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((( aitanblog )))

~ Leggendo ci si allontana dal mondo per comprenderlo meglio.

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Archivi della categoria: musiche

Zitto

12 martedì Feb 2019

Posted by aitanblog in musiche

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silenzio

Il mio piccolo ed esile inno al silenzio.
Poco più di un minuto in cui me la canto e me la suono da solo.

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Ma come è strano l’amor (quasi una “canzona”)

10 mercoledì Ott 2018

Posted by aitanblog in musiche, versiculos

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amor, musica

Un pezzaccio improvvisato giocando col guitalele insieme alla mia piccola e registrato alla meno peggio con la telecamerina del notebook.

Trascrizione del brano e accordi di accompagnamento in attesa che qualche musicista di buona volontà prenda in mano il pezzaccio e ne faccia qualcosa di meglio, con stonature più a tono col testo. 

[–Accordi per Guitalele o per Chitarra con capotasto al V tasto–]

Ma come è strano l’amor
Em———-Am—-Asus2—-
Sobbalza forte il tuo cuor
Em——–Am—Asus2—-
Chiedi un aiuto al dottor
Asus2—————Em—-
Ma è soltanto l’amor
Em—Asus2-Em-Asus13
Che ti fa battere il cuor
Asus13————–Em

Ay el amor
G——-Am
Ay el amor
Am—–Em
Ay el amor
Em——–
Esto es
As13-Em

Ay el amor
G——-Am
Ay el amor
Am—–Em
Ay el amor
Em——–
Esto es
As13-Em

Perdi il tuo senno e il decor
Quando ti bussa l’amor
Fuori la porta del cuor
Fuori la porta del cuor

E sono allora dolor
Mali e malanni d’amor
Ma tu ti senti un attor
Senza ricordi e rancor
Senza ricordi e rancor

Ay el amor
Ay el amor
Ay el amor
Esto es

Ay el amor
Ay el amor
Ay el amor
Esto es

Guardano te con stupor
Perché non sanno l’amor
Che fa sbalzare il tuo cuor
Che fa sbalzare il tuo cuor
Che fa sbalzare il tuo cuor

Ay el amor
Ay el amor
Ay el amor
Dime
qué es

Ay el amor
Ay el amor
Ay el amor
Dime
qué…

_______________________________

Gaetano Aitan Vergara (c) 2018

Gatto e Sepe a spasso nel tempo

10 lunedì Set 2018

Posted by aitanblog in musiche, recensioni

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gatto, Sepe

Roberto Gatto l’ho visto per la prima volta agli inizi degli anni ’80 con Maurizio Giammarco al Circo Massimo di Roma. Era il primo festival di jazz cui partecipavo in vita mia e cominciai alla grande con lui, Ornette Coleman, Chick Corea, Gary Burton e il mio compaesano Gegé Munari, tutti nello stesso spazio a pochi giorni di distanza. Bei ricordi. Avevamo un posto per dormire a Casalotti, in periferia di Roma, ma siccome si faceva tardi dormivamo fuori alla stazione ripassando la musica e le emozioni vissute al Circo (a dire il vero, io dormivo, ma i miei amici mi svegliavano ogni due e tre perché erano passati a farci visita, in ordine sparso, un barbone tedesco, qualche accattone locale, una prostituta, uno spacciatore di non so che, un pazzo che si dichiarava l’ottavo re di Roma e millanta altri nottambuli di passaggio).

Daniele Sepe lo ascolto e lo seguo dalla seconda metà dello stesso decennio degli ’80, fin dai vinili di “Malamusica” e “Plays standards and more”. Erano i tempi dell’università e lo vedevamo spesso al Riot, al Velvet, da Intramoenia e in altri locali fighetti di Napoli. Po’ isso s’è fatto gruosso, ma è rimasto sempe curioso, frisco, perspicace e ricercatamente antipatico come ai primi tempi.

Gatto e Sepe sono due musicisti che attraversano il jazz da dentro, da fuori e dalla periferia, e strada facendo acchiappano nel meglio della musica che gira intorno. Nei dischi di Roberto Gatto si va dagli standard jazz a composizioni originali, colonne sonore, brani a passo di tango, riletture di canzoni rock, passioni jazzrock e perfino canzoni napoletane (ricordo una meravigliosa “Te voglio bene assai” cantata da un Servillo di quelli nell’album “#7”).
Daniele Sepe è perfino più onnivoro. Acchiappa ‘a tutte parte con un gusto speciale per macinare il meglio, da Miles Davis a Hermeto Pascoal, da Víctor Jara a Frank Zappa, da Zawinul a Milton Nascimento o a Luigi Tenco.
Entrambi, poi, hanno una lunga esperienza come turnisti nella migliore e peggiore musica di consumo nazionale…
Insomma, questi due si dovevano solo incontrare, per regalare al pubblico concerti scoppiettanti, eclettici, godibili e ben suonati come quello di ieri sera, alla chiusura estiva del Pomigliano Jazz Festival. Si sono accoppiati sotto la sigla “Cronosisma” rubata a Kurt Vonnegut e, accompagnati da Tommy De Paola al piano e al rhodes e Pierpaolo Ranieri al basso, hanno deciso di mettere in scena un terremoto temporale che sballotta il pubblico avanti e indietro nel tempo e nello spazio.

