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Il composto e composito furore di Porfirio Rubirosa

04 sabato Mar 2023

Posted by aitanblog in musiche, recensioni, riflessioni

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Porfirio Rubirosa, vizi

Recensione dell’ultimo album del cantautore con nome da latin lover

Il Furore Composto di Porfirio Rubirosa

Un album, non una raccolta di canzoni venute fuori a cazzodicane nel tempo, ma un album composito e unitario come si faceva una volta. Il Furore Composto di Porfirio Rubirosa. Un concept album e un album concettoso assai – a tratti pure concettista – che in una mezz’ora abbondante, senza soluzione di continuità, senza pause tra una traccia e l’altra (salvo il passaggio dal lato A al lato B per chi compra la versione in vinile), racconta uno a uno i sette vizi capitali; ogni titolo un vizio in cui riflettersi e rivedersi un poco deformati come nelle specchio delle acque di un fiume che fluisce mentre restituisce l’immagine di noi e del mondo che ci gira intorno.

Di primo acchito mi viene da pensare a Non al denaro non all’amore né al cielo di De Andrè, chissà poi perché.
Forse per i titoli tutti preceduti da un articolo indeterminativo, forse per la copertina surrealdadaista, forse per la voce che scandisce in modo chiaro le parole, forse per l’unitarietà dell’intero album. Anche se lo so che Porfirio è più ciampiano e dylaniano (nel senso di Bob) che deandreano.

Ma lui, da buon dadaista, conosce la storia e pesca dappertutto, dai classici ai contemporanei, per tutto stravolgere e riproporre come i baffi attaccati sulla Gioconda o un cesso esposto in un museo. La sua è una poetica delirante, citazionista ed esperpéntica che ti restituisce una realtà deformata e illuminata da guizzi di intuizione che vengono da vicino e da lontano.

E infatti, appena lasci partire il disco, la stanza si riempie di una voce spiazzante che parla in greco antico; un po’ come le prime battute di Arbeit Macht Frei degli Area riempivano la stanza d’arabo e profumi d’oriente.
Quello che ascoltiamo è niente di meno che un testo di Omero, il primo degli aedi, il cantore dei cantori della cultura occidentale che ci parla della iubris, la superbia che scatenò la guerra di Troia. Ma non vi spaventate, il lamento di Tersite (lo “sfrontato”) dura meno di un minuto; dopo comincia Porfirio a cantarvi la perseveranza del vizio di Agamennone oltre duemila anni dopo le storia dell’Iliade e l’ira funesta che infiniti danni addusse.

Eccolo qua, dunque, Porfirio Rubirosa, il cantautore che ha rubato il nome a uno scapicollato diplomatico, pilota automobilistico e playboy latino (morto schiantato contro un albero a Parigi, con la sua Ferrari, dopo 5 ricchi matrimoni e decine di relazioni sentimentali che comprendevano nomi evocativi e incredibili come Marilyn Monroe, Dolores del Río, Ava Gardner, Rita Hayworth, Soraya, Kim Novak e Zsa Zsa Gábor), eccolo qua, il novello Porfirio che ci dà la sua versione contemporanea di Un superbo.
Una superbia della nostra epoca in cui ognuno si sente speciale perché ognuno può godere dei suoi warholiani 15 minuti di celebrità (“In the future, everyone will be world-famous for 15 minutes“).

Ci sentiamo tutti
Un po’ speciali
Con la paura
Di esser normali
Mia figlia alla primaria è
La prima della classe
Il mio bambino a calcio è
Un vero fuoriclasse
Sentissi come suona la pianola
Anche al mio cane manca la parola
[…]
Povera Italia
Nulla va dritto
Ci vorrebbe lui…
O il sottoscritto

Ma in fondo quella che regna è la paura, la paura di invecchiare dimenticati, la paura di non essere esistiti, di morire invisibili.

Ci sforziamo tanto
Di esser qualcuno
Per il terrore
Di esser nessuno
Come i vampiri
Fuggiam gli specchi
Nel desolato stillicidio
Del diventare vecchi

In un crescendo di schitarrate elettriche postpunk, la superbia sfuma nella seconda traccia che, a ritmo di valzer, scivola nel vizio comune di Un avaro roso da un’altra paura, la paura di non farcela ad affrontare un futuro sempre più oscuro e pieno di incertezze.

Ho paura del futuro
Di un licenziamento prematuro
Di finire sotto un ponte
[…]
La mia casa devastata da un ciclone
Rovinato dalla crisi del mattone
[…]
Ho paura quando vedo un mussulmano
Quando sento puzza di metano
Ho paura dell’ago di una siringa
Della spina in gola se mangio un’aringa
Ho paura della luce spenta
Di chi si fa ragione con violenza
Di chi è gentile e mi invita a cena
Per poi piantarmi una forchetta sulla schiena
[…]

Insomma, l’avaro è uno che ha paura di tutto e di tutti, perfino dei linotipisti, che sembrano venuti fuori direttamente dal mare profondo di Lucio Dalla; e allora, si rinchiude in se stesso e costruisce steccati, muri e barriere.

Ho paura di restare solo
Che rispuntino i contagi di vaiolo
Di morire di morte violenta
È per questo che non volo
E pertanto è meglio che non spenda niente
Che mi astenga da contatti con la gente

Subito dopo, con un atteggiamento uguale e contrario a quello dell’avaro, arriva Un lussurioso, uno che i contatti li cerca, tutti i contatti possibili, ma non si sa quanto reali o virtuali; come un hikikomori che consuma porno dal chiuso della sua cameretta in cui non esce più nemmeno per mangiare, e ci sciorina tutto l’elenco delle donne (reali o immaginarie) con cui ha consumato giornate e nottate d’amore.
L’elenco è gustoso e divertente. Fluisce in modo perfino scanzonato (anche nei versi più contundenti) fino a una coda che ci riporta dritti dritti su su fino a un orgasmo pinkfloydiano che cita senza pudore gli spasimi lirici di The Great Gig in the Sky (l’assolo vocale è di Sara Lupi).

Anna faceva l’amore con la luce spenta
Federica non godeva neppure se non era violenta
Chiara ripeteva ogni volta che il sesso è gioia
Margherita si eccitava soltanto se la chiamavi troia
E io
Io me ne stavo da dio
Come sui banchi di scuola
Nudo tra le lenzuola
Con Francesca l’ho fatto un’estate nel cesso di un treno
Schizzinosa come Rita, nessuna, non lo toccava nemmeno
Alessandra lo negava sempre, ma voleva dei figli
Sonia non si accontentava mai, e dispensava consigli

E così via, con Loredana che lo voleva in vesti da ufficiale nazista, Giovanna l’igienista che pretendeva che facesse sempre prima il bidet, Marta seguace del poliamore, Maria che si guardava allo specchio, Jenny che dopo piangeva, Eleonora e le sue manette e perfino un intermezzo di Marylin con la voce di Sara Lupi che sussurra Bye, bye Mister President.

Poi, restando sempre così, in equilibrio instabile tra la leggerezza e la profondità, Porfirio veste le vesti di Un invidioso, un odiatore seriale che esprime tutta la sua contrarietà verso gli intellettuali, la pioggia, il sole, i benpensanti, gli anticonformisti, gli ignoranti, “gli esseri pensanti, vivi, morti, donne, uomini”…

Odio proprio tutti quanti
Odio i vecchi ed il concetto che si stava meglio ieri
Tutti quanti gli incendiari c’han le tute da pompieri
Odio i giovani che godono nel dare dispiaceri,
Una cosa è certa, che si stava meglio ieri
[…]
Odio politici, tifosi, preti, santi, imprenditori,
attori, giudici, avvocati, odio pure i cantautori
Odio tutto, anche l’odio, odio pure il sottoscritto,
È una gara in solitaria in cui non esci mai sconfitto

Un odio che monta e si trasfigura nell’invidia seriale del social hater che passa la vita a vedere la vita degli altri che scorre su uno schermo piatto che gli fa da finestra e da specchio.

