Con in appendice un finale suggerito da ChatGPT versione 3.5
– Dottore, dottore, a trent’anni passati da vent’anni, trascorro tutto il mio tempo col mio amico immaginario. – Via, via, non si preoccupi, sono anch’io uno psichiatra immaginario e lei neanche si immagina quante cose che vede e che sente sono solo il frutto della sua immaginazione. – Ma allora noi potremmo anche non essere dove siamo? – Certo. Si immagini che potrebbero essere immaginarie anche le nostre parole e noi potremmo anche non aver mai detto quello che stiamo dicendo. – … – Vede, amico mio, potrebbe essere immaginaria anche la tipa, o il tipo, che sta sbirciando ora questo nostro dialogo da un remoto posto immaginario del cui nome non voglio ricordarmi. E immaginari potrebbero essere anche il fastidio e la sorpresa che stanno suscitando dentro di voi queste mie parole. – Mi sta trascinando in un abisso di spiazzamento e dubitazione. Immagino che sia contento di questa mia esitazione. – Contento? E di che? Questo è solo il frutto della sua immaginazione!
Stamattina, prima di pubblicare questo mio breve dialogo, l’ho sottoposto a ChatGPT in questi termini.
E lui, dopo avermi detto che “il dialogo ha un tono intrigante e gioca con il concetto di realtà e immaginazione in modo interessante“, ha dichiarato: “Tuttavia, potresti aggiungere alcuni elementi per rendere la scena ancora più coinvolgente.“
Poi, dopo una trascrizione integrale del dialogo tal quale lo avete già letto, ha proposto questa revisione e integrazione del finale:
A suo modo di vedere:
Io resto sospeso nel mio modesto abisso di spiazzamento e dubitazione.
dissesti idrogeologici, crisi climatiche e costruzioni distruttive
Ischia, Senigallia, Romagna. Nord, Centro, Sud. Un’unica colata di cemento.
Cronache di disastri annunciati.
E continua a piovere sul bagnato.
Si dovrebbero mettere in sicurezza i territori e pensarci seriamente al clima e alle conseguenze di questa cementificazione selvaggia, invece di pensare ai mega-ponti…
Considerazioni di vita e di morte in dialetto e in lingua nazionale
Ma amma dicere sempe ‘e stessi cose? A mamma e’ a mamma, ma manco ‘a nonna scarzea, che po’, ‘a nonna, sempe n’a mamma seve,* pecché ogni mamma e’ pure figlie, ma nun tutt’e figlie se fanne mamme e pate, e nun tutt’e pate e ’i mamme tenene ‘o tiempo, ‘a forza e ’a voglia ’i essere pate e mamma. Po’ ce sta pure ‘o nonno, ‘o pate d’o nonno, ‘o nonno d’o nonno e ‘o nonno d’o nonno d’o nonno. Fino ‘e coglie Abramo… Fino ‘e coglie Adamo.Che chelle ce vo’ ‘na tibbu’ pe’ fa crescere ‘nu criature.
Ma chesta è n’ata storia.
Si ‘nu figlie ‘ncuorpe l’e purtate e ‘nsine l’e allattate o si ‘nu figlie te l’e pigliate e l’e crisciute, ssi mamma, ssi pate, e contr’a morte l’e avuta venciute ‘sta battaglia, pure si ‘a guerra nun è mai fernuta.
Generare, preservare, prendersi cura e amare. Non necessariamente in quest’ordine e non necessariamente tutto insieme e tutto nella stessa persona. Questo è l’istinto umano che chiamiamo materno.
My mother has four hands, but maybe even more – Elaborazione grafica realizzata con Image Bing Creator e PicsArt.
Se un figlio lo hai portato in grembo ed allattato al seno o se un figlio lo hai preso da qualche parte e te ne sei preso cura, sei madre, sei padre, e contro la morte l’hai avuta vinta questa battaglia, anche se la guerra non è mai finita.
* “seve” nella mia lingua materna, varietà del dialetto napoletano, è la singolare terza persona dell’imperfetto dell’indicativo del verbo essere. Probabilmente, si diceva così anche nell’antico napoletano centrale (che è evoluto di più rispetto al dialetto di periferia che parlo io).