Comunque, bando alle ciance e alle fanfole, se ieri non siete venuti a Pomigliano, vi siete persi, nell’ordine:

– “Ya Mustafá” (brano multilingue del compositore egiziano Mohammed Fawzi reso popolare agli inizi degli anni ’60 da Bob Azzam; ma io questo, purtroppo, non l’ho sentito, perché s’è fatto tardi pe’ truva’ parcheggio)
– “Palladium”(composizione di Wayne Shorter risalente all’album del 1977 “Heavy Weather” dei Weather Report, una dichiaratissima passione comune di Gatto e Sepe)
– “Mademoiselle Mabry” (brano di Miles Davis che Sepe ci spiega essere dedicato a una signorina che Miles condivideva con Jimi Hendrix)
– “Nunca más” (di Gato Barbieri, con cui Gatto ha suonato e Sepe avrebbe voluto suonare)
– poi c’è stato un brano di “world jazz music” basato sul giro di basso di “Birdland” (il più popolare pezzone dei Weather Report) nel quale Sepe ha suonato una specie di miniclarinetto tirando fuori suoni simil-duduk e simil-ciaramella
– “La manfredina” (un bel pezzo di musica medievale che il maestro napoletano aveva già registrato in “Kronomakia”, con l’Ensemble Micrologus e i Rote Jazz Fraktion)
– una struggente ninna nanna svedese risalente ai tempi in cui nei dischi e nei concerti di Sepe cantava Auli Kokko
– “Rebulico” del grande Hermeto Pascoal (mito brasiliano di Daniele)
– “Young and fine” di Joe Zawinul (mito austroungarico di Roberto, Daniele, Tommy De Paola e, immagino, pure di Pierpaolo Ranieri)
– “Range fellon”, cantata da Andrea Tartaglia che è venuto dalla ciurma di Capitan Capitone (multiprogetto di Sepe realizzato con decine di altri artisti di area napoletana) a risvegliare il pubblico meno abituato ai suoni della musica sincopata. Tartaglia, dopo aver subito i teatrali sfottò del maestro, ha intervallato il brano con un opportuno “Get up, Stand up” di bobmarleyana memoria
– Per concludere, un graffiante “Rugido do leão” di Piero Piccioni, che faceva da colonna sonora al più apertamente politico film di Alberto Sordi: “Finché c’è guerra, c’è speranza”. Una metafora di questo concerto: produrre opere godibili, fruibili, ma non spensierate e fuori dal mondo. Il sogno di una canzone che faccia addormentare i bambini e risvegliare gli adulti.

Get Up, Stand Up, stand up for your right!
Get Up, Stand Up, don’t give up the fight!

I superstiti della canzone d’autore italiana

06 giovedì Set 2018

Posted by aitanblog in musiche

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cantautori, superstiti

Dopo che sono morti, tendiamo a inondare la rete di ricordi, “coccodrilli”, citazioni e brani dei nostri cantanti e autori preferiti.

Partendo dal principio catalanesco che i buoni interpreti è meglio ascoltarli dal vivo che dal morto, sto raccogliendo sul mio spazio Tumblr alcuni dei brani più belli dei superstiti della canzone d’autore italiana.

L’unico criterio aggiuntivo al gusto personale che mi sono dato è stato quello di scegliere canzoni di cantautori viventi che abbiano già compiuto 60 anni.


Per ora ho scelto brani di

  • Gian Piero Alloisio
  • Fausto Amodei
  • Enzo Avitabile
  • Angelo Branduardi
  • Edoardo Bennato
  • Alberto Camerini
  • Paolo Conte
  • Francesco De Gregori
  • Roberto De Simone
  • Eugenio Finardi
  • Francesco Guccini
  • Enzo Maolucci
  • Gianfranco Manfredi
  • Alan Sorrenti

Prossimamente, raccoglierò altri brani scegliendoli tra il repertorio di questi altri cantautori e cantautrici over 60 (consapevole del fatto che per alcuni di questi artisti scegliere un solo brano che mi piaccia sarà molto difficile, per altri… sarà difficile trovarne anche uno solo):

  • Alice
  • Claudio Baglioni
  • Franco Battiato
  • Gianni Bella
  • Eugenio Bennato
  • Gualtiero Bertelli
  • Sergio Caputo
  • Ivan Cattaneo
  • Fabio Concato
  • Giorgio Conte
  • Toto Cutugno
  • Nino D’Angelo
  • Edoardo De Angelis
  • Eduardo De Crescenzo
  • Nicola Di Bari
  • Peppino di Capri
  • Don Backy
  • Franco Fanigliulo
  • Alberto Fortis
  • Ivano Fossati
  • Paolo Frescura
  • Enzo Gragnaniello
  • Goran Kuzminac (R.i.P. – 18-09-2018)
  • Lalli
  • Mario Lavezzi
  • Mimmo Locasciulli
  • Loy e Altomare
  • Marco Luberti
  • Mauro Lusini
  • Francesco Magni
  • Cristiano Malgioglio
  • Max Manfredi
  • Giovanna Marini
  • Andrea Mingardi
  • Maria Monti
  • Leano Morelli
  • Marco Ongaro
  • Mauro Pagani
  • Gino Paoli
  • Adriano Pappalardo
  • Aldo Parente
  • Gian Pieretti
  • Paolo Pietrangeli
  • Oscar Prudente
  • Pupo
  • Donatella Rettore
  • Vasco Rossi
  • Luciano Rossi
  • Tito Schipa jr.
  • Pino Scotto
  • Franco Simone
  • Jenny Sorrenti
  • Vincenzo Spampinato
  • Patrizio Trampetti
  • Roberto Vecchioni
  • Antonello Venditti
  • Alan Wurzburger
  • Giorgio Zito
  • Teresa De Sio (suggerita da Lina Sanniti)
  • Nino Buonocore (suggerito da Imma Costanzo)
  • James Senese (suggerito da Carmine Vergara)
  • Mimmo Cavallo, Gerardo Carmine Gargiulo, Amedeo Minghi, Santino Rocchetti, Mino Verniaghi e Drupi (suggeriti da Angelo Picozzi)
  • Edoardo Vianello, Riccardo Cocciante, Ron, Renato Zero, Enrico Ruggeri (suggeriti da Rocco Del Prete)
  • Mario Castelnuovo, Flavio Giurato e Ricky Gianco (suggeriti da Giorgio Veturo)
  • Gianni Togni (suggerito da Paola Esposito)
  • Aldo Tagliapietra (suggerito da Gennaro Carotenuto)
  • Mauro Pelosi e Pino Pavone (suggeriti da Jennà Romano)
  • Sandro Giacobbe (suggerito da Francesca Del Prete)
  • Nada (suggerita da ragingbull1975)
  • Alessandro Haber e Fabrizio Bentivoglio (suggeriti da Pasquale Vergara)
  • Zucchero (suggerito da Enzo Troppo)
  • Faust’o, Garbo, Renzo Zenobi, Gianni Nebbiosi, Alberto Radius, Roberta D’Angelo e Mario Barbaja, Luigi Grechi, Paolo Barabani, Massimo Bubola, Pino Masi, Piero Brega (suggeriti da Pasquale Di Resta. Obrigado)

