Da bambino rompevo gli specchi per vedere cosa c’era dall’altra parte e cercavo il tempo tra le pagine dei calendari e gli ingranaggi degli orologi. Più grande allungavo le mani per afferrare la luna e fare luce ai miei giorni bui.
Oggi ce la metto tutta per trovare il bene in chi mi fa del male e rinvenire qualche attimo di gioia nella persistenza del dolore. Oggi ce la metto tutta, per ritrovare un po’ di pace tra le tempeste. Oggi ce la metto tutta per evitare la disperanza, nonostante anni ed anni di delusione e frustrazioni.
Oggi c’è la metto tutta, tutta ce la metto, ma non è mai abbastanza.
Un mio vecchio miniracconto spagnolo in versione audio
Cercavo in rete una mia minificción e mi sono imbattuto in questo podcast della UNAM (Universidad Nacional Autónoma de México) della serie “Escritores en su tinta” (“Scrittori nel loro inchiostro”, come i polpi in una famosa ricetta spagnola). È una bella lettura di un mio racconto brevissimo che fu pubblicato nel 2004 sulla rivista settimanale della Jornada, uno dei più popolari quotidiani messicani.
La cabeza del ratón se meneaba entre los dientes puntiagudos; las patas de atrás, fijas en el suelo, intentaban retroceder, mientras la tremenda fuerza de la sierpe lo atraía inexorablemente hacia adentro. En la lucha, el pequeño animal parecía estirarse y crecer a medida que la cobra lo envolvía en sus terribles fauces.
Ahora el roedor había sido engullido por completo en aquella oscura cavidad pulsátil, pero se podía aún adivinar el perfil del cuerpo que se sacudía entre la piel tiesa de la cobra.
Al final, la sierpe torció los ojos hacia el cielo y se abandonó a un dulce deliquio, mientras el ratón salía triunfante de su boca en busca de otra presa para destripar.
E questa è una traduzione che ho fatto oggi, una ventina di anni dopo…
L’aspide e il topo
La testa del topo si dimenava tra i suoi denti acuminati; le zampe di dietro, ben piantate per terra, cercavano di indietreggiare, mentre la tremenda forza dell’aspide lo attirava inesorabilmente verso l’interno. Nella lotta, il piccolo animale sembrava allungarsi e crescere a mano a mano che la serpe lo avvolgeva nelle sue terribili fauci.
Ora il roditore era stato completamente inghiottito da quella oscura cavità pulsante, ma si poteva ancora distinguere il profilo del suo corpo che si dimenava attraverso la pelle rigida dell’aspide.
Alla fine la serpe strabuzzò gli occhi al cielo e si abbandonò a una dolce deliquio, mentre il topo usciva trionfante dalla sua bocca in cerca di un’altra preda da sventrare.
Va be’, mi è venuta maluccio la traduzione. Ma ascoltatelo in spagnolo, se non l’avete ancora fatto. La lettura della UNAM mi pare molto più efficace di questa raffazzonata traduzione.
In appendice, la mia presentazione video del podcast (una cosa molto selfosa e contemporanea; una cosa schifosamente narcisistica ed esageratamente autocelebrativa):
Dici che ti sei resa conto che non abbiamo niente in comune. Non ce la fai più a stare vicino a me. Dici che hai bisogno di metterci una pietra sopra e qualche chilometro di distanza. Dici che non mi sopporti. Non mi sopporti più e forse non mi hai mai sopportato.
Ma lo sai che tante volte non mi sopporto neanche io? E allora lo vedi che ce l’abbiamo ancora qualcosa in comune? Tu non mi sopporti più e pure io non mi sopporto e, forse forse, non mi sono mai sopportato. Solo che io non posso mettermela una pietra sopra. E nemmeno frapporre qualche chilometro di distanza tra me e me.
Dai, se vuoi ti accompagno e lungo la strada parliamo un po’ male di me. So cose e dettagli che tu neanche immagini. Che ne dici? Vengo e ti aiuto a portare le valigie fino al bar giù all’angolo? o vuoi veramente andartene da sola?
Va be’, ho capito. Ti sto annoiando. Ti sto opprimendo. Ti sto intrappolando. Come al solito. Ma è come se costruissi una trappola in cui intrappolati ci finiamo in due. Scappa, scappa. Approfitta che io ora sono distratto dal suono delle mie parole. Io, da parte mia, cercherò di non correrti dietro di nuovo.
1) A 360° 2) Anche no 3) Aprire un /sedersi intorno a un tavolo 4) Ci sta 5) Combinato disposto 6) Come se non ci fosse un domani 7) Detto ciò / ciò detto / detto questo 8) E poi mi taccio 9) Eccellenza 10) Gettonare / -ato 11) H24 12) Il tema è… 13) Importante 14) Ma di cosa stiamo parlando? 15) Mettere / messa a terra 16) Mettere in campo 17) Mozzafiato 18) Narrazione 19) Nel senso… 20) Performare / -ante 21) Plastico / -amente 22) Praticamente 23) Quello/a/e/i che è / sono … 24) Resilienza 25) Senza se e senza ma 26) Solare 27) Sostenibile 28) Tanta roba 29) Trovare la quadra 30) Tutta la vita.