Cassandrismi a parte, vedo che oggi siete in tanti a temere che l’intelligenza artificiale possa devastare il mondo più di quanto fecero il grammofono e lo smartphone alla fine del diciannovesimo e del ventesimo secolo dello scorso millennio. Ed in verità, anch’io, se volgo lo sguardo verso le problematiche relative all’occupazione giovanile, sono preso da angosce, ambasce e preoccupazioni; che crescono e si fanno più pressanti ogni volta che mi fermo a constatare che il sistema socio-economico pretende di restare inamovibile, ben saldo laddove si trovava e così come sta, mentre intorno tutto cambia e sta cambiando.
Uno spettro incombe sull’Europa e sul Mondo. Niente sarà più lo stesso, le macchine prenderanno il posto dell’uomo e, per alimentarsi e perpetrarsi, succhieranno il nostro sangue, il nostro sapere e le nostre coscienze.
Può essere. Tuttavia, riguardo ai rischi di manipolazione delle menti e delle coscienze che potrebbero scaturire – e che già stanno scaturendo – dall’uso spinto e accelerato dell’intelligenza artificiale, io sono meno pessimista di così.
Preferisco pensare che più alimenteremo il senso critico e l’intelligenza umana e reale delle nuove generazioni, meno ci sarà di che preoccuparsi dell’intelligenza artificiale. Solo chi non si forma resta fermo e si trasforma in un mero trascrittore di testi artificiali scaturiti da prompt mal concepiti da menti umane poco esperte nella comunicazione con altri esseri umani o con macchine sviluppate (almeno per il momento) da altri esseri umani.
Certo, un uso pigro dei sistemi di IA può portare ad una forma di atrofizzazione della creatività umana; ma un uso attento, critico ed attivo può perfino amplificare la nostra immaginazione e le nostre capacità creative, aprendo nuovi mondi e nuovi modi di espressione umana. E, sottolineo, umana.
L’immagine di questo spettro algoritmico che correda questo testo, per esempio, è stata concepita con l’ausilio di ChatGPT, cui sono ricorso per creare un prompt adeguato; poi ho immesso il prompt in Bing Image Creator, nell’app Imagine ed in DALL·E ed ho scelto, tra una dozzina di risultati, le due illustrazioni che mi sembravano più significative. Infine, con un po’ di competenza tecnico-creativa, ho messo insieme le due immagini utilizzando PicsArt e i suoi strumenti di intelligenza artificiale e naturale. Alla fine ci ho anche aggiunto una firma come fosse un’opera integralmente mia. E qui si aprono nuove questioni e nuovi scenari; anche di carattere etico, economico e legale.
Insomma, si sta delineando un altro modo di apprendere e di stare al mondo e non è il caso di restarsene a guardare in modo inerme e acritico, come se la cosa non ci riguardasse. Io consiglio tutti, ad ogni età, di mettersi in gioco e di non fare da spettatori passivi. Di fronte al cambiamento, ad ogni cambiamento, la nostra passività è il più grande dei pericoli.
Altrimenti… meglio luddisti che schiavi della macchina e di chi la governa e la governerà a proprio gusto e vantaggio.
Un’immagine forte, contundente ed enigmatica, rappresentata con chiarezza e usando una equilibrata tavolozza cromatica. Ma quello che mi colpisce è la trama sottesa alla scena che si para davanti ai nostri occhi come il fermo immagine di una sequenza di un film.
Alex Colville, “Pacific“, 1967
Fin da quando ho visto per la prima volta il personaggio inquadrato di spalle in questo dipinto dell’artista canadese Alex Colville (1920-2013) ho pensato a un uomo che stava sul punto di ammazzarsi, e poi ho immaginato che quell’uomo, prima di premere il grilletto, si fosse lasciato irretire dal fascino del mare e avesse svoltato sul versante della continuazione della vita. Pacific-ato dalle acque dell’Oceano.
Sia come sia, Colville stuzzica la nostra immaginazione e quella pistola inquadrata in primo piano diventa una tipica “Chekov’s Gun“, un riferimento (probabilmente inconsapevole) alla celebre citazione chekoviana secondo la quale “se nella storia compare una pistola, questa prima o poi sparerà”; o resterà sul tavolo a rappresentare la decisione di non farla finita. Nelle scuole di scrittura creativa insegnano che la Pistola diChekov corrisponde a un invito all’essenzialità nella scrittura narrativa e drammaturgica (ogni elemento citato deve avere un senso nell’economia della narrazione) ed, allo stesso tempo, riferiscono l’apparizione di quell’arma (o di qualsiasi altra cosa o persona) all’annuncio nascosto di un futuro colpo di scena; di modo che quell’elemento, che compare all’improvviso nella trama senza alcun apparente nesso o significato, finirà per innescare una svolta che avrà il sapore di una rivelazione (una pistola inquadrata en passant in un cassetto, su un comodino o in un corpetto, che diventa fumante nell’acme della storia; una bottiglia di latte che si scopre essere avvelenato; una candela lasciata accesa in un abbaino; un maggiordomo che si rivela essere l’assassino…). Situazioni eminentemente hitchcockiane, ma anche agathachristiane, in qualche modo.