“Nel frattempo un nuovo vizio” e, così, “all’improvviso”, arriva Un goloso che mette in mostra il suo attaccamento per il cibo andando a spasso nel tempo, avanti e indietro, da Lutero a Carlo Magno e a Leone III, da Rabelais a Sartre a dal gourmet Auguste Escoffier a Dante ed alla sua condanna eterna per i peccati di gola.
Una ballad lenta e cullante arricchita da suadenti e insinuanti assoli di chitarra che non riescono a nascondere un vuoto incolmabile che nessun cibo riuscirà a soddisfare.

Ma di questo vuoto ne ho abbastanza
Che non lo riempie una pietanza
Mi squarto la pancia col taglierino
E poi mi estraggo l’intestino
In cerca di risposta e di speranza
Ma trovo solo cibo in abbondanza

In coda, il tenore Jacopo Pesiri canta il passo della Divina Commedia, dedicato a Ciacco, il goloso (Inferno, VI, vv. 34-75).

Non finisci neanche di digerirlo e già è la volta di Un iracondo.
Un brano lento e arpeggiato, persino commosso, sui rapporti familiari e l’influenza che hanno i vizi dei padri sulla vita dei figli.

Quel che si dice a volte in presenza di un bambino
Può minarne la vita, segnarne il destino
Se ora io sono, se sono quel che sono
Un’impalcatura di difetti che sostiene un uomo
Ti devo soltanto la mia ossessione
Di essere il contrario di te in ogni mia azione.

Uno dei brani più belli dell’album, se mi è concesso separare la parte dal tutto.

A seguire, dopo un bridge in cui si dichiara che il testo precedente era tutto un sogno, al suono incalzante di un ukulele in stile hawaiano, arriva l’ultimo pezzo del mosaico, l’ultimo vizio, l’ultimo peccato capitale, quello di Un accidioso.

Una bella ballata che racconta di una coppia di contadini, di un mulo e della gente accidiosa che dal bar li critica sia che in sella al mulo ci sia solo lei, sia che ci sia solo lui, sia che ci siano entrambi, sia quando decidono di non montarlo affatto, il mulo.
Alla fine, i due contadini decidono di fare del mulo un brasato ed abbandonare la vita dei campi per darsi anche loro all’accidia della vita di città. Ma è già lì una nuova coppia di paesanotti da criticare standosene seduti al bar del paese, o a casa, dietro lo schermo di un computer o di un telefonino.

I paesani sghignazzano al fresco dell’ombra di un muro scrostato fumando Muratti:
“Questi c’hanno il mulo e neppure ci salgono sopra…più scemi che matti!”
Ora la moglie è a casa alle prese col mulo, col mulo brasato
Nei campi l’erba ormai è alta, è tutto, è tutto abbandonato
Il contadino è sempre al bar con gli amici, con gli amici che beve
Poi un giorno un nuovo contadino, con la moglie ed il mulo, arriva in paese…



I sette vizi capitali finiscono qui.
Ma ti restano dentro tanti suoni e tante parole che dicono anche dei tuoi vizi e dei tuoi peccati, chiuso in una stanza che ti tiene sempre più appartato dal mondo e separato dalla realtà extravirtuale, con i suoi afrori, i suoi odori, le puzze, i suoni, i lividi, le carezze e i sapori. Con le sue gioie e i suoi furori antieroici e composti.



____

Note pratiche

L’album, prodotto artisticamente da Fabio Merigo, si può acquistare in vinile o in CD, scrivendo all’etichetta Isola Tobia Label per riceverlo, con tanto di autografo di Porfirio Rubirosa, direttamente a casa, senza muovere il culo dalla sedia.

L’utile e il dilettevole

21 martedì Feb 2023

Posted by aitanblog in immagini, recensioni, riflessioni, versiculos

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poesia, poeti, versi

Quando scrivo poco, penso molto.

Considerazioni sulla scrittura poetica con molti riferimenti ai classici e con i moderni nascosti tra le righe del non detto.

…

“[A]ut prodesse volunt aut delectare poetae
aut simul et iucunda et idonea dicere vitae”
(Orazio “Epistole”, Libro II Epistola III, “Ars poetica”)

Per quanto Orazio abbia sostenuto che “i poeti si propongono di provocare giovamento o diletto, oppure di dire a un tempo cose piacevoli e utili alla vita”, l’esperienza insegna che tra l’utile e il dilettevole i più, tra i versificatori, si inclinano sul versante del dilettevole.

E non è (solo) una questione edonistica.
In fondo, suscitare emozioni è una parte preponderante del loro mestiere e probabilmente risulta più agevole mettere insieme parole attentamente scelte, autenticamente ispirate ed esteticamente appaganti che provare a portare giovamento insegnando e divulgando cose che difficilmente si possono insegnare, oppure offrendo a chi legge specchi in cui ogni attento fruitore possa riconoscere parti di sé o del mondo in cui vive.

In sottofondo una mia storpiatura di Poesia, canzone scritta da Marco Luberti e Amerigo Paolo Cassella con musica di Riccardo Cocciante e pubblicata nell’aprile del 1973, nell’album Pazza idea di Patty Pravo.



In un certo senso, possiamo dire con Leopardi che, mentre può esistere una poesia inutilmente piacevole, non potremmo mai definire poesia un testo utile ma non dilettevole.

“La poesia può essere utile indirettamente […] ma l’utile non è il suo fine naturale, senza il quale essa non possa stare, come non può senza il dilettevole, imperocché il dilettare è l’ufficio naturale della poesia“.
(Leopardi, “Zibaldone”, pensiero del 1817)

In altri termini, per quanto non esistano scorciatoie o facili ricette, sappiamo che, quando l’impasto riesce bene e il lettore è ben disposto, si innesta la magia e scatta il godimento fruitivo in modo indipendente dal contenuto etico o didascalico dei versi.

Ma in fondo (ed anche in superficie) contano poco i buoni propositi del poeta poetante.
Spesso ci piacciono cose che sappiamo per certo o per sentito dire che non ci fanno bene, spesso desideriamo perfino ciò che può, con tutta probabilità, farci (del) male. Insomma, mi pare evidente che i meccanismi del desiderio e del piacere sono quasi sempre scollegati dai concetti di utilità e di benessere.
In qualche modo, la lettura di versi ben concepiti solletica gli stessi gangli nervosi del piacere, e il piacere è manifestamente indipendente dalla ragione e dal torto.
(Credo che Octavio Paz si riferisse proprio a questo collegamento col piacere quando scrisse da qualche parte: “La poesía es erotismo verbal“. E mi pare evidente che, per certi seduttori in forma scritta, risulti più facile essere attraenti o apparire interessanti che rendersi utili ai propri amanti).

Poi è chiaro che ci sono maestri che hanno saputo scuoterci e segnarci un cammino dilettandoci e maestri che ci hanno dilettato scrivendo cose immediatamente utili: lezioni di vita; istruzioni per il montaggio di aeroplani di carta; ricette per pozioni magiche o uova fritte; ammaestramenti sulla vita di santi e santoni, sull’arte della guerra e sulla pace universale; indicazioni sulla realizzazione di un orto concluso e insegnamenti di etica, di morale o di politica.
Poeti della razza e della stazza di Eraclito (che annovero tra i poeti più grandi), Esiodo, Lucrezio, Virgilio, Juan de la Cruz, Teresa d’Ávila, Trilussa, Borges, Rafael Alberti, Rodari, Gloria Fuertes e Bertolt Brecht. Poeti come Dante Alighieri e T.S. Eliot che ci hanno messo in connessione col passato e col presente, per aiutarci a raggiungere una comprensione più profonda di noi stessi e della realtà in cui siamo immersi ed emersi.
Poeti che hanno preso tutti i punti del “poetry slam” mescolando l’utile e il dilettevole in giuste dosi per creare una poesia che ci nutre, ci delizia e ci offre sprazzi di luce tra le sue combinazioni di vocali e consonanti.
“Omne tulit punctum, qui miscuit utile dulci, Lectorem delectando pariterque monendo“. Di nuovo Orazio dalle pagine dell’Ars poetica (versi 342- 343).