Da questa lista è possibile scegliere le 5 espressioni più antipatiche e spedirle all’indirizzo e-mail lettereasette@rcs.it.
Io, dopo aver votato la mia cinquina idiosincratica,* mi sono preso la libertà, e di certo anche il gusto, di scrivere una storiella che comprendesse tutte e trenta le parole moleste. È nato così il racconto più fastidioso del mondo, che potete leggere qui di seguito.
Si svegliò, un giorno, senza sé e senza ma’, e si mise a cercarsi. La madre, intanto, cercava lui H24 (12), una ricerca a 360° (1), mettendo in campo (16) tutte le sue forze con strenua resilienza (24), come se non ci fosse un domani (6). Un amore mozzafiato (17), un combinato disposto (5) di affetto e responsabilità, nel senso di (19) prendersi cura dell’altro, tutta la vita (30), senza se e senza ma (25) Lui, intanto, non era più la persona solare (26) di un tempo, il più gettonato (10) della compagnia, un’eccellenza (9) in ogni campo, sempre performante (20) e capace di sedersi intorno a un tavolo (3) e trovare la quadra (29), senza se e senza ma (25 bis). In poche parole, lui non era più quello che era (23). Ma l’importante (13) della narrazione (18) era il fatto che oramai, per quanto mettesse a terra (15) tutti i problemi, non riusciva più ad arrivare ad una soluzione. Praticamente (22), non trovava più sé stesso né la madre, e la madre non trovava lui. Il tema, lo avrete capito, è (12) la ricerca e l’incapacità di trovarsi; ma anche no (2). Perché, in fondo, anche perdersi è un modo di trovarsi e ritrovarsi. E questo pure ci sta (4). Detto ciò (7), e poi mi taccio (8), lui cominciò a sentire la sua vita e la realtà non più sostenibili (27), mentre avvertiva plasticamente (21) la sua assenza e quella della madre. Tanta roba (28), insomma. E non posso di certo dirvela tutta qua. Senza se e senza ma (25ter).
Ma di cosa stiamo parlando? (14) Voi sapete quanta gente si perde ogni giorno in Italia e nel mondo? Anche ora. Mentre state leggendo.
* Queste sono le 5 espressioni che io aborrisco per quanto le sento abusate, mal utilizzate o modaiole (in ordine di antipatia).
16) Mettere in campo (ma trovo ancora più fastidioso l’uso politico di “scendere in campo”) 24) Resilienza 26) Solare 2) Anche no 11) H24
Dite che il frutto non cade mai lontano dall’albero. Ma questo vale solo se ipotizziamo l’esistenza di un mondo platonico e iperuranio fatto solo di alberi da frutta e nulla più. Tipo il giardino dell’Eden prima dei giorni che precedono la creazione. Nella realtà dei fatti ci può essere sempre un agente esterno che prende o strappa il frutto dal ramo e lo porta lontano o molto lontano da dove può arrivare l’ombra del fusto e delle fronde. Nel bene e nel male esistono i venti, le tempeste, i colpi di mazza che abbacchiano i rami, i raccoglitori che riempiono i cesti, i Newton sotto gli alberi di mele, i corvi che mangiano bacche ancora attaccate al loro cordone ombelicale, un viandante che solleva il braccio e raccoglie l’albicocca dall’albero prima ancora che sia pronta e matura, le castagne che cadono nel fiume e vengono trasportate dalla corrente, un bambino che dà un calcio a una pesca e la scaraventa lontano ancor prima che entri a contatto col suolo circostante, la giovane donna che prende al volo una pera che cade dal ramo e la addenta mentre si allontana dal frutteto. Le variabili sono tante e tendenti all’infinito. E voi venite a dirmi che un frutto non cade mai lontano dall’albero. La verità, vi prego, sui frutti e le molteplici possibilità del cadere!
Anche questo testo è un frutto da cui prendo le distanze, prima ancora che lo faccia lui da me per cadermi lontano. Lontano dalla mia ombra. Lontano dagli occhi. Lontano dal cuore. (Per quanto mi ci stia affezionando mentre vedo piombare a frotte le parole e i grappoli acerbi e putrescenti del mio pensare).
Ora che abbiamo toccato il fondo, ci resta solo da scavare per vedere se c’è una via d’uscita dall’altro capo del mondo.
(Sperando che non ci inseguano per colonizzare anche il mondo nuovo; se ancora ve ne fossero di terre vergini da sverginare, insozzare e inquinare a più non posso inseguendo un sogno dentro un fosso che sembra essere l’unica scappatoia, l’ultima via di fuga. Altrimenti bisognerà volgere lo sguardo verso lo spazio infinito. Miriadi di pianeti da occupare, riadattare a misura d’uomo e riempire di residui, resti, rifiuti e scarichi umani.)
Finché non ci estinguiamo, non vedo limiti per l’ingordigia umana e la straordinaria capacità di scavare tra le macerie da lei stessa create.