Ora, è evidente che nella sapiente rappresentazione di Colville la pistola non è più solo metaforica o strumentale all’andamento della storia, ma anche vera (visibile), e funge da coprotagonista dell’uomo che guarda l’orizzonte.
Tuttavia, restano tanti fili oscuri e inestricabili; come in quei quadri di Magritte in cui ogni elemento, preso da solo, sembra chiaro e ben delineato, ma nell’insieme niente può risultare comprensibile facendo ricorso esclusivo al buon senso, quello che Cartesio riteneva essere “la cosa meglio distribuita al mondo. Ciascuno infatti pensa di esserne così ben provvisto che anche coloro che di tutte le altre cose non si contentano mai, di questa sono soliti non volerne più di quanto ne hanno” (dall’incipit della Parte Prima del “Discorso sul Metodo” di René Descartes).
Ma torniamo alla scena del quadro di Colville e alle domande che mi suscita e che forse inquietano anche voi insieme ad altre che di primo acchito non mi sono sovvenute (tipo: “Che ci faccio io qua, di fronte a questo quadro, tra le pagine virtuali di questo blog di periferia?”).
Le domande. Alcune.
– Perché quel metro da sarto sul tavolo, davanti alla pistola? – Perché non vediamo inquadrata la testa del protagonista? – Perché ci appare seminudo? – E poi siamo proprio certi che quella pistola non sia stata usata da poco? – Infine, cosa ci dice o non ci dice che l’arma si trovasse lì, sul tavolo, (solo) per far saltare le sue tempie?
Tutte questioni che restano insolute e che potranno detonare solo nella nostra testa. Come una pistola di Chekov a finale aperto in cui ognuno può applicare la sua personale rivelazione all’interno della trama che ha concepito nel suo immaginario.
E la trama si può infittire mettendo di fronte a questo quadro un’altro dipinto di Colville, precedente di un paio di anni, in cui una giovane donna da una nave sembra guardare proprio noi attraverso le lenti di un binocolo; ma forse è anche lei nelle acque dell’Oceano e quel binocolo inquadra un uomo che si è appena salvato da un suicidio fissando l’orizzonte e un punto tra le acque in cui una giovane donna guarda attraverso un binocolo che lui non può vedere.
E trovo molto significativo che entrambi siano serviti da ispirazione a due meravigliose scene cinematografiche.
Michael Mann, “Heat“, 1995
Wes Anderson, “Moonrise Kingdom“, 2012
Perché in fondo erano cinema anche le inquadrature di Colville. Ma un cinema senza un prima e un dopo visibile ai nostri due occhi esterni e alla nostra coscienza.
Mi sono alquanto rotto le scatole di quelli che hanno capito tutto, sanno cosa c’è dietro e non si lasciano ingannare. Quelli che non la smettono di spiegarci quanto siamo coglioni, sciocchi e manipolati; quelli che ci ripetono che siamo condizionati e ormai pensiamo il pensiero di qualcun altro. Il Grande Fratello è dentro di noi e neanche ci rendiamo conto di aver perso ogni libertà di movimento e di autonomo pensiero.
Ma loro, no, loro non ci cascano. Loro non si lasciano abbindolare dalla rappresentazione della realtà diffusa sui social made in U.S.A. E non si lasciano nemmeno bloccare dalle accuse di complottismo, loro. Loro sanno che c’è tutto un disegno e che i social sono il cavallo di Troia che è penetrato nelle nostre menti e nelle nostre coscienze. Loro sanno, loro sanno e non la smettono di spiegarcelo dalle pagine dei social tutto quello che sanno e che noi ignoriamo, non comprendiamo o facciamo finta di non capire. Sono delle oasi nel deserto, loro. E il deserto siamo noi.