Quante cose ho imparato leggendo i loro versi utili, dilettevoli e interessanti e quante emozioni mi hanno dato mentre apprendevo e imparavo… Quante storie d’amore ho avuto con le righe brevi delle loro pagine! Un erotismo un po’ di testa, qualche volta, ma molto intenso e appagante, per lo più.

“Che se altri richiedesse se la poesia sia utile o no, io a questo risponderei ch’ella non è già necessaria come il pane, né utile come l’asino o il bue; ma che, con tutto ciò, bene usata, può essere d’un vantaggio considerevole alla società. E, benché io sia d’opinione che l’instituto del poeta non sia di giovare direttamente, ma di dilettare, nulladimeno son persuaso che il poeta possa, volendo, giovare assaissimo. Lascio che tutto ciò che ne reca onesto piacere si può veramente dire a noi vantaggioso; conciossiaché, essendo certo che utile è ciò che contribuisce a render l’uomo felice, utili a ragione si posson chiamare quell’arti che contribuiscono a renderne felici col dilettarci in alcuni momenti della nostra vita […].”
La quadratura del cerchio nel celebre “Discorso sopra la poesia” (1761) di Giuseppe Parini.
E, più tardi, anche nel dichiarato intento manzoniano di perseguire “l’utile per scopo, il vero per soggetto e l’interessante per mezzo“.
(Alessandro Manzoni, “Lettera sul romanticismo al Marchese Cesare d’Azeglio”, 1823)

Tuttavia, è chiaro che ci sono periodi di crisi personale o epocale in cui si ci concentra tutti sul mezzo, mettendo da parte l’utile e il vero.

Ma ci sono anche momenti in cui bisogna imbracciarle, le cetre, anziché appenderle alle fronde dei salici. Per dire quello che si deve dire suscitando l’interesse di chi ci legge e spargendo diletto tra i nostri amanti/e-lettori (quelli che scelgono di trascorrere con le nostre parole alcuni intervalli della loro vita troppo preziosa per essere sprecata a leggere cose che si leggono futilmente e senza piacere). A limite di questo discorso mi viene da dire che, con le parole, si fa l’amore con il rischio e la possibilità che possano essere generative e da parola possa nascere parola. Altro che “art for art’s sake“! L’arte poetica autentica è creativa e generativa. Non ha parole giuste o parole sbagliate, ma solo combinazioni sterili e combinazioni produttive che vengono alla luce con l’aiuto del lettore e che, a loro volta, indicano nuove strade agli illuminati.

(Senza contare l’estremo vizio di soggettività insito nei concetti di “dilettevole”, di “interessante”, di “vero” e di “produttivo” che si rincorrono in questo testo senza mai afferrarsi del tutto, proprio in virtù della loro imprendibile, personale e variabile essenza.)

(In questa ulteriore parentesi mi viene da osservare che, in ogni modo, girano per i libri, per le riviste e per la rete decine e decine di filastrocche di qualità molto superiore a decine di migliaia di liriche di “poeti laureati” in cui non scorre né il sangue né la ragione: sprechi di tempo, carta e spazi fisici o digitali che avrebbero fatto meglio a restare nella mente dei loro creatori, ma che magari hanno dato loro la soddisfazione effimera di un parto indolore e improduttivo. Fuffa né vera, né utile, né dilettevole, né interessante. Metafore di seconda mano, discorsi inutili, forme incerte e concetti consunti dal tempo. Poesie/sveltine, versi facili facili che danno il piacere, a lettori poco avvezzi all’arte amatoria, di aver goduto anche loro di una storia d’amore con la poesia. Ma in genere si tratta di roba che genera poco altro che un fenomeno editoriale o qualche intervista su qualche giornale che leggono in pochi o nessuno e che è destinato a durare lo spazio di un mattino).



Ma poi, alla fine dei canti, la questione è sempre una.
Utile, interessante, vero, dilettevole, poco importa…
L’arte non ha regole, obiettivi e finalità precise e univoche.
Non è tanto come DOVREBBE essere e come dovrebbe farsi, il problema; il problema dell’arte è come POTREBBE essere e come potrebbe essere fatta in un dato momento della storia per svolgere la sua sfuggente funzione e rimanere nel tempo oltre quel dato momento della storia; per continuare a parlare oltre lo spazio di quel mattino che sfuma già in un altro tramonto della nostra in/civiltà e per fare di chi legge una persona più consapevole e capace di senno, senso e intendimento.

Scrivendo ‘sto sonetto mi propongo,
a chi lo leggerà di dar piacere,
ed anche un po’ di senno e intendimento
su quello che io sento e dissento


Tutto il resto è tutto il resto su cui non dico né insisto.

#Sanremo_è_Sanremo

08 mercoledì Feb 2023

Posted by aitanblog in recensioni, riflessioni, vita civile

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ennesima_edizione, italia, Sanremo

Report della prima serata scritto da uno che non l’ha vista né sentita.



Ieri non l’ho visto Sanremo (la giustifica la porto domani), ma stamattina non riesco a rinunciare al vostro dopofestival.

Da quello che ho capito, Benigni ha fatto il giullare del presidente; il presidente è riuscito a restare sveglio nonostante la noia e l’età; Blanco ha fatto la parte hendrix-månneskiana del distruttore, interpretando il sentimento di tanti che si sono rotti il caxxo, incluso il presidente che per un attimo avrà sognato di essere anche lui su quel palco a calpestare fiori; Morandi ha scopato, che, alla sua età, pure è una notizia; i ragazzi, invece, fanno un sacco di mmuina e non scopano più; i Pooh hanno fatto i Pooh, ma senza più la voce dei Pooh; Elodie è bbona; Anna Oxa c’ha ancora la voce; Mengoni pure ce l’ha la voce di Mengoni; Ariete s’è persa, e mi dispiace, perché a mia figlia ce piace Ariete, e lei mi sembra pure una brava figliola; tanti cantano, ma nun sapene canta’, e se_ci_andavo_io_a_Santemo_…; Zelensky nun e’ venute, teneva ‘a guerra ‘ncapa; i testi sono sempre più brutti e insignificanti; le musiche sono sempre più brutte e insignificanti; il pubblico è sempre più brutto e insignificante; gli orchestrali sono sempre gli orchestrali, però le canzoni che, a furia di sentire e risentire, canteremo per una stagione sotto la doccia, al primo ascolto hanno fatto mediamente la palla alla gran parte degli ascoltatori in cerca di colpi di scena per cercare di non addormentarsi nonostante l’ora tarda e l’età; insomma, il festival ogni anno non è più quello di una volta, e anche noi, non siamo più quelli di una volta; ma, soprattutto, Chiara Ferragni s’è scritto il #monologo_da_sola (e si vedeva pure, da quanto ho sentito e risentito).



Tuttavia, quello che davvero conta e canta è che Sanremo è Sanremo, noi teniamo la Costituzione più bella del mondo: tutti possiamo esprimere il nostro pensiero liberamente in un vociare indistinto, un brusio, un coro in cui ognuno prende per oro la sua stecca e non fa niente se non si capisce niente, tanto cantiamo ma nessuno ci sente.

E io pure me la sono suonata, me la sono cantata e non ho detto niente.

E non l’ho neanche vista la prima serata del festival.
Ma è come se l’avessi vista.
Questa, quella di domani e quella dell’anno prossimo.

Il vangelo secondo le mogli degli apostoli

06 lunedì Feb 2023

Posted by aitanblog in immagini, recensioni, texticulos

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Cristo, donne

In attesa della nuova raccolta di racconti dell’Associazione ex Alunni del Liceo “Durante”

Ad un anno dalla pubblicazione di “Alle sue spalle – Grandi personaggi raccontati dalle loro donne“, sotto l’impulso dell’infaticabile professoressa Teresa Maiello, è in stampa un’altra raccolta di racconti a cura dell’Associazione ex Alunni del Liceo “Francesco Durante” di Frattamaggiore.
Prima che sia pubblicato il nuovo testo posto qui il racconto dello scorso anno dedicato alle donne dei dodici apostoli di Cristo, divise tra il magnetismo del carisma del Maestro e la preoccupazione per i suoi strani discorsi che rischiano di allontanare i loro mariti da loro, dalle loro case e dai loro letti.