In napoletano l’Estate si chiama ‘a Staggione. Perché l’estate è la stagione per eccellenza. Alla luce del suo sole, l’autunno, l’inverno e la primavera scompaiono. E insieme a loro tra qualche giorno scompaio anch’io. In attesa del prossimo sole.
La voce della traccia audio è di Nelson. Il frammento è il classico dei Righeira che ci ricorda da 37 anni che L’estate sta finendo. I disegni sono dello stesso periodo del brano (prima metà degli anni ’80) e, come il brano stesso, sono stati revisionati nel nuovo millennio.
Corsi, ricorsi, caddi e mi rialzai pronto a cadere un’altra volta e a sbucciarmi le ginocchia già sbucciate. Convinto che la prossima volta sarei caduto meglio e sarei inciampato in una pietra migliore.
L’uomo è unico animale che inciampa due volte nella stessa pietra, convinto che la prossima volta andrà meglio o che questa volta si trova davanti a una pietra migliore.
L’uomo è l’unico animale che quando scompare il sole è convinto che questa volta è più pronto ed attrezzato per affrontare il prossimo inferno con tutte quelle strade lastricate di buone intenzioni e pietre su cui inciampare e cadere sulle ginocchia già sbucciate.
Corsi. Corsi e ricorsi. E continuo a correre ancora. Ma ormai sono quasi senza fiato.
Un’altra figura riemersa dallo scorso millennio e moltiplicata nell’era del digitale spinto
È passato troppo tempo per sapere chi fosse Marl e da dove provenisse. Forse questo apparente nome e cognome rievocano una città della Renania e una della Baviera. Forse quel Karl è un richiamo a Marx che vuole conferire al disegno un tono brechtiano. Magari Marl è solo un diminutivo di Marlene messo lì per riportarci alla Dietrich che attraversò quasi tutto il secolo scorso come una diva mezza europea e mezza americana. Probabilmente –staledt sta per starlet e marl per marna (una roccia argillosa e fragile usata nelle miscele cementizie).*
Non so.
E della gemella sappiamo ancora meno. Salvo che in queste immagini appare più casta e meno diva, ma non per questo meno divina di sua sorella la gemella.
* In inglese la marna (che è anche il nome di un fiume francese; lo aggiungo per i risolutori di parole crociate) si dice proprio marl.
84-22 è un mio piccolo progetto artistico che consiste nel digitalizzare e rielaborare una serie di disegni, scarabocchi e appunti grafici tratti dai miei diari e dai miei block notes di quando avevo diciotto-vent’anni. A volte si tratta di semplici schizzi al margine di testi scritti. Altre volte di intere pagine di agenda disegnate con cura e attenzione. In ogni caso, è tanta roba e ora mi trovo la memoria digitale piena di foto e scannerizzazioni che a mano a mano sto riattualizzando e riportando in vita.
Un piccolo esempio di prima e dopo (disegno numero zero)
Quando si hanno 18 anni si hanno tante idee e scarsi mezzi per realizzarle. Dopo, in genere, i mezzi si affinano e la creatività si affievolisce. Non so, comunque, se questo sia esattamente il mio caso. Non mi pare di essere molto cresciuto, tecnicamente, dai primi anni della mia maggiore età burocratica e civile. Anzi, direi che sono quasi certo che oggi non sono in grado di usare penne, colori e matite con maggiore perizia di allora (purtroppo). Nel mentre, però, si è avuto nel nostro mondo un enorme incremento degli strumenti digitali per disegnare e per fare pressoché qualsiasi cosa e io, per inclinazione personale e per curiosità, sin dalla diffusione dei primi personal computer casalinghi mi sono tenuto al passo con i tempi (per intenderci, l’epoca in cui i primi pc sono entrati nelle nostre case e nella nostra vita è sempre quella: gli anni ’80 dei miei 15-20 anni, quando io, invece di studiare per la maturità, imparavo a programmare in basic da autodidatta). Ragion per cui, se c’è una cosa di cui sono certo, è che oggi ho a disposizione più strumenti digitali di allora per esprimere i miei concetti grafici.
Quanto alla creatività… Boh, è un discorso lungo e impervio. Ma a me pare che la mia capacità produttiva e il mio estro non siano andati diminuendo col tempo, almeno in quanto a consistenza e numero di realizzazioni. Piuttosto è cambiata la qualità delle mie creazioni e delle mie invenzioni (dato che sono cambiate pure le idee e la realtà che sta dietro e dentro le mie raffigurazioni). Poi certe volte penso che il mio fervore creativo sia inversamente proporzionale alla passione che metto nella vita; anche se tendo a pensare che comunque il mio fervore sempre di quella passione si alimenta.
Ma mi pare di aver già detto troppo per un post dedicato alle immagini. Quella che segue è una selezione (molto parziale e arbitraria) dei disegni di questo progetto. Gli ultimi due li ho ibridati con delle foto che ho scattato a Blanes in questi giorni. Dateci uno sguardo e magari fatemi sapere che ve ne pare. Io, intanto, continuo a digitalizzare e rielaborare in modo matto, gioioso e disperato.