Che dite, tra me e i miei amici del Faccialibro, abbiamo dimenticato qualcuno che trovate imprescindibile o almeno degno di aggiungersi al novero?

Terza edizione del “Mediterraneo Reading Festival” – Tre serate di musica e parole

03 martedì Lug 2018

Posted by aitanblog in musiche, recensioni

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Festival, Mediterraneo

Ora che è trascorso qualche giorno, provo a fare un resoconto delle tre serate del Mediterraneo Reading Festival viste da dentro. Quest’anno mi onoro di essere il vicepresidente della neonata associazione che cura il festival; un’associazione che, come dice il nostro presidente Mimmo Giuliano, si propone di creare un terreno culturale fertile per dare vita a momenti di arte e di sperimentazione sui linguaggi, in modo tale che le giornate estive di spettacoli, incontri ed esibizioni debbano diventare il culmine di una ricerca artistica destinata a durare per tutto l’anno.

Sono stati tre giorni molto belli ed intensi che hanno avuto un precedente nella presentazione del Festival fatta la settimana prima con l’incontro con Angelo Petrella e la lettura di tre vibranti poesie di Lina Sanniti accompagnate al piano da Filippo Piccirillo.

Giornate intense, dicevo, che hanno tenuto fede al nostro obiettivo di realizzare incontri di musiche e parole che partano dalla provincia a nord di Napoli per affacciarsi sul Mediterraneo e sul mondo. Il nostro vuole essere un festival aperto all’intimismo, alla convivialità, alla riflessione, alla gioia di vivere, alla sperimentazione ed alla commistione dei generi in un clima di confronto e di partecipazione, mettendo in scena esibizioni delle arti “più disparate e disperate”.

Il primo giorno si è aperto alla grande con il cantautore Antonio Del Gaudio che ci ha presentato tre brani di teatro e musica (due accompagnati al piano) che trasudavano dolore, disperazione ed autoironia. Il primo, recitato in duetto con una voce fuori scena, è stato un confronto acceso e imbarazzante con una madre ingombrante come una mamma del sud o una “yddish mame“. Il secondo, un stralunato canto di corteggiamento. Il terzo un dialogo di un bambino con il padre, incentrato sul quesito filosofico e surreale “Cosa c’è dietro il mare?“. Il tutto con un sottofondo pianistico sapientemente suddiviso tra la voce del padre accompagnata dalla mano sinistra sulla tastiera e quella del figlio dalla destra.

Antionio Del Gaudio

Le canzoni sghembe di Del Gaudio mostrano un dominio della composizione musicale che mi fa pensare a quegli acrobati che camminano sul filo travestiti da pagliacci e fingono di non essere in grado di arrivare all’altro capo della fune. Ma poi ci arrivano tra mille piccole acrobazie che mostrano una perizia mascherata da goffaggine.

La sua performance è stata apprezzata anche da Mariella Nava, che qualche minuto dopo ha emozionato il pubblico che affollava il suggestivo chiostro del centro sociale di Frattamaggiore con la sua musica e le sue parole.
La celebre cantante e autrice era accompagnata da un chitarrista ed un bassista (in qualche caso si è servita anche di qualche base o ha lasciato le tastiere per una tammorra) ed ha alternato le canzoni con interessanti aneddoti sui suoi esordi, sulla sua carriera, i suoi incontri artistici, i big della canzone italiana che hanno interpretato le sue composizioni (tra gli altri, Gianni Morandi, Edoardo De Crescenzo, Renato Zero…) e i modi svariati in cui possono nascere brani popolari come “Questi figli”, “Come mi vuoi”, “Spalle al muro”, “Notte americana” e “Così è la vita”…
La Nava ha anche accompagnato al piano la lettura di due poesie: ‘O mare, di Marco Junior Dentale, e Io non ho paura, di Florin Valentin, lette dagli autori che sono ospiti delle strutture riabilitative psichiatriche Spartaco/Gladiatore di Sant’Antimo e Tifata di San Prisco.