I Discorsi della Montagna

Ormai al suo seguito non c’era più solo una dozzina di discepoli.

Una folla vociante gli veniva dietro e ascoltava le sue parabole e i suoi insegnamenti salendo su per la montagna. Ognuno in attesa di un po’ di conforto, di una parola buona o di un altro miracolo.

A un certo punto, il Maestro si sedette su una roccia e alzò lentamente la mano come quando si chiede la possibilità di intervenire in una riunione di piazza. Tutti fecero silenzio e ascoltarono le sue prediche colme di speranza per i poveri, per i misericordiosi, per gli afflitti, per gli affamati di giustizia e per gli assetati di pace. Loro erano il sale della terra e la luce del mondo.[1]

Ma quel sale cominciò a farsi insipido e la luce ad affievolirsi quando l’uomo venuto da Nazareth, dopo una lunga pausa, iniziò a dire che dovevano porgere l’altra guancia e amare i propri nemici.

A un dato momento Ad un certo punto sostenne che se il loro occhio o la loro mano destra fossero stati causa di peccato, avrebbero dovuto privarsene e gettarli via, lontano da loro, perché è meglio che un membro perisca, piuttosto che tutto il corpo venga sprofondato tra le fiamme dell’eterna perdizione.[2]

Fu allora che quel gruppo di donne si allontanò per appartarsi dietro uno spuntone della montagna.

– No, no, basta, io non riesco più a seguirlo. Stanno diventando troppo estreme le sue predicazioni.

– Chiamate Maddalena. Voglio sapere se è vero che il suo amato Maestro ha detto in una pubblica piazza che solo chi era senza peccato poteva scagliare la prima pietra e che questo l’aveva salvata quando stavano sul punto di lapidarla.[3] Che ne è ora di quei principi?

– No, no, lasciatela stare quella sgualdrina. Lei ormai pende dalle sue labbra e segue ogni movimento della sua mano e del suo sguardo. 

– Sì, ma, dico io, con quelle sante parole che salvarono quella puttana di Maddalena dalle pietre, lui non voleva farci capire che siamo tutti peccatori e, al tempo stesso, tutti meritevoli di perdono? E ora, tutto d’un tratto, parla di occhi cavati dalle palpebre e di mani mozzate…
Non siamo noi ad essere cambiate. È lui che sta cambiando le carte in tavola da un momento all’altro.

– Può darsi, può darsi, però io penso che se ora dice altro, avrà le sue buone ragioni.

– Ma quali buone ragioni? Il nazareno va denunciato subito agli scribi e ai farisei, prima che si prenda tutti i nostri uomini e lasci le nostre case vuote e noi a bocca asciutta in un letto troppo grande per dormire da sole.

– Dai, ma che dici?

– Quello che dice è la pura verità. Mio marito Mattia sono settimane e settimane che non mi… conosce più.

– Infatti, infatti… Ma lo avete sentito l’altro giorno quando ha fatto quella orrenda esaltazione degli scoglionati? 

– Come dimenticarlo? Ogni frase di quella predica mi è rimasta impressa nella memoria. In parole povere sosteneva che ci sono degli eunuchi che sono tali dalla nascita; altri eunuchi che sono stati fatti tali dagli uomini (quelli che gliele tagliano da piccoli, le palle) e ci sono degli eunuchi i quali si son fatti eunuchi da sé a cagion del regno dei cieli. “Chi può capire, capisca.”,[4] ha concluso, lasciandoci tuti sospesi e a bocca aperta.

– E sì, io ho capito, ma certo che ho capito. Questo sta facendo in modo che i nostri uomini si allontanino per sempre da noi.

– O che ci ignorino. Come se, d’improvviso, non esistessimo più.

– Li vuole tutti senza palle, tutti eunuchi e scoglionati. Come quel Giovanni che gli ronza intorno come una vergine in calore.

– Li sta riempiendo di chiacchiere, e qua di fatti non se ne vedono da mesi. Solo parole, parole, parole.

– Con la testa rivolta al regno dei cieli si dimenticheranno di tutto questo ben di Dio che li aspetta in terra.

– Ma perché, il fatto di mio marito non lo avete ancora saputo? Simon Pietro, che Dio lo benedica, gli dice: “Maestro, noi abbiamo lasciato tutte le nostre cose e ti abbiamo seguito”. E lui lo guarda negli occhi con quello sguardo incantatore e gli fa: “In verità in verità ti dico, non c’è nessuno che abbia lasciato casa o moglie o fratelli o genitori o figli per il regno di Dio che non riceva molto di più nel tempo presente e la vita eterna nel tempo che verrà”.[5]

Sono queste le parole con cui sta mettendo contro di noi i nostri uomini. È così che separerà i figli dalle loro madri e i fratelli dai fratelli. Questo santone va disquisendo dappertutto di vita eterna e di pace, ma vuole la guerra in ogni casa e in ogni famiglia.

– Taci, taci, figlia mia! Ma hai già dimenticato quella notte in cui il buon Simone gli chiese aiuto per me, che ero a letto febbricitante, e lui si precipitò in casa, mi toccò la mano e fece in modo che il male lasciasse il mio corpo e la pace regnasse per sempre nella mia anima?[6]

– Madre, io non ho dimenticato. Io non dimentico niente. Ed ero lì anche quando moltiplicò i pesci[7] e quando fece camminare quel morto.[8] Ma, capiscimi, ora sono io che resto ogni giorno senza cibo, morta e sepolta nel mio giovane letto di sposa. Tu ormai hai troppi anni addosso per capire…

– Sì, vecchia, tua figlia ha ragione. Forse la pace dei sensi aveva già raggiunto il tuo corpo quando lui venne e ti fece passare quella febbricola.

– Noi bruciamo.

– I nostri sensi ardono.

– Abbiamo un vuoto che da sole non potremo mai colmare.

– E poi con tutti questi eunuchi in giro, che ne sarà del popolo di Israele? Chi assicurerà una discendenza alle nostre case? Chi chiamerà te nonna e nonno tuo marito?

– È vero, è vero. L’altro giorno gli ho sentito dire: “Se uno viene a me e non odia suo padre, sua madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e persino la propria vita, non può essere mio discepolo”.[9] L’ho sentito con le mie orecchie, che Dio mi sia da testimone!

– Eccolo qua, il Maestro, viene, fa due miracoli, si proclama figlio di Dio e vuole provocare scompiglio nelle nostre povere case.

– Parla di amore per il prossimo e predica l’odio in famiglia.

– E sua madre?, lo sapete di sua madre, che andò qualche mese via dalla Galilea e tornò con quel bel pancione di gravida?

– Lo dici a me che sono una sua vicina?

– E ora il figlio di Maria di Nazareth viene qua, fresco fresco, e vuole parlare a noi di peccato e di adulterio…

– E si prende tutti i nostri uomini, si prende.

– Abbiamo il sacro dovere di difendere le nostre famiglie.

– Dobbiamo riportare a casa i nostri uomini.

– Nei nostri letti vuoti.

– Dai nostri figli.

– La deve smettere di riempirci la testa di fandonie e regni celesti.

– Donne, così non possiamo andare avanti. Dobbiamo trovare una soluzione.

– Sì, una soluzione per noi e la terra di Israele.

– Siamo il popolo di Dio, non possiamo farci sterminare da questo cialtrone.

Il giorno dopo si incontrano tra gli ulivi dell’orto del Getsemani.

La prima a prendere la parola fu la moglie di Simon Pietro. Sua madre, invece, aveva preferito restare a casa a prendersi cura del genero e del Maestro.[10]

– Allora, qualcuno di voi ha in mente un piano per liberarci del santone e riportare finalmente a casa i nostri uomini?