(E tuttavia, non posso fare a meno di ammirare e plaudere a quelli che, mossi da cotali pensieri, se ne vanno davvero. Quelli che la loro protesta contro la social-omzologazione la fanno abbandonandole, le reti sociali, o non avendole mai usate affatto. Magari, però, hanno ragione quegli altri là di cui dicevo fuori parentesi. Magari costoro stanno cercando di farla da dentro la loro guerra al pensiero unico. Io non lo so, perché, a differenza di costoro e di quegli altri là, io ho più dubbi che certezze e cerco di navigare a vista, decidendo di volta in volta se stare dentro o fuori e in che modo starci o non starci. Insomma, preferisco muovermi come se fossi ancora una persona dotata di pensiero autonomo e spirito critico. Uno che opera le sue scelte in modo consapevole e privo di condizionamenti. Mi rendo conto, però, che, visto dal punto di vista della loro ragnatela concettuale, il mio credere è parte di un sistema in cui sono impegolato. Ma il punto è che io, più di tutto, mi sono rotto le scatole dei loro ragni e delle loro ragnatele. Anche se lo so che magari potrebbero pure avere ragione. Loro.)
Prova a consultare questo mio traduttore multilinguistico basato su Google Fogli. È gratis.
Ma, se ti piace, puoi offrirmi un caffè, uno di questi giorni.
Chi mi conosce sa che tra i miei molteplici e dispersivi interessi, l’informatica occupa da sempre un posto di grande rilievo.
Adoro, in particolare, i fogli elettronici, perché tra quelle celle, quando metti i dati giusti e applichi bene le formule, hai la certezza che i conti tornano; e se non tornano, sai bene che è tuo l’errore e che, se ti aggiusti tu, le cose finiscono sempre per aggiustarsi e trovare un loro equilibrio. Nella vita, invece, hai voglia di aggiustarti…, i torti, gli errori, le ingiustizie, le ipotesi infondate, gli squilibri, le violenze, le catastrofi impreviste, le probabilità ribaltate, i conflitti e i soprusi restano lì, completamente fuori controllo. È pressoché impossibile capire come funzionano le cose e cosa aspettarsi da un momento all’altro, nella vita.
Tutto questo per dire che ho messo insieme la passione per i programmi di calcolo e la mia curiosità linguistica per creare un file che contiene una serie di fogli elettronici che funzionano da multitraduttore e danno la possibilità di trasporre una parola o un breve testo da una a più lingue visibili in uno sguardo di insieme: una tavola sinottica, insomma, una specie di Stele di Rosetta elettronica. Niente di trascendentale. Magari già altri avranno fatto fatti simili meglio di me.
Ma, provo a spiegarti in modo più pratico di cosa si tratta. Semplicemente, tu scrivi una parola o una frase in italiano o in un’altra lingua e vedi riempiersi la riga con traduzioni immediate in altre 4, 5, 6, 7, 8 o più lingue. Questo può servire a fare comparazioni lessicali o strutturali, a soddisfare curiosità, a valutare analogie, a ripetere vocabolari personalizzati, a ipotizzare scambi linguistici e calchi, a perfezionare traduzioni comparando la diversa resa di uno stesso termine in varie lingue…; ma, di certo, può servire anche a fare altro che al momento non mi viene in mente e di certo potrai elaborare tu, se ti verrà voglia di sperimentare (perché poi ti stia dando il “tu” in questo testo, non mi è dato sapere; ma mi scuso se la cosa ti stesse in qualche modo offendendo).
Un po’ di micro-storia, ora. In principio, ho cominciato a lavorare a questo dizionario elettronico per un’esigenza didattica. A breve, i miei alunni dovranno svolgere in un’attività multilingue in cui faranno da guida al Maschio Angioino per turisti di lingua inglese, spagnola e tedesca ed io ho pensato di offrire loro uno strumento per ripetere il lessico di queste tre lingue relativo al mondo dell’arte e dell’architettura. Poi, il gioco mi ha preso la mano e mi è venuta voglia di allargarlo a tutte le lingue tradotte da GoogleTranslate (perché probabilmente tu avrai capito già da un bel po’ che è da lì che il foglio elettronico attinge per il suo patrimonio multilinguistico).
