seminudi, tutti esposti al sole del Mediterraneo e allo sguardo comprensivo della torre di San Juan, e l’odore che sprigiona dalle spiagge (è bene ricordarlo ora, nel pieno dell’inverno) è l’odore delle creme corporee, degli abbronzanti, delle pomate di protezione solare, che odorano di quello che sono, evidentemente, ma che sanno anche di democrazia, di storia, di civiltà.”
La traduzione è mia. Il testo di Roberto Bolaño. Stamattina sono stato alla libreria Sant Jordi. La libreria che lo scrittore sudamericano frequentò negli ultimi anni della sua vita. Dal 1985 al 2003, Bolaño si stabilì qui a Blanes con la moglie e i due figli. Prima che gli arrivasse il successo che meritava aprì anche un negozietto di bigiotteria.
In sottofondo due frammenti di “Blind” dei Talking Heads (1988)
In una guida che gli ha dedicato l’ufficio turistico cittadino leggo che voleva essere ricordato “come uno scrittore surdamericano più o meno decente, che visse a Blanes, e che amò questo paesino” di 30.000 abitanti fondato dai romani duemila anni fa e poi frequentato da persone di ogni tipo e colore.
Blanes, vista dal Jardín Botánico MarimurtraApparizioni a Blanes
Nella libreria c’è ancora Pilar Pagespetit i Martori, con cui lui si intratteneva a parlare mentre vagava tra i libri. O almeno, dalla veneranda età che dimostra nel suo fisico minuto e curato, a me piace immaginare che sia lei. Le chiedo se hanno disponibile qualche testo di Ernesto Cardenal, poi mi metto a curiosare tra i libri ammucchiati in colonne in ogni angolo della stanza. Per un momento credo di aver osato identificarmi con R.B. Dopo una lunga ricerca scelgo un testo di recente pubblicazione di Lucía Lijtmaer, scrittrice quarantenne nata in Argentina e cresciuta a Barcellona. Avevo sentito parlare del suo acume sia come romanziera che come critica letteraria e specialista di studi culturali.
Nelle prime pagine la voce narrante immagina un suicidio e vagheggia un’inondazione di Barcellona provocata dal cambio climatico e dallo scioglimento dei ghiacciai polari. È una descrizione potente e delirante.
A un certo punto mi rivedo in queste parole che mi riportano sul bus dell’arrivo a Blanes.
” […] primero morirán los pobres, los taxistas paquistanís del Raval, las chicas filipinas de la panadería de la calle Sant Vicenç, la señora Quimeta y su mercería, los guiris de la Barceloneta, todos, absolutamente todos, los holandeses, los franceses, los ingleses y los italianos -nadie echará de menos a los italianos-.” Lucía Lijtmaer, “Cauterio“, 2022
Traduco, non senza essere di nuovo assalito dalle fiamme della vergogna.
” […] prima moriranno i poveri, i tassisti pachistani del Raval, le ragazze filippine della panetteria di calle Sant Vicenç, la signora Quimeta la sua merceria, i turisti della spiaggia di Barceloneta, tutti, assolutamente tutti, gli olandesi, i francesi, gli inglesi e gli italiani – nessuno sentirà la mancanza degli italiani.”
Sai quando sei in ascensore, in un edificio di ventisette piani, con uno sconosciuto che ha preso l’ascensore con te, devi arrivare al quindicesimo piano che ti debbono diagnosticare un male incurabile, lo sconosciuto ti fissa, ha anche lui delle carte in mano, non sapete cosa dire, e poi vi trovate a parlare del tempo che fa e qui fa un caldo che non si respira, signora mia? Ecco, io oggi vi parlo del clima.
Con la capoccia protetta dal sole, grazie ai benefici effetti dell’ombra del Vesuvio che incombe sulle nostre vite, mi chiedo spesso che relazione intercorra tra l’ambiente e il clima (da una parte) e i comportamenti, la storia e la cultura dei popoli che in quel clima e in quell’ambiente sono immersi (dall’altra).
Pare che i tedeschi siano inclini a concepire e distruggere grandi sistemi filosofici, perché il chiuso e la solitudine delle fredde case del Nord spinge alle profondità della riflessione. Soprattutto se, mentre pensi, fissi, in assoluta solitudine, il fuoco crepitante di un camino.
È risaputo che tutti le grandi civiltà del passato remoto sono nate nei pressi dei fiumi e dei mari. Egizi, sumeri, assiro-babilonesi (ma pure le grandi civiltà indiane e cinesi del lontano Oriente) bevevano, annaffiavano, ricavavano argilla, trasportavano merci, si sciacquavano le palle e riflettevano sul fluire della vita grazie alle acque di un fiume.
[un mio disegnino del 1984]
Il mare, poi, separa e fa incontrare i popoli, mischia le carte in tavola e porta sempre qualcosa di nuovo.
Penso alla Grecia, crocevia tra l’Oriente e l’Occidente; penso al Mediterraneo nostrum; penso all’Inghilterra e all’Olanda dei pirati, degli schiavisti e dei coloni; penso alla Spagna sospesa entre dos aguas; penso al Portogallo posizionato alle spalle dell’Europa e di fronte a un infinito liquido e fragoroso… E penso alla mia Napoli, aperta ad ogni invasione, scambio, compenetrazione e contaminazione.
… Biate a cchi s’a piglia, Michelemma’ Michelemma’.
Si dice che i napoletani non abbiano voglia di fare niente perché il sole sfiacca, il mare distrae e la lava del Vesuvio vanifica ogni progettualità. Siamo lucertole immobili sotto i raggi cocenti. O cicale che cantano al sole.
E ‘o sole, ‘o sole e ‘o Sole mio sta ‘nfronte a tte.
Qui ci squagliamo e ci annulliamo da migliaia di anni in un nichilismo esistenziale che non ha bisogno di impianti teorici o giustificazioni. E se il sole non bastasse, ci dissolviamo nel magma lavico del vulcano.
[un altro disegnino dell’84]
È opinione diffusa che pure gli africani di ogni latitudine non sappiano fare niente perché hanno il cervello bruciato dal sole e trovano dappertutto cocchi “ammunnati e bbuoni“.
Ho letto che molti islandesi sarebbero tendenti alla depressione a causa dei loro lunghi inverni di buio. Pare, poi, che gli scandinavi, assaliti da un freddo raggelante, abbiano dovuto inventarsi che non esiste il mal tempo, esiste il mal vestire. Il che aiuta a essere ben organizzati, efficienti e operosi come un industriale del lombardo-veneto o uno schiavista del Nord America.
Gli argentini, infine, se guardi il mappamondo, vivono con i piedi piantati per terra e la testa penzolante. Stanno al revés, “a sott’e ‘ncoppa“… Per questo non riescono mai a raggiungere uno sviluppo da primo mondo: stando sottosopra, le idee gli cadono giù dalla testa.
Questa l’ho citata alla buona dalla Mafalda di Quino, da cui rubo da sempre un sacco di buone idee. E con questa Passo e Chiudo e torno a riposare al caldo di un sole indecente. Che voglia ‘e fa niente!