Sedute in circolo all’ombra degli ulivi, intorno al fuoco, come in un sabba, fecero mille ipotesi: pensarono di chiedere aiuto a Giuseppe e a Maria per frenare quello che consideravano un progetto per dissolvere le loro famiglie; pensarono di andare un paio di loro in missione e indurre il Cristo in tentazione; qualcuna ipotizzò perfino di usare Maddalena o Giovanni per fargli abbassare le difese, o di danzargli tutte intorno come Salomé con Erode Antipa;[11] una disse che avrebbero dovuto scambiarsi i loro uomini per ridare smalto alla passione sopita; un’altra voleva accarezzare il nazareno nel sonno e ungerlo di oli egizi; molte pensarono di catturarlo, di torturalo e di fargli confessare che era un impostore, oppure di fare la spia per venderlo ai farisei, agli scribi o, perfino, ai romani.

Mille e mille ipotesi, fecero, per riprendersi i loro mariti e togliersi quel presunto maestro di torno; ma, soprattutto, parlando parlando, sfogarono il loro livore e lasciarono correre a briglia sciolta le loro più segrete fantasie. 
In qualche modo, quell’incontro servì a farle sentire più tranquille e appagate. Senza proferire nessun’altra parola, decisero di dare una tregua ai loro propositi e tornare con il gruppo dei seguaci e non parlare con nessuno di quell’incontro segreto. Nel mentre, Giuda Iscariota, a pochi passi dal giardino, aveva già venduto il nazareno per trenta denari, rispondendo a quella che era l’imperscrutabile volontà del Signore.[12]

________________

[1] Cfr. Matteo 5:1-7

[2] ibidem

[3] Cfr. Giovanni 8:3-11

[4] Cfr. Matteo 19:11,12

[5] Cfr. Luca, 18,28-30

[6] Matteo 8:14,15

[7] Matteo 14:13-21, Marco 6:30-44, Luca 9:12-17, Giovanni 6:1-14

[8] Giovanni 11:1-44

[9] Luca, 14:26

[10] Matteo 8:15

[11] Marco 6:17-28 e Matteo 14:3-11

[12] Matteo 26:14-16

La maestra inascoltata

27 venerdì Gen 2023

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memoria, Tproject

Le vittime innocenti delle guerre in un video dei Tproject

…

La storia è una buona maestra ma i suoi alunni sono svogliati e disattenti. Per quanti esempi lei tracci sulla lavagna del tempo, loro non vogliono e non riescono a imparare.

Di guerra si continua a morire.
E non si muore solo da soldati.

E così, ogni 27 gennaio torniamo a piangere i morti del ‘900 senza svestirci della nostra indifferenza di fronte ai morti disseminati sui campi del presente. Morti di ogni età e di ogni latitudine che continuano a cadere sotto le bombe; come i bambini di questo video dei Tproject di quattro anni fa. Morti di guerra, di fame e di stenti o rimasti orfani a seguito dei conflitti degli adulti.

Tproject, “I bambini della guerra” (Gino Frattasio e Pasquale Marchese)

Troppo comodo considerare il passato come un film commovente e poi continuare ad essere indifferenti di fronte alle morti, ai razzismi e alle discriminazioni che crescono ogni giorno dentro e fuori di noi.

Non facciamo della memoria un altro sepolcro imbiancato, lasciamola agire nel corpo della nostra società e nelle nostra stessa coscienza, per fare meglio e diventare migliori.
Rendiamoci conto che è insensato celebrare un rituale della memoria commuovendosi per ciò che stato, senza muoversi davanti a ciò che è e torna a ripetersi. Come se non ci fossero altre strade da percorrere, tracciare o creare.

…

“La memoria della Shoah, serve sì a onorare il passato e le vittime, ma è soprattutto uno strumento per il presente e per il futuro affinché ciò che è stato, non possa ripetersi mai più. Per questo abbiamo tutti il dovere di ricordare“. (Moni Ovadia)

Una vita a precipizio

23 lunedì Gen 2023

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jennà romano, Patrizio Trampetti, Piero Ciampi, Porfirio Rubirosa

Concerto per Piero Ciampi all’Auditorium Bianca D’Aponte di Aversa di JR & friends

Ieri, nell’auditorium Bianca D’Aponte di Aversa, si è tenuto uno splendido concerto per ricordare Piero Ciampi, uno dei tanti artisti che abbiamo imparato ad apprezzare più da morti che in vita. Mannaggia ‘a morte!

Il concerto si inseriva in una più ampia serie di eventi che, a partire dal 19 gennaio, si sono tenuti in una decina di città sparse in tutta Italia sotto l’egida del Premio Ciampi – Città di Livorno.



Piero Ciampi morì quarantatré anni fa, nel gennaio del 1980, a soli 45 anni d’età, dopo una vita vissuta ai margini della società e del sistema musicale italiano.
“Una vita a precipizio”, per dirla con le parole del suo brano “L’assenza è un assedio”.

Ciampi era un artista per artisti, un disperato, un non allineato, uno dei primi cantautori italiani, un maudit, un maledetto che qualche volta sembrava anche compiacersi della sua maledizione e dei litri di vino e whiskey che ingurgitava con sfrenata passione.
Uno con “tutte le carte in regola / Per essere un artista: / Ha un carattere melanconico, / Beve come un irlandese. / Se incontra un disperato / Non chiede spiegazioni / Divide la sua cena / Con pittori ciechi, musicisti sordi / Giocatori sfortunati, scrittori monchi”.

Questi che avete appena letto racchiusi tra due virgolette sono versi della sua canzone “Ha tutte le carte in regola“, un brano ripreso anche da Gino Paoli in un album del 1980 che raccoglieva una serie di composizioni di Ciampi, pubblicata proprio nell’anno della sua prematura morte.

“Ha tutte le carte in regola” sembra essere anche una sorta di anello di congiunzione tra il livornese Ciampi e l’ambiente musicale napoletano, visto che la band che in quegli anni accompagnava Paoli era formata integralmente da musicisti partenopei di prim’ordine. C’erano Gianni Guarracino alle chitarre, Fabrizio D’Angelo alle tastiere, Aldo Mercurio al basso, Rosario Iermanno e, in un brano, anche Toni Esposito alle percussioni, Elio D’Anna al sax e Franco Del Prete alla batteria.
Ed ecco che, proprio attraverso questo album preso in prestito dal maestro Franco Del Prete, Jennà Romano si avvicina all’arte compositiva di Piero Ciampi, innamorandosene a tal punto da realizzare nel 2012 un documentario e un intero album dedicati al nostro perdente di successo.

L’album di JR si intitolava “…e se il mondo somigliasse a Piero Ciampi…”, come il concerto di ieri sera e, dentro una meravigliosa copertina di Salvatore Di Vilio, includeva quattro classici di Piero Ciampi: “Il vino” (cantata in napoletano) “Tu no”, “Ha Tutte le carte in regola” e “In un palazzo di giustizia”, più cinque brani inediti “La fiamma di una candela”, “Quello che ho di te”, “La Troia”, “Maria” e “Una vita corta”.

Foto di Di Vilio (cover Letti Sfatti)



Il concerto di Aversa ha fatto rivivere la passione ciampiana di Jennà amplificata dall’ausilio di una serie di artisti ed amici del suo entourage artistico: il sassofonista Giovanni Sorvillo, i pianisti Filippo Piccirillo e Lorenzo Natale, il cantautore Antonio del Gaudio, l’attore Pio Del Prete, il cantante, autore e attore teatrale Patrizio Trampetti, cui si è aggiunto uno “straniero” di grande pregio e valore, il cantautore Porfirio Rubirosa from Venezia, Italia del Nord.

Porfirio, come tutti gli artisti che si sono avvicendati ieri sul palco dell’Auditorium D’Aponte, è un cantautore fuori dagli schemi, ma auguriamo a lui e a tutti loro di non essere anche fuori mercato e di essere pienamente riconosciuti per il loro talento prima di diventare postumi. Anche se è il caso di dire – con Patrizio Trampetti – che ormai sembra non esserci nemmeno più un mercato per chi continua ostinatamente a realizzare dischi.