La seconda serata è stata introdotta dal giovane chitarrista Gian Piero Bencivenga che ha interpretato con gusto e padronanza un arrangiamento di Fausto Mesolella della “Pavane” di Grabriel Fauré.
Fausto Mesolella è una presenza che aleggerà sempre sul nostro Festival. Ci aveva deliziato, nella prima edizione, con le note della sua chitarra in un concerto trascinante e solitario. Alla seconda lo abbiamo celebrato con un brano suonato da Jennà, Mirko, Tricarico e Vittorio Remino. Ed ora è tornato con la materia della sua musica attraverso questa rilettura della Pavane…

Subito dopo, è stata la volta dell’inedito incontro dei Letti Sfatti con un quintetto di ottoni diretto dal Maestro trombonista “Tonino” Domenico Brasiello, accompagnato da Vincenzo Leurini (tromba), Francesco Amoroso (tromba), Luca Martigliano (corno), Alexandre Cerdà (tuba).
In totale, otto musicisti in scena, sapientemente alternati in varie formazioni che hanno dato al concerto un andamento eclettico e variegato in cui si sono susseguiti:
– brani in solo di Jennà Romano
– duetti con Mirko Del Gaudio (suo sodale di sempre), alla batteria
– duetti con Pasquale Di Resta, alle chitarre (Pasquale è diventato da poco il terzo elemento del gruppo. In questi pomeriggi ho avuto modo di fare molte chiacchierate con lui. È una bella persona con una profonda conoscenza musicale e mi auguro che possa suonare a lungo con Mirko e con Jennà)
– trii in formazione rock o pop
– brani arricchiti dagli ottoni del Neapolis Quintet Brass Ensamble.

La contaminazione è il leit-motiv di un festival che ha come prima parola della sua denominazione il Mediterraneo, un mare che unisce, separa e si riempie di cadaveri. In questo incontro abbiamo assistito a una produttiva e liquida miscela tra il repertorio dei Letti Sfatti e gli stilemi del quintetto classico di ottoni, in tutte le sue declinazioni, anche quelle che si fondono con il jazz o con la musica da banda.

Il concerto si è aperto con un’interpretazione per sola chitarra e voce di “Tu no”, dolente canzone d’amore di Piero Ciampi, il poeta maledetto livornese che è una sorta di nume tutelare e spirito guida dei Letti Sfatti (oltre ad aver vinto nel 2009 un premio a lui dedicato, nel 2012 Jennà e Mirko hanno anche dedicato a Ciampi un intero album arricchito da una splendida foto di copertina di Salvatore di Vilio. Peraltro, Ciampi era stato già evocato in questo festival nell’intro della troppo breve performance di Antonio Del Gaudio).

Foto di Di Vilio (cover Letti Sfatti)

A partire dal secondo, dal terzo e dal quarto brano in scaletta, “Zollette di stelle”, “Lei balla il mambo” e “Palmiro”, i suoni si sono via via andati arricchendo di nuovi elementi che hanno dato nuova vita a brani già di per sé avvolgenti e ben costruiti. E precipitiamo subito nel mondo dei Letti Sfatti fatto di storie d’amore mal corrisposto, malessere esistenziale e personaggi di periferia in un Paese che cambia lasciando indietro gli ultimi.

“Io sono quello
che non ha mai
avuto un ombrello
e quando piove d’amore
non si sa riparare…”

“Il suo nome è Palmiro,
Ma non lo ha scelto lui.
Suo padre era comunista
E ora è solo di sinistra.
Il suo nome è Palmiro,
Come un marchio sbiadito…”

Di seguito, i rimpianti di “La fiamma di una candela” si fanno più struggenti grazie agli interventi musicali di Pasquale di Resta che comincia a farci sentire un primo assaggio della sua chitarra elettrica suonata con l’archetto.

Il quinto brano, che è tra quelli che sono riuscito a videoregistrare quasi integralmente, ci permette di ascoltare il bel lavoro di arrangiamento dei fiati fatto da Brasiello. Si tratta di “Quello che ho di te”. Ascoltate quanto è bello il “bridge“.

Di seguito, è stata la volta della versione tradotta in napoletano dai Letti Sfatti del capolavoro di Piero Ciampi (rieccolo qua) “Il Vino”. Purtroppo, riesco a farvi sentire solo la coda del brano. Ma credo che sia sufficiente per farvi apprezzare l’arrangiamento vagamente dixieland dei fiati e il drumming deciso e sicuro di Mirko. Un’atmosfera ubriaca che ci lascia in bilico tra Ciampi, Totonno ‘e Quagliarella e il Tom Waits di The piano has been drinking (not me) o di Swordfishtrombones e di Bone Machine.

Tra gli applausi, Mirko e il quintetto si allontanano per lasciare sul palco Jennà e Pasquale che interpretano questa struggente versione di “Casandrino”, una canzone dedicata a un ragazzo che emigra nel degrado della provincia e perde la sua partita con la vita. Trovo molto suggestivi i suoni che Pasquale tira fuori dalla sua chitarra con quell’archetto che gli permette note lunghe come quelle di un violoncello. Ascoltate.

Con “Dietro quelle porte” si cambia atmosfera tornando all’energia percussiva di Mirko che ci regala anche un trascinante e coinvolgente assolo di batteria.
Ugualmente prezioso il suo lavoro che funziona come il clic di un metronomo per il brano seguente, in cui tornano a suonare tutti e otto gli elementi di questo concerto dei “Letti Sfatti allargati”.
Il brano è “Comincio a credere che”, di cui vi faccio sentire la bellissima coda con una tessitura armonica dei fiati che ho sentito varie volte nelle prove e che nella mia testa è diventata una specie di sigla del concerto.

L’ultimo brano prima del bis è una canzone dedicata a questa Italia qua che, guarda un po’, si intitola “La troia”.

Lungo applauso alla troia e poi il bis, che si apre con un brano dedicato a “Pantani”, che mette in dialogo il “Bartali” vincente di Paolo Conte con il destino sfortunato del “pirata”.

Segue una bellissima versione di “Stella di mare” di Lucio Dalla.
Jennà forse non lo sa (o forse glielo ho già detto, non mi ricordo), ma io lo ho cominciato ad apprezzare proprio ascoltando la sua versione percussiva di questo brano suonato da solo al bouzouki. Questa è un’altra versione da brivido che si avvale dell’apporto di Mirko e Pasquale.