In ogni modo, se vuoi provare a giocare con le lingue dell’universo, puoi seguire questo link e poi, magari, puoi anche scaricarti una copia; ma tieni conto che gira solo su Google Fogli. Se lo usi da smartphone o da tablet ci vuole l’app di Google; se l’usi da PC, è sufficiente avere un account gmail. Considera anche che si tratta di una versione beta. Pertanto, se qualcosa non funziona, abbi la bontà di avvertirmi.
Attenzione, è un file condiviso, quello che scrivi sarà visibile a chiunque consulti il file nel tuo stesso momento.
Ti anticipo che, oltre agli eventuali problemi tecnici, i limiti di questo multitraduttore sono gli stessi del traduttore di Google su cui si basa; tra i quali, sicuramente, il principale è l’univocità dei risultati rispetto alla polisemia del linguaggio. Ma, a scopo didattico, anche questi limiti possono trasformarsi in una ricchezza, se l’insegnante riesce ad usarli per far riflettere gli alunni su fenomeni linguistici come l’omografia, l’omofonia, i linguaggi figurati, i falsi amici, l’origine delle parole e dei modi dire, la sinonimia e l’ambiguità della comunicazione.
Al momento, nella cartella ci sono 6 fogli.
– Il primo traduce dall’italiano alle principali lingue della penisola iberica: spagnolo/castigliano, catalano, galiziano, basco e portoghese; ma ci ho aggiunto anche il latino e il francese, per permettere riflessioni etimologiche e analisi contrastive.
– Il secondo foglio traduce dall’italiano alle principali lingue romanze.
– Il terzo, dall’italiano alle principali lingue germaniche.
– Il quarto foglio è un vero multitraduttore che permette di partire da qualunque lingua e di osservare la traduzione in varie altre lingue.
– Il quinto è un altro traduttore dall’italiano a quattro lingue a scelta dell’utente tra le centinaia disponibili in GoogleTranslate.
– Il sesto (ed ultimo, per il momento) permette di scrivere in una qualunque delle centinaia di lingue di GT e di sceglierne 4 per la traduzione.
C’è da trascorrerci qualche ora, se la cosa ti appassiona. Purtroppo, però, devi starci attent@. È ancora un meccanismo delicato. Google Fogli, a quanto ne so, non permette di proteggere le formule quando si crea una copia; così, se non segui le indicazioni contenute nei singoli fogli/traduttori, rischi di cancellare qualche formula e compromettere il funzionamento del piccolo sistema.
Ti aggiungo anche un foglio in cui ho raccolto notizie dalla rete che mi sono servite per scegliere le lingue da inserire nella mia Stele elettronica. Se noti incongruenze anche qui, ti prego di farmelo sapere.
Quello che ti manca, figlia mia, è un po’ di noia. Quella noia lunga, lenta e produttiva che ti lascia da sola con i tuoi pensieri. Un sereno indulgere alla pigrizia e all’indolenza senza preoccuparsi di riempire il proprio tempo con obblighi, incombenze, appuntamenti, chat, bit, bot, tablet, youtube e videoclip che scorrono sotto le tue dita senza conclusione.
Il contrario dell’ansia e della frenesia. Un tempo libero da ogni impegno e pre/occupazione che i nostri antichi progenitori chiamavano otium e contrapponevano al negotium: la cura di sé contrapposta agli affari e alle pubbliche occupazioni. Un tempo tuo e solo tuo, fatto tutto e solo di te stessa e della tua noia. Una noia senza quaderni, libri, smartphone, serie tivvù e orari prefissati. Una noia senza palestre, aule e notifiche sempre attive. Una noia senza messaggi attesi o rimbombanti a grappolo. Una noia senza assegni e attività aggiuntive. Una noia vera, piena, assoluta e avvolgente. Una noia fatta di niente. Una noia da riempire di pensieri lenti, idee innovative e nuove fantasticazioni. Quella noia che è la madre della creazione e del disallineamento dagli atteggiamenti del branco; quella noia che ti libera dal conformismo e ti tiene lontano dai modi e dalle mode del tempo; quella noia che ti mette in contatto con te stessa e con la tua immaginazione.
Quella noia benedetta che non scivolerà mai nell’avvilimento e nella depressione, ma ti terrà sempre in equilibrio, sul filo labile della nostra fugace esistenza in terra. L’unica che in qualche modo conosciamo e dobbiamo preservare grati.