La verità è che “qui continuiamo a preoccuparci del supporto su cui si conserverà la musica nelle nostre case e tra le nostre cose (vinile, cd, pendrive, cloud, ri-vinile) mentre il mercato musicale da solido sta diventando liquido, gassoso, evanescente. Con tutte le conseguenze del caso per le maestranze, i manager, i maneggioni, i maestri, i mestieranti e i mercanti che gravitano intorno al tempio.”

Ne parlavo proprio su questa pagina qualche anno fa. E da allora le cose sonno solo peggiorate.

https://aitanblog.wordpress.com/2021/08/28/la-musica-e-finita-sta-finendo-o-sta-diventando-unaltra-cosa


Ma proviamo a rivivere il clima ed i contenuti del concerto di ieri.

Lo spettacolo si è aperto con due brani di Jennà Romano di atmosfera ciampiana: “Quello che ho di te” e “La fiamma di una candela”.


Poi, accompagnandosi al bouzouki e intrecciando le sue note con il piano sapiente di Filippo Piccirillo, Jennà ha cantato “Tento Tanto”, un brano di Piero Ciampi (mai pubblicato prima della sua morte e ricavato da un provino su nastro) che Jennà aveva già interpretato un paio di anni fa con Roberto Del Gaudio e che ha riarrangiato per questa serata con un bel finale a tempo di tango.

Di seguito, un altro brano di JR, “Zollette di stelle”.

Io sono quello
che non ha mai avuto un ombrello
e se piove d’amore
non si sa riparare.
Io sono quello
che tra zollette di stelle
si ferma a guardare
ma senza toccare,
senza mangiare.

[…] Io sono quello
che è morto vivo a dieci anni
che ha visto solo la musica
così da lontano
e si è fatto prendere la mano.

Sono le cose
che guardo la sera
che mi fanno sentire
che il mio stomaco è vivo
e vivo anche se vivo male
e vivo per me.

A questo punto si è unito a Jennà e a Filippo, Antonio Del Gaudio per cantare una bella versione a due voci di “Non chiedermi più”, un valzer struggente e disperato di Ciampi, il suo unico brano inciso a due voci con Lucia Rango e ripubblicato recentemente nel bellissimo album “Lucia Rango canta Piero Ciampi” (Anni Luce, 2022).

Poi Antonio Del Gaudio, con la sua lucida follia surreal-dadaista ci ha fatto sentire il suo monologo di Duccio, in cui interpreta un padre e un figlio su una spiaggia fronte mare. Il papà cerca di leggere il giornale, mentre il figlioletto, invece di giocare alle formine, formula un crescendo di domande imbarazzanti ed esistenziali che vanno da “Cosa c’è dopo il mare?” su su fino a Dio, l’infinito e oltre. Il tutto con un sottofondo pianistico sapientemente suddiviso tra la voce del padre accompagnata dalla mano sinistra sulla tastiera e quella del figlio dalla destra.



Anche in questa follia aleggiava lo spirito di Ciampi, come nella rabbia del brano di JR “Pensare libero”, costruito su un anaforico “Mi sono rotto il cazzo” ripetuto decine di volte come in un mantra liberatorio di chi vuole affrancarsi dai condizionamenti, dai luoghi comuni, dai politici corrotti e dagli imperativi del mercato.

Sempre di Jennà anche, “Dietro quelle porte”, introdotto dalla voce recitante di Pio Del Prete. A seguire, “‘A vita è mo”, un bel testo postumo di Franco Del Prete musicato e arrangiato da Jennà come un moderno bolero latino e cantato ieri sera insieme con Lorenzo Natale, che lo accompagnava anche al pianoforte.

Molto bella e sentita la versione di “Tu no”, classico ciampiano, interpretata da JR accompagnandosi, in solitaria, alla chitarra.
Poi è stata la volta di un’altra composizione di Jennà, “Brilla una stella”, dedicata a Bianca D’Aponte, talentuosa cantautrice aversana scomparsa improvvisamente all’età di 23 anni, quando aveva ancora tante emozioni da condividere e tutto lasciava credere che non le mancasse tempo… È stato molto commovente ascoltare quel brano nell’auditorium a lei dedicato in una serata dal forte impatto emotivo in cui aleggiavano gli spiriti di Bianca, di Ciampi, di Francesco Silvestri, di Fausto Mesolella, di Franco del Prete e di tanti artisti ed amici che ci hanno lasciato troppo presto; incluso Jeff Beck, un’altra stella del suo firmamento che JR aveva anche rievocato nel suo libro di racconti e canzoni “Il lanciatore di donne”. Jeff Beck ci ha lasciato una decina di giorni fa, ma qualche volta mi è sembrato di sentire anche lui, ieri sera, tra le corde delle chitarre e le pedaliere di Jenna’.

Copertina "Il lanciatore di donne"



Di seguito, due brani di Ciampi accompagnati, il primo, da Filippo e, il secondo, da Lorenzo al pianoforte (ed anche alla voce): due pezzoni: “Il Vino” (nella versione napoletana di JR) e “In un palazzo di giustizia”.

A questo punto è arrivato Pofirio Rubirosa, l’ospite del Nord, che ha tenuto sapientemente la scena con un trio di bei brani:
– “La confusione”, una sua canzone quanto mai attuale e pungente
– “Ha tutte le carte in regola”, cantata insieme con Jennà
– “La Troia” di Jennà che ha saputo fare sua con verve istrionica accresciuta dall’accompagnamento del sax potente e graffiante di Giovanni Sorvillo che faceva da controcanto alle voci di Porfirio e JR.



Ma lasciate che vi dia un consiglio: andatevi a sentire anche l’ultimo brano di Porfirio, “Il lussurioso”, un bella canzone suggellata da una coda erotico-pinkfloydiana. Porfirio è un ciampiano di stretta osservanza; una passione, mi ha detto, che è pari solo a quella che ha per Papà Dylan (Bob, intendo).

Dopo, una divertente e divertita esecuzione de “La mela” ad opera di Jennà Romano e Giovanni Sorvillo, il concerto si è concluso con la voce sempre fresca e potente di Patrizio Trampetti, che ha interpretato la sua “Feste di Piazza“, portata al successo da Edoardo Bennato nel ‘75, nell’album “Io che non sono l’imperatore”.



Gran finale con tutti gli artisti sul palco a cantare “Il Vino” di Ciampi in italo-napoletano con coro e accompagnamento clap clap del pubblico soddisfatto e numeroso.



E io stamattina qua a riscrivere la serata a modo mio prima di buttarmi nei ritmi forsennati di una nuova settimana:

Andare, camminare, lavorare…


https://youtu.be/F08NeU_97qY

Andare camminare lavorare
il passato nel cassetto chiuso a chiave
il futuro al Totocalcio per sperare
il presente per amare
non è il caso di scappare
andare camminare lavorare
andare camminare lavorare dai, lavorare!

[…]

(Pompieri, pompieri!)
E che cos’è questo fuoco?
Pompieri, pompieri, voi che siete seri, puntuali
Spegnete questi incendi nelle case, nelle anime, nei conventi
Rapide fughe, rapide fughe, rapide fughe

L’uscita di scena di Francesco Silvestri

24 sabato Dic 2022

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Francesco Silvestri, morte, ricordi

Ricordi confusi a poche ore dalla fine

Francesco, non ho fatto in tempo.
Non ti ho detto neanche che l’ho trovato bellissimo “Piume“, che bisognava trovare subito qualcuno che avesse la forza di mettere in scena un’opera così delicata, intensa e coraggiosa.
Pensiamo sempre che c’è tempo.
Ci facciamo sopraffare dagli eventi.
Pensavo di tornare a farti visita in questi giorni. Ti avevo anche scritto che avevo perso il tuo numero di telefono. Ma non ho fatto in tempo.
Nell’ultimo vocale che mi hai mandato mi chiedevi di venire. Dicevi che ci saremo fatti un sacco di risate. E ci saremmo fatti un sacco di risate, se avessi fatto in tempo. Avremmo ricordato gli anni ’90. Avremmo ricordato quella volta che ti facesti accompagnare a un corso di drammaturgia e poi, a tradimento, mi presentasti come un esperto di teatro e disabilità e mi facesti parlare per due ore, dimostrandomi sul campo che potevo tenere la scena. Avremmo ricordato i tempi dell’allestimento di “Streghe da Marciapiede” al Teatro Nuovo. Avremmo ricordato la sera in cui ti ho conosciuto. Recitavi nel tuo “Angeli all’Inferno” con Enzo Moscato e Isa Danieli. Non so dire se fu Antonio Seller o Antonio Natale a presentarci. Forse tu te lo ricordi. Ma non puoi dirmelo più.