L’ultimo brano del concerto è una ripresa di “Zollette di stelle” che potete ascoltare qua…

Insomma, se sabato non siete venuti, avete fatto male.

E avete fatto male anche se non siete venuti domenica, quando c’era il concerto-spettacolo di Massimo Masiello “Gli amici se ne vanno”, dedicato alle “note ineguali di Umberto Bindi”. Si tratta di una sorta di biopic teatrale scritto da Gianmarco Cesario e Antonio Mocciola e dedicato alla vita sfortunata e dolente di questo grande proto-cantautore genovese, condannato all’ostracismo dopo che fu rivelata la sua omosessualità. Molto convincente l’interpretazione di Masiello che si avvale anche di buone qualità vocali messe in risalto dagli arrangiamenti minimali ed essenziali di Jennà Romano.

E con questo spettacolo contundente e scomodo il festival è finito, gli amici se ne vanno…

Arrivederci alla prossima edizione
e grazie a tutti quelli che hanno dato una mano
o un pezzo del loro grande cuore.

L’ultimo giorno di lavoro

01 martedì Mag 2018

Posted by aitanblog in musiche, recensioni, vita civile

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cover, lavoro

È una settimana che sto pubblicando su FB e su Tumblr una selezione di video di versioni sghembe, creative, inaspettate e originali di alcune delle mie canzoni preferite. Un brano veramente bello si presta a continue riletture e reinterpretazioni che ci fanno scoprire ogni volta sapori nuovi e sfumature che ci erano sfuggite.

Oggi, in coincidenza con la festa dei lavoratori, ho scelto una serie di cover di “Construção”, capolavoro assoluto di Chico Buarque; una delle più belle canzoni mai scritte; un testo eccezionale con una struttura unica e inscindibile dal senso del brano; una costruzione del testo che sembra ripetersi davanti ai nostri occhi, “mattone su mattone, in un disegno logico“, come la costruzione edile in cui è impegnato nell’ultimo giorno della sua vita il lavoratore che è il protagonista del brano.
La descrizione di una tragica giornata portata avanti con 41 versi di 14 sillabe ciascuno, tutti terminanti con parole sdrucciole che danno al canto un ritmo ripetitivo che sembra ricalcare la giornata di questo operaio che negli ultimi versi della prima parte del brano inciampò nel cielo come un ubriaco fradicio / e fluttuò nell’aria come se fosse un passero / e finì a terra come un sacco flaccido / e agonizzò in mezzo al passaggio pubblico; / morì contromano disturbando il traffico; e nella seconda parte della canzone, con un leggero slittamento di senso: inciampò nel cielo come se sentisse musica / e fluttuò in aria come se fosse sabato / e finì a terra come un pacco timido, / agonizzó in mezzo al marciapiede naufrago; / morì contromano disturbando il pubblico; e, infine, nella terza e ultima parte, fluttuò in aria come se fosse un principe / e finì a terra come un pacco ubriaco; / morì contromano disturbando il sabato.

La descrizione tragica e mozzafiato di un fatto comune e unico come una morte sul lavoro condotta con un andamento crescente e un testo ipnotico, “mattone su mattone, in un disegno magico“; come se fossimo improvvisamente sprofondati in un incubo.

La prima versione di questo capolavoro è stata pubblicata in un album del 1971 che contiene anche una cover brasiliana di “4 marzo 1943” di Paolo Pallottino e Lucio Dalla (qui intitolata “Minha Historia”) e un bellissimo brano scritto con Vinícius de Moraes che ho sempre considerato la fonte di ispirazione di “Poster” di Claudio Baglioni, una cover non dichiarata; insomma, un plagio, non so quanto volontario (l’originale di Buarque-De Moraes si chiama “Valsinha”, andatevelo a sentire, magari nella versione italiana realizzata da Sergio Bardotti e cantata nel ’72 sia da Patty Pravo che da Mia Martini; sempre di cover d’autore si tratta, e negli anni ’60 e ’70, in Italia, se ne facevano tante e molte, belle assai).

In ogni modo, la versione di “Construção” che riporto qui è quella di Mônica Salmaso, un’interprete brasiliana molto dedita al canzoniere di Chico Buarque de Hollanda.

Ma vi consiglio di ascoltare anche la versione spagnola del cantautore uruguaiano Daniel Viglietti.

E, ancora di più, quella in italiano (sempre tradotta da Bardotti) interpretata in modo intenso, struggente e creativo da Enzo Jannacci:

Perché di lavoro si può anche morire.

Franco Del Prete Sud Express – La chiave tour, Prima tappa

16 venerdì Mar 2018

Posted by aitanblog in musiche, recensioni, stefania

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cd, stefania

Teatro Lendi – 15 Marzo 2018

Di ritorno dal concerto di presentazione de “La Chiave”, l’ultimo CD di Franco Del Prete, ex Showmen, ex Napoli Centrale, attuale Sud Express e prolifico paroliere.
Un concerto pieno di belle sorprese. La prima è stata vedere il teatro gremito di gente e Franco in piena forma coi suoi sfavillanti ed energetici 74 anni di età e 50 di carriera.