Postilla del giorno dopo. Dopo averla letta molto frettolosamente, Stefania fa detto che la lettera è molto… noiosa
Nelle prossimità degli abissi / Far from the Madding Crowd
Forse siamo vicini al punto di non ritorno. Un passo avanti c’è il baratro. È il caso di fare un paio di passi indietro e cercare di lato altre strade, lasciando il passato alle spalle e tenendo il futuro lontano dal declino.
Altrimenti precipiteremo giù ad uno ad uno e a mille e mille come i lemmings o come i bambini e i ratti che si allontanarono da Hamelin a capo chino.
E quando l’ultimo uomo compirà il suo gesto estremo, il resto della Natura resterà là, a continuare il suo flusso. Indifferentemente.
Don’t follow the crowd Don’t follow the crowd Don’t follow the crowd Don’t fall
“Remember, just because everyone else is doing something doesn’t mean it’s the right thing to do. Think for yourself and make your own decisions. Blindly following the crowd can lead you down a precipice. So, always take a moment to pause, reflect, and evaluate before following the stream.”
Sbaglia da solo. Non seguire il branco e non cedere al richiamo delle folle.
Solo perché tutti gli altri stanno facendo la stessa cosa non significa che sia la cosa giusta. Pensa per conto tuo e prenditi sempre un momento per fermarti, riflettere e valutare prima di seguire il flusso.
Don’t follow the crowd Don’t follow the crowd Don’t follow the crowd Don’t fall
Non perdere il controllo
Choose your path Be the one who stands tall While others move forward Looking at the ground Trailing the tracks of the crowd Heading towards the fall
Forgia il tuo sentiero Camminante Mentre gli altri vanno avanti seguendo la scia del branco che scivola verso la fine di ogni percorso L’abisso di ogni cammino Il declino del declino del declino
Giochi di interazione matematica per chi ha nostalgia di ChatGPT, ma non vuole usare la VPN o altri modi per aggirare gli ostacoli normativi.
“Via, via, siamo seri, si tratta solo di un gioco.” Giles Ravager
Visto che gli attenti garanti della nostra privacy hanno inibito l’uso di ChatGPT, mi sono attrezzato e ho realizzato un’intelligenza artificiale fatta in casa per i miei alunni di spagnolo. Potete provarla qui. È libera, gratuita e priva di censure. Ma anche un po’ noiosa in verità.
E se avete difficoltà con la lingua di Cervantes, Borges e Maradona, potete provare anche la versione italiana che ho or ora tradotto per la Patria e per il Popolo.
Scherzi a parte, fin dai primi anni ’80 del secolo scorso ho provato, in folle solitudine, a creare i miei primi piccoli programmi che – in linguaggio Basic – interagivano con l’utente. Uno creava poesie d’amore a partire da semplici richieste del committente (tipo: nome dell’amata, campo semantico di metafore con cui infarcire i versi, paragoni e allegorie da usare, ambientazione, tono…). Un altro era sostanzialmente un gioco di investigazione in cui bisognava giungere al nome e al cognome di una misteriosa persona. Dopo una serie di interazioni che andavano da Come ti chiami?, Da dove vieni?, Quanti anni hai? a Che fai nella vita? e Che ti piace e che ti dispiace fare?, la macchina cominciava a dare indizi sulla persona da scoprire. Accennava vagamente alla sua provenienza, alla sua età e ai suoi gusti. Diceva di che sesso era, dove si trovava, che gli/le piaceva fare e che stava facendo in questo momento. Alla fine, si arrivava alla conclusione (ma molto probabilmente lo avrete già intuito) che la persona da scoprire era proprio quella che stava seduta dietro lo schermo. Così vinceva solo chi scriveva come soluzione il proprio nome e cognome.
Erano gli ultimi anni del liceo, e io giocavo con la programmazione basic invece di studiare per la maturità. Sarà per questo che non sono più maturato. Poi, più in là nel tempo e più avanti negli anni, ho continuato a cercare un’interazione con le persone che stavano dall’altro lato degli schermi tramite l’html; fino ad oggi, quando, dopo tutta questa comunicazione con i chatbot di Open.AI e simili, mi è tornata la voglia di rispolverare il mio JavaScript. Come dire, l’invenzione degli ornitotteri di Leonardo da Vinci rispetto ai velivoli aerospaziali di ultima generazione. Un gesto passatista e rivoluzionario. Una regressione in uno spazio e in un tempo dove i conti tornano e ogni cosa sta in equilibrio instabile in un posto che è suo.