Francesco Silvestri
(16.4.1958-24.12.2022)


Avremmo ricordato le cene che facevamo parlando di teatro e progetti futuri e i viaggi in Cumana verso il Teatro dell’Edenlandia o qualche scuola di periferia. Ma non ho fatto in tempo. Non ho fatto in tempo a ricordare i corsi che ci inventammo per insegnare ai professionisti napoletani a parlare in pubblico e le giornate trascorse a creare progetti per la Fiera del Fantastico e il Cantiere dell’Immaginario. Avremmo ricordato le chiacchierate che diventarono “Senza orgoglio né pudore” e quella sera che mi facesti vedere la versione cinematografica de “Le cinque rose di Jennifer” in cui eri protagonista nel ruolo che fu di Annibale Ruccello. Eri un attore perfetto e meticoloso, un drammaturgo di primo piano e un bravo maestro di teatro. Ma ti hanno dimenticato. Hanno dimenticato quel capolavoro che è “Saro e la Rosa” e l’arguzia di un teatro per bambini ed adulti come “La guerra di Martin“. Hanno dinenticato i tuoi premi IDI per la scrittura drammaturgica e l’UBU come migliore attore non protagonista nella messa in scena di Servillo di “Sabato, domenica e lunedì” di Eduardo De Filippo (Luca, invece, ti aveva prodotto “Angeli all’inferno“). Hanno dimenticato i tuoi insegnamenti di drammaturgia alla Scuola Holden di Baricco e le lezioni di recitazione nella tua Accademia Clarence.
Il teatro dimentica presto. Hanno dimenticato anche “Il topolino Crick“, “Il bambino palloncino” e “Fratellini“. Hanno dimenticato tanto, a quanto pare. Ma io non voglio dimenticare.

Quando tua sorella Silvana mi ha detto che eri andato via da un’ora mi sono venuti in mente mille ricordi e rimpianti. Hai deciso di uscire di scena definitivamente nel bel mezzo dei cenoni di Natale. Un colpo di teatro e un colpo al cuore di chi ti vuole bene; anche se forse eravamo tutti troppo distratti per fartelo sentire ora che tu ti sentivi più solo e dimenticato.
Dimentica presto il teatro. E anche la vita. Ma io non voglio dimenticare.
Ci eravamo riacchiappati da poco attraverso i social. Quando hai pubblicato “Lezioni di scrittura teatrale” a quattro mani con Marco Andreoli mi hai condiviso un post in cui hai scritto, generosamente assai, “dedico la parte del volume da me redatta a Gaetano Vergara perché neppure lui sa quanto mi ha insegnato. Grazie.”


Era il 26 ottobre del 2021. Fu lì che riallacciammo i nostri contatti e seppi dell’infarto e degli acciacchi. Solo quest’estate sono passato da te e ho cominciato a dire in giro che avevi bisogno di noi, dei tuoi amici, che non bastavano i like sotto i tuoi post. Ma neanch’io sono riuscito ad essere abbastanza presente. Non ho fatto in tempo a dirti che “Piume” è un testo immaginifico, da un ritmo serrato e mozzafiato. Una vera sfida per la messa in scena. Ma una sfida che vale assolutamente la pena. E non ho fatto in tempo nemmeno a ridirti che ti voglio bene e neppure tu sai quanto mi hai insegnato e quanto mi hai dato. E che ho conosciuto per altre strade Silvana. Che le tue sorelle ti vogliono bene. Che c’è ancora tempo. Avrei dovuto ripetertelo che c’è ancora tempo quando c’era ancora tempo, porca miseria!
Ho interrotto il cenone quando ho saputo. Mi sono messo a cercare i tuoi libri, i tuoi dattiloscritti, segni delle cose che avevamo fatto insieme.
Ho buttato tutto a terra.
Poi ho ordinato alla meno peggio e ho fatto questa foto.


Dentro ci sono alcuni dei nostri comuni ricordi. E al centro il libro che ha scritto Vittorio Albano sulla tua scrittura teatrale. Si intitola “…E poi sono morto“.
Il sottotitolo è “La drammaturgia non postuma di Francesco Silvestri”.

Uno di quei paradossi che ti sarebbe piaciuto assai.


In ogni modo, tra qualche minuto è Natale.
E tu non ci sei più.

Da Frattamaggiore a Reggio Emilia, sulle tracce di Pompei e Paestum

10 sabato Dic 2022

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Enzo Crispino, foto, Frattamaggiore, Reggio Emilia


L’arte fotografica e poetica di Enzo Crispino


Dite tutto quello che volete e avete ragione di dire sui social, ripetete che si sostituiscono alla realtà, che rubano il nostro tempo, che ci fanno perdere i contatti umani e le relazioni uno a uno. Tutto questo è vero o relativamente vero. E non è tutto. Diciamolo, diciamolo senza riserve che Facebook è l’incarnazione del male assoluto in cui ci dibattiamo, e diciamo pure che lo diciamo continuamente su Facebook che Facebook è il male assoluto. Diciamo pure che anche Instagram e TikTok sono il male assoluto.

Ma ammettiamo anche che qualche volta questi maledetti social network servono pure ad ampliare lo spettro delle nostre possibili conoscenze, dandoci l’occasione di venire a contatto con persone che hanno il nostro idem sentire o con artisti che suscitano il nostro interesse e la nostra partecipazione emotiva.
È il caso della conoscenza che ho fatto prima su Facebook e poi in presenza con Enzo Crispino, sensibile artista nato qui a Frattamaggiore, nella stessa terra in cui sono nato io, un paio di anni prima di me, ma trasferitosi all’età di 15 anni a Bibbiano, in provincia di Reggio Emilia (socc’mel, Bibbiano!)

Personalmente, sono rimasto subito incantato dai suoi lavori fotografici.
Ricordo ancora distintamente la sua prima foto che ho visto in rete. Eccola qua.

…

Mi ha lasciato senza fiato la ricerca cromatica di questa perfetta composizione che campeggia anche sulla copertina del suo libro fotografico: “La bellezza perduta”, pubblicato nel 2018 da Corsiero Editore.*

In ogni modo, solo qualche mese dopo aver visto le sue prime foto sui social, ho saputo che si trattava di un artista di origini frattesi trapiantato a Reggio Emilia, che, è il caso di ricordarlo, è il centro propulsore di tanti artisti della fotografia (a partire dall’antesignano Luigi Ghirri) oltre ad ospitare, dal 2006, un importante festival internazionale intitolato alla Fotografia Europea.

E in quella terra fertile di immagini impresse, mentre lavorava come tornitore metalmeccanico,** Enzo Crispino ha coltivato il suo talento che gli ha fatto meritare una nomina a Maestro di Fotografia Artistica all’Accademia Internazionale d’Arte Moderna di Roma. Ed è di tutta evidenza che Enzo un Maestro e un Artista lo è a tutti gli effetti.
Le sue opere sono esposte in vari musei e gallerie d’Europa e d’America e gli hanno dedicato articoli e pubblicazioni alcune delle principali riviste specializzate di mezzo mondo. Ma è soprattutto la qualità del suo sguardo a contraddistinguerlo. I titoli e le onorificenze vengono dopo.

Insomma, per una volta si celebra nel controverso spazio di Villa Laura, un evento degno di un bene comune di valenza culturale, quale potrebbe essere questo storico edificio frattese ristrutturato con denaro pubblico ed ora dato in fitto ad un’università privata.