Il repertorio era fondato sulle canzoni dell’ultimo lavoro del progetto Sud Express (con musicisti tutti differenti, salvo Franco, rispetto all’esordio del 2009), ma ci sono stati anche alcuni significativi brani che hanno puntellato la carriera dell’immarcescibile batterista, paroliere e compositore frattese: da “Un’ora sola ti vorrei” (hit degli Showman) a “Go away” (tratta dal recente “Zitte! Sta arrivanne ‘o Mammone” dei Napoli Centrale in versione III millennio), e poi, via via, anche “E la musica va” (brano nato dalla frequente collaborazione di Franco con Edoardo de Crescenzo) e alcune canzoni del primo CD dei Sud Express (“Apache”), tra le quali spiccano “Maria Maddalena” (che ricordo cantata anche da James Senese e Lucio Dalla), “Veleno” e “A terra mia”. Uno dei momenti più toccanti è stato uno strumentale di Gragnaniello che immagino sia contenuto nell’album del 2011: Enzo Gragnaniello – Sud Express “Radice”.

Oltre al freschissimo Franco, sono stati tutti bravi i musicisti, gli ospiti, i cantanti e le coriste; cito qui (scusandomi con gli altri di cui non rammento il nome) il grande bassista Vittorio Remino (che, però, nel concerto era un po’ in ombra) e i due cantanti e musicisti Sally Cangiano (anche alla chitarra) e Arturo Caccavale (anche alla tromba, spesso sordinata, e al flicorno). Interessante il contrasto tra le voce graffiante del primo e quella limpida, spostata sul registro acuto, del secondo.

I brani del nuovo lavoro che mi porto dentro e che mi hanno preso al primo ascolto sono “Fiore ‘e limone”, “Cuori invisibili”, “Madre dolcissima”, “La chiave” (cantata dal buon Roberto Colella) e “L’aquilone”, prezioso riarrangiamento del brano di Paolo Morelli degli Alunni del Sole, quella canzone del secolo scorso che fa… shabadabadà, shabadabadà…

E su queste note, me vaco ‘a cucca’… shabadabadà, shabadabadà…

________________________________

Aggiornamento del 20 marzo:

Nella frenesia di questi giorni di doppi turni, scrutini, riunioni e ordinari giochi con la piccola, trovo finalmente il tempo per ascoltare con la dovuta attenzione l’ultimo CD di Franco Del Prete col progetto Sud Express.

Avevo scritto in un commento al post di Facebook in cui parlavo del concerto di presentazione dell’album, che forse non era il capolavoro di Franco, ma si trattava senz’altro di un buon lavoro.

Ebbene mi sono sbagliato. Mi ricredo.
“La chiave” va sicuramente annoverato tra i capolavori di mezzo secolo di carriera di Franco.

E la bambina ci balla su che è un piacere.

Il CD è uscito ufficialmente ieri. Non credo ci siano ancora in rete video, demo o canzoni liberamente pubblicabili qui.
Ma posso farvi leggere in anteprima qualche testo per darvi un’idea dei contenuti verbali di questo lavoro.

“Jamme jamme cammenamne e nun ce fermamme
Cammenamme cammenamne e nun ce fermamme
Chi ce sta arete nun ‘o penzamme
Chi ce sta annanze nun ‘o suppurtamme
E nisciuno e tutte e duje nisciuno sape addò jamme

Parlamme e nun ce capimme
Ce guardamme e nun c’è vedimme
[…]
Ce cercamme e non c’è truvamme
Ce chiammamme e nun ce sentimmo

Jamme jamme cammenamne e nun ce fermamme
Cammenamme cammenamne e nun ce fermamme
E nisciuno e tutte e duje nisciuno sape addò jamme”

“Fiore ‘e limone
Ajere nu criature
e mo guaglione
Fiore ‘e cerase
E chi si scorda cchiù
‘o primmo vase”

“Occhio per occhio
Dente per dente
E chesta è ‘a legge
dell’Antico Testamento
Je accire a figliete
E tu accire a figlieme
Je accire a te
Po’ tu accire a mme
‘O sanghe chiamma sanghe
Se sta allaganno ‘o munno
E si nun ‘a furnimmo
Jamme tutte ‘nfunno”

E poi “Maria madre dolcissima” con
“Nu figlio padrone de’ stelle
Nu figlio arete ‘e cancelle” e questa struggente chicca su “L’Amicizia” scritta con Gianni Guarracino:

“St’ammicizia è ‘na cannela
L’appicciammo tutte ‘e sere, tutte ‘e sere
Nun se cunsuma maje…”

Sono versi semplici.
Sono versi di grande efficacia e capacità comunicativa.
Valgono già da soli l’acquisto del CD.

Accattatavillo!

Le parole di MUSIC

06 martedì Mar 2018

Posted by aitanblog in musiche, recensioni

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music

All’inizio di quest’anno è stato pubblicato dalla Centaur Records (etichetta statunitense) l’ultimo cd solistico di Francesco “Perzico” Di Giuseppe intitolato semplicemente (ed icasticamente): MUSIC.

Ora l’album è ascoltabile ed acquistabile su iTune all’indirizzo
https://itunes.apple.com/us/album/di-giuseppe-music/1350875685

A me è toccata la piacevole incombenza di scrivere le note di copertina dell’album fisico e, visto che nella versione virtuale non sarà possibile leggerle, ve le copincollo qua.

_______

Da qualche giorno Francesco mi parlava di queste registrazioni per chitarra classica solista che aveva realizzato in modo più o meno improvvisato sulle suggestioni di un viaggio in cui aveva raggiunto Carmen, la sua compagna di tutta la vita, che si trovava a Firenze per una tournée teatrale. Ed è di Carmen la foto che fa da copertina all’album e che rappresenta l’insegna un po’ cadente di un negozio fiorentino di musica.

Francesco mi ha raccontato che, di ritorno nella loro casa di Roma, si è messo a suonare e a registrare quello che gli arrivava alle dita partendo da qualche tema che aveva composto proprio a Firenze e sviluppando nuove armonie, melodie e ritmi sulle suggestioni delle foto e dei ricordi maturati in questo e in altri viaggi (reali e immaginari) e nell’infanzia e nell’adolescenza trascorsa nella sua Napoli. Un artista rielabora, mischia le carte, rimugina, non butta via niente. È così che è nata la maggior parte delle musiche di questo disco. Composizioni realizzate di getto, ricercando, ripescando nella memoria e suonando senza spartito. Brani che in un certo senso è stato più facile comporre e suonare al momento che trascrivere successivamente su pentagramma. In fondo, è molto probabile che siano nate così anche molte cellule melodiche e perfino interi capolavori di Bach e di Frescobaldi, di Mozart e di Scarlatti. Per non parlare di tanti splendori del jazz e del miglior rock che vengono da assoli improvvisati direttamente davanti ad un pubblico o nel privato di una sala di registrazione.
Da quanto ho saputo attraverso le nostre chiacchierate è venuta fuori così, fluidamente e senza troppi sforzi creativi, quasi tutta la musica di questo album che ho gradito fin dal primo ascolto e che ho apprezzato e goduto sempre di più negli ascolti successivi. Un album suonato con “sprezzatura” rinascimentale e dedicato alla Musica, l’altra insostituibile compagna di tutta la vita del chitarrista e compositore napoletano Francesco Di Giuseppe.

I primi due brani che aprono l’album sono una specie di appassionata e intima dichiarazione d’amore per la musica e per il suo potere evocativo. Ascoltando mi pare di vedere questi due artisti napoletani che si muovono a passo di danza per i vicoli di Firenze. All’improvviso si apre uno squarcio e si trovano di fronte ad alcune delle più belle meraviglie architettoniche del rinascimento italiano; hanno lasciato l’intimità dei vicoli, sono “Tra la Gente”, la strada brulica di turisti e la musica si fa via via più ritmata e trascinante.
Su quest’onda arrivano le sonorità jazz-tango del terzo brano (“Fumo”), una sorta di rapsodia in cui si rincorrono i sapori eclettici del gusto di Francesco, un chitarrista che passa con leggerezza e profondità dalla classica al jazz, dal popolare al rock, dalla musica napoletana alla musica per film, un improvvisatore libero di pescare ovunque ci sia qualcosa di buono da rimaneggiare e fare proprio.
Il quarto brano ci riporta a sonorità e a strutture più classiche, con il “Buio” che cala sui due viandanti e la musica che continua a fluire tra i cromatismi del basso e i glissati dei cantini.
Con “Ritrovarsi” e con “Hai ragione tu” torna la passione e il sentimento innervato di nostalgia della prima traccia. In questi due brani la chitarra parla d’amore ad ogni nota e in ogni battuta sento riecheggiare frammenti della tradizione melodica italiana e napoletana, da Puccini a Rota, da Modugno a Murolo, da Umberto Bindi e Gino Paoli a Pino Daniele.
Molto più complesse ed anche più virtuosistiche le “Voci” della settima traccia. Un altro di quei brani in cui si mette in evidenza la versatilità di Francesco che va dalle forme più classiche e consuete agli esercizi più tecnici che sembrano evocare gli studi di Villa Lobos e le rielaborazioni di Roland Dyens su temi popolari.
“La girandola” è, invece, un delizioso divertissement in chiave ragtime. Ascoltandolo si viene improvvisamente trasportati in un allegro locale americano, dove la gente balla e si diverte mentre un chitarrista dalla capigliatura folta e danzante suona e ammicca alla sua donna.
Negli “Orizzonti” della nona traccia, la chitarra la fa da protagonista: si trasfigura, si fa vento, ci lascia sentire i suoi mutevoli timbri, dai bassi di primo manico ai cantini, e poi si traveste da arpa e scompare in dissolvenza.
L’ultimo brano è un delicato e appassionato inno alla libertà creativa che sento come un’altra definitiva dichiarazione d’amore per la musica e per la vita. Scorre fluido come ogni traccia di questo delizioso album e, all’ultima nota, viene voglia di risentire tutto. Da Capo al Fine.

______

Nel CD c’è anche la traduzione inglese di queste “liner notes”, ma, se le volete leggere, ve lo dovete comprare in versione fisica e conservarvi il disco tra le buone cose del tempo che fu.

Scimmie deforestate e richiami della giungla

05 lunedì Feb 2018

Posted by aitanblog in idiomatica, musiche, riflessioni, vita civile

≈ 2 commenti

Tag

emigrazione, immigrazione, memoria, migranti, napoli

“You can take the monkey out of the jungle, but you can’t take the jungle out of the monkey.“

“Puoi portare via la scimmia dalla giungla, ma non puoi portare via la giungla dalla scimmia.”

È un proverbio bellissimo che, da quello che vedo nella rete, viene spesso usato con intenti razzisti nell’area WASP degli Stati Uniti, quella dei bianchi, anglosassoni e protestanti che votano Trump e hanno nostalgia degli schiavi piegati nelle piantagioni e inceneriti nei roghi del Ku Klux Klan.

A me, invece, questo concentrato di saggezza popolare fa pensare a un legame forte con le proprie origini, un discorso sacro di “roots“, di radici… Leggendolo mi viene da ripensare all’impossibilità di cancellare i profumi, i panorami, le favole, i suoni e i sapori della nostra infanzia; i luoghi della memoria che continuano ad abitarci per sempre, ovunque ci porti il cammino della nostra vita.

“You can take the man out of the place, but you can’t take the place out of the man.“

Un uomo, qualunque uomo, può essere allontanato o può andarsene di sua volontà dai luoghi della sua infanzia, ma quei luoghi non possono essere allontanati da lui in nessun modo.