In realtà, questa è la seconda volta che Enzo espone a Fratta, ma io, colpevolmente, mi sono perso la prima mostra tenuta a dicembre del 2019 nella Sala Consiliare del Comune.
Ieri, invece, liberandomi da ogni impegno, sono corso alla prima di questa nuova esposizione dedicata ai siti archeologici di Paestum e di Pompei.
E mi sono trovato di fronte a due splendide collezioni di pittorismo fotografico.



L’una, quella dedicata a Pompei, caratterizzata da cieli saturi di colore che risaltano come un fondale teatrale nello spazio scenico dei ruderi della nostra memoria; l’altra, quella incentrata su Paestum, contrassegnata da colori diafani, fantasmatici, in cui il verde della natura sembra affiorare come una apparizione tra i resti dei templi.
Due serie di lavori molto diversi tra loro, ma accomunate da una grande e certosina ricerca cromatica e compositiva che si iscrive nella tradizione del vedutismo inglese.

Le foto di Paestum sono dichiaratamente ispirate agli acquarelli dell’artista ed archeologo anglosassone Edward Dodwell, ma anche nei paesaggi pompeiani riecheggia lo sguardo della pittura dei neoclassicisti e dei romantici inglesi.***

Quello di Enzo Crispino è uno sguardo poetico che ricrea la realtà, citando lo sguardo degli artisti del passato che lo hanno ispirato e nutrito (non a caso, seguendolo in rete, ho scoperto che il fotografo frattese/emiliano si dedica anche alla scrittura di poesie e partecipa a concorsi in cui risulta spesso tra i premiati).

Aggiungo che ieri ho avuto anche modo di parlargli, di conoscerlo da vicino e di scoprire la bella persona che contiene il grande artista: una persona modesta e riflessiva che presenta le tracce di chi è partito da umili condizioni ed ha sudato per fare di se stesso l’uomo e il maestro d’arte che è oggi. Una persona che porta dentro di sé il senso delle sue radici (che si diverte a rievocare e sentire rievocare dai suoi amici dei tempi in cui, ragazzo, lavorava ‘ncoppa ‘e filatoie), ma ha saputo anche mettere a frutto le esperienze maturate in una nuova terra che lo ha cambiato, non senza prima fargli soffrire le pene della migrazione.


Peraltro, ho saputo da lui medesimo che ha a regalato le sue opere esposte a Villa Laura alla Città di Frattamaggiore, che spero sappia valorizzare e apprezzare questa generosa donazione per tutto quello che rappresenta e per il valore artistico che contiene ed emana.






* Facendo un’ulteriore ricerca in rete ho scoperto che quella stessa foto è stata anche scelta da un gruppo rock francese, i Valparaiso, per illustrare la copertina del loro primo album intitolato “Broken Homelands”.


** Non a caso il secondo libro fotografico di Enzo Crispino, sempre edito da Corsiero, è dedicato allo spazio industriale visto con gli occhi di chi lo ha conosciuto dall’interno e si intitola significativamente “Otto ore”.


*** In altre mostre che possiamo ammirare nel suo ricco portfolio, l’artista frattese si è dichiaratamente ispirato a due numi tutelari della pittura romantica inglese: John Constable e William Turner.


La Battaglia delle Donne

24 giovedì Nov 2022

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donne, rispetto, Tproject

Un brano dei Tproject montato in un video con qualche parola e qualche disegno che ho fatto io su loro gentile richiesta.


Ho conosciuto e imparato ad apprezzare quest’estate i Tp e il loro progetto di musica elettronica e percussiva innervata di passione, impegno civile e ricerca etnomusicale.

Ma di questo ho già parlato

qui
https://aitanblog.wordpress.com/2022/09/26/due-nuovi-brani-dei-tproject/

quo
https://aitanblog.wordpress.com/2022/11/05/alma-suite-dei-t-project/

e qua.
https://aitanblog.wordpress.com/2022/08/18/chiazza-mantano-jazz/


I Tproject sono tre artisti uniti da un’idea di musica intesa come laboratorio di creatività e sperimentazione e, in questa tornata, hanno voluto coinvolgermi chiamandomi a partecipare al loro “masadacrea“, il loro “tavolo di creazioni”.
Senza troppo esitare, ho risposto volentieri all’invito di prestare qualche mio disegno e qualche mio pensiero per questo brano basato su un canto masai dedicato a una causa sacrosanta: il rispetto per le donne.
Così ho condiviso con il gruppo una serie di immagini e parole, e loro le hanno tagliate e montate liberamente per realizzare questo video che, non a caso, viene pubblicato in prossimità del 25 Novembre, la Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne istituita dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite nel 1999.

Di seguito il testo completo che avevo proposto per il montaggio:

Per tutte le donne e per tutta l’umanità che rispetta la vita e il mondo che la ospita, la pervade e le gira intorno.

Per chiunque abbia dentro e metta fuori di sé i suoi migliori istinti di generare, preservare e prendersi cura delle generazioni future.

Per tutti coloro che rispettando le altre e gli altri rispettano se stessi.

Gli istinti esistono, ed anche i desideri e la volontà di imporsi sugli altri. Ma esiste anche l’educazione, il rispetto e la richiesta dell’altrui consenso.
Non trattare gli altri come non vorresti mai che gli altri trattino te.
Lo dice pure il saggio cinese che solo quando una zanzara si posa sui tuoi testicoli ti rendi conto che non tutto si può risolvere con la violenza.

link al video su YouTube

Aggiungo a chiosa di questi brevi pensieri (tanto per non definirli pensierini 🤭) che, in ogni campo, la violenza è la più estrema tra le forme di debolezza umana.

Perciò, stamme a ssentì, nun fa’ ‘o restivo...

Frattamaggiore, città delle ance doppie e delle batterie

23 mercoledì Nov 2022

Posted by aitanblog in musiche, recensioni, riflessioni

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Frattamaggiore, luigi del prete, musica

Bellissima serata in memoria di due musicisti frattesi di prim’ordine: Gaetano Capasso e Pasquale Del Prete.

Stasera, sul palco del Teatro De Rosa di Frattamaggiore (Napoli, Italia del Sud), si è esibito il quartetto di Daniele Scannapieco con Michele Di Martino al piano, Tommaso Scannapieco al contrabbasso e Luigi Del Prete alla batteria.


Nella seconda parte della serata, al quartetto si è unito il bravo e creativo cantante grumese e internazionale Walter Ricci.
Molto intense e raffinate le interpretazioni di Tea for two, Bud Powell, Fly me to the moon, Pennies from heaven e Guarda che luna.

Perfetto l’interplay tra i cinque musicisti che hanno dato la splendida impressione di divertirsi suonando; e il divertimento e la gioia di suonare si sono trasmessi anche al pubblico (cosa per niente ovvia nelle esibizioni di musica jazz, dove, il più delle volte, quando i musicisti si divertono, l’uditorio si annoia).

Daniele Scannapieco è stato allievo di Gaetano Capasso e oggi insegna sassofono al conservatorio di Salerno, nelle stesse stanze in cui aveva insegnato clarinetto il maestro frattese.
Luigi Del Prete è, invece, il figlio di Pasquale e da lui ha appreso i primi rudimenti delle percussioni e della batteria. Ora è un musicista sensibile, capace di stare sempre nel ritmo e di trascinare il fluire della musica. Sono ormai almeno quindici anni che lo seguo e lo vedo crescere con gusto e piacere.

Le ance e la batteria sono strumenti ricorrenti nella storia recente della musica frattese. Faccio solo qualche nome da affiancare al clarinettista Gaetano Capasso e al batterista Pasquale Del Prete, certo di dimenticarne altri: i fratelli Munari, Franco Del Prete, Franco Schiavitelli e il maestro Antonio Volpicelli con cui ho avuto l’onore di condividere il palco insieme con il figlio Francesco (anche lui clarinettista, oltre che sassofonista) e con il chitarrista Francesco ‘Perzico’ Di Giuseppe.


La musica ha il potere di farmi fare pace con Frattamaggiore, la città in cui sono nato, vivo e mi incazzo un giorno sì e l’altro pure.

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