’A canzone ’e Napule
(versi di Libero Bovio,
musica di Ernesto De Curtis)

Me ne voglio i’ all’America
ca sta’ luntano assaie.
Me ne voglio i’ addò maje
te pozzo ‘ncuntrà cchiù.

Me voglio scurdà ’o cielo,
tutt’e canzone, ’o mare,
me voglio scurdà ’e Napule,
me voglio scurdà ’e mammema,
me voglio scurdà ’e te.

Nun voglio cchiù nutizie
d’amice e d’e pariente…
Nun voglio sapè niente
’e chello ca se fa!…

Ma quanto è bella Napule!…
Stanotte è bella assaie!..
Nu l’aggio vista maje
cchiù bella ’e comme a mò!..

Comme mme scordo ’o cielo?
Tutt’e canzone e ‘o mare?
Comme mme scordo ’e Napule?
Comme mme scordo ’e mammema?!
Comme mme scordo ’e te?!

“You can take a Neapolitan out of Naples, but you can’t take Naples out of a Neapolitan.“

Se po’ purta’ nu napulitane luntane ‘a Napule, ma nun se po’ purtà Napule luntane a ‘nu napulitane.

Soprattutto, quando si fa sera.
Perché lo dice pure “Santa Lucia luntana” che

Se gira ‘o munno sano,
se va a cercá furtuna…
ma, quanno sponta ‘a luna,
luntano ‘a Napule
nun se pò stá!

E so’ lacreme, lacreme napulitane…

Qui cercavo una bellissima sequenza di Catene di Raffaello Matarazzo, un filmone melodrammatico del 1949 in cui Roberto Murolo fa la parte di un emigrante ben intonato che canta Lacrime Napulitane su un bastimento diretto in America; ma, incredibile dictu, non l’ho trovata in rete. O meglio, su YouTube c’è il film intero, ma non avevo voglia di guardarmelo tutto per cercare quel paio di indimenticabili minuti di un video che, uno di questi giorni, mi piacerebbe montare con scene dei barconi del Mediterraneo zeppe di immigrati neri o molto abbronzati.

Infatti, immagino che questa profonda malinconia pervada anche le notti e i giorni di un magrebino, di un nigeriano, di un polacco, di un argentino, di un siriano, di un moldavo o di chiunque altro sia costretto a vivere lontano dalla sua terra…
Immagino che qualunque immigrato porti dentro di sé la geografia dei luoghi in cui è nato.
Immagino che anche un nomade abbia impressi nella sua memoria e in cuor suo il finestrino di una roulotte o di un treno, il panorama mutevole che correva in direzione contraria al suo sguardo e la voce di sua madre, di suo padre o dei suoi fratelli.

Очи чёрные, очи пламенны
и мaнят они в страны дальные,
где царит любовь, где царит покой,
где страданья нет, где вражды запрет.

Occhi neri, occhi fiammanti,
mi attirano verso terre lontane,
dove regna l’amore, dove regna la pace,
dove non c’è sofferenza, dove la guerra è bandita.

Forse ci separiamo tutti dalla nostra infanzia, ma è la giungla della nostra infanzia che non si separa mai da noi.

I Funerali di Frungillo

08 sabato Lug 2017

Posted by aitanblog in musiche, recensioni

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Tag

tradizione

I professori della tradizione popolare non sanno, dimenticano o fingono di non sapere che la maggior parte delle tradizioni sedicenti popolari nascono da vere e proprie invenzioni pseudopopolari o dall’incrocio di contaminazioni di cui si è persa l’origine e dimenticata la fonte.
Tutto quello che è veramente popolare e (in coincidenza) tutto ciò che è gradito alle classi subalterne (ed anche quello che è grato alle classi dominanti, in fondo) è soggetto a cambiamenti continui. I gusti cambiano e il bello di oggi sarà il ridicolo di domani (per dare concretezza a questo concetto, basta andare a ripesacre un foto di 30-40 anni fa ed osservare come vestivamo o come eravamo pettinati tra gli anni ’70 e gli anni ’90…). Certo esistono anche i ricorsi e i riflussi, ma anche questi recuperi della tradizione non saranno mai gli stessi dei flussi e dei corsi che scorrevano nelle vene della realtà del passato (in gergo critico potremmo parlare di “manierismi”). E se anche potessero darsi nella realtà ricorsi identici ai corsi trascorsi, questi ri-corsi sarebbero comunque cambiati dalla diversità, dalla varietà e dalla novità del contesto in cui si andrebbero a innestare.

Il tipico argomento dei tradizionalisti: “Non si può cambiare perché si fa così da tanto tempo”, si dovrebbe cambiare PROPRIO PERCHÉ si fa così da tanto tempo.

Sono cose note dai tempi della morte di zi’ Frungillo, quanno veneve ‘o pruffessore e diceva ca sapeva tutto isso ma… ‘a musica nun era bbona e nun sapeva suna’.
E, a pensarci bene, siamo tanti i professori che parlano e sparlano al funerale di zi’ Frungillo (che non esiste ed è tutta una invenzione pseudopopolare pure lui), ma sono in pochi a riuscire a far ballare la folla senza manco “uscire per televisione” o avere alle spalle una major che li spinge e li supporta.

Poi, è chiaro, esistono Bach, Charles Mingus e John Coltrane, ma questa è un’altra storia…

 

 

___________________________

Senza essere stato chiamato in causa da nessuno, mi sono inserito con questo textículo in una polemica che sta scoppiando in rete tra Daniele Sepe e uno zampognaro fondamentalista di cui non ricordo il nome.

(Incredibile a dirsi, la causa scatenante di questa colta polemica è la simpatica hit estiva di Enzo Savastano “Amico zampognaro”. Ascoltatela!)

 

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