Tutte cose già dette, ripetute in altro modo. Ma non dobbiamo mai smettere di relazionarci con i classici.
Un classico è un libro che non si esaurisce alla prima lettura. Un libro che continuano a leggere diverse generazioni di lettori, perché parla agli uomini di ogni tempo. Un testo in cui troverai sempre qualcosa di nuovo. Uno scrigno che non finirai mai di scoprire. Una voce che, se saprai ascoltare, continua a parlare anche a te, e ad ogni lettura sentirai nuovo o rinnovato quello che avevi già sentito e risentito.
Versi e prose che si nascondono nelle pieghe della memoria mimetizzandosi da inconscio collettivo o individuale; opere che non si finisce mai di scoprire e riscoprire, e pare sempre che sia la prima volta ed ogni volta abbiano altro ancora da dirci; testi che rimandano a testi del passato e preannunciano il futuro; opere piccole o grandiose che sono per chi le legge una miniera inesauribile in cui ritrovare parti di se stessi e del proprio presente, in qualunque epoca o condizione si legga il loro prezioso lascito.
Un classico è una superficie riflettente in cui ti pare di intravedere anche le sagome di chi si è rispecchiato prima di te.
Da un classico trovi sempre qualcosa da saccheggiare o da imparare e una musicalità che è capace di incarnare e trascendere ogni tempo e ogni concetto.
Un classico è un tempio e un motore.
I classici sono occhiali che fanno vedere i ciechi e sentire i sordi.
I classici ci mettono in contatto con noi stessi e con la realtà che ci gira intorno. Leggendoli ci allontaniamo dal mondo per comprenderlo meglio.
Un classico è un’estensione della nostra immaginazione; una bugia che dice la verità.
(In un certo senso ogni libro è un classico, per un lettore di classici.)
Un classico è un testo fecondo che nutre e feconda anche te che lo leggerai domani. Qualunque sia il supporto che userai per far passare dentro di te quella serie pressoché perfetta di parole.
…
In buona parte, per scrivere questa decina di paragrafetti, ho fatto mie le considerazioni, lette nel secolo scorso, di un classico di Italo Calvino sul perché leggere i classici. Ma sono andato a memoria. E potrei aver scritto altro.
Da un classico trovi sempre uno specchio per riflettere e reinterpretare te stesso. A volte anche a prescindere da quello che c’era scritto nella versione originale.
Gira ormai da una quindicina di anni una lista di 100 libri che sarebbero stati scelti dalla BBC come gli imprescindibili, quelli che non si può fare a meno di leggere. Oggi mi è balzata di nuovo agli occhi.
Ma eccovi la famigerata lista a vostro uso e consumo, in modo che la possiate liberamente confrontare con il vostro gusto e la vostra “enciclopedia delle conoscenze personali”.
1 Orgoglio e Pregiudizio – Jane Austen 2 Il Signore degli Anelli – J.R.R. Tolkien 3 Il Profeta – Kahlil Gibran 4 Harry Potter – JK Rowling 5 Se questo è un uomo – Primo Levi 6 La Bibbia 7 Cime Tempestose – Emily Bronte 8 1984 – George Orwell 9 I Promessi Sposi – Alessandro Manzoni 10 La Divina Commedia – Dante Alighieri 11 Piccole Donne – Louisa M Alcott 12 Lessico Familiare – Natalia Ginzburg 13 Comma 22 – Joseph Heller 14 L’opera completa di Shakespeare 15 Il Giardino dei Finzi Contini – Giorgio Bassani 16 Lo Hobbit – JRR Tolkien 17 Il Nome della Rosa – Umberto Eco 18 Il Gattopardo – Tommasi di Lampedusa 19 Il Processo – Franz Kafka 20 Le Affinità Elettive – Goethe 21 Via col Vento – Margaret Mitchell 22 Il Grande Gatsby – F. Scott Fitzgerald 23 Bleak House – Charles Dickens 24 Guerra e Pace – Leo Tolstoy 25 Guida Galattica per Autostoppisti – Douglas Adams 26 Brideshead Revisited – Evelyn Waugh 27 Delitto e Castigo – Fyodor Dostoyevsky 28 Odissea – Omero 29 Alice nel Paese delle Meraviglie – Lewis Carroll 30 L’insostenibile leggerezza dell’essere – Milan Kundera 31 Anna Karenina – Leo Tolstoj 32 David Copperfield – Charles Dickens 33 Le Cronache di Narnia – CS Lewis 34 Emma – Jane Austen 35 Cuore – Edmondo de Amicis 36 La Coscienza di Zeno – Italo Svevo 37 Il Cacciatore di Aquiloni – Khaled Hosseini 38 Il Mandolino del Capitano Corelli – Louis De Berniere 39 Memorie di una Geisha – Arthur Golden 40 Winnie the Pooh – AA Milne 41 La Fattoria degli Animali – George Orwell 42 Il Codice da Vinci – Dan Brown 43 Cento Anni di Solitudine – Gabriel Garcia Marquez 44 Il Barone Rampante – Italo Calvino 45 Gli Indifferenti – Alberto Moravia 46 Memorie di Adriano – Marguerite Yourcenar 47 I Malavoglia – Giovanni Verga 48 Il Fu Mattia Pascal – Luigi Pirandello 49 Il Signore delle Mosche – William Golding 50 Cristo si è fermato ad Eboli – Carlo Levi 51 Vita di Pi – Yann Martel 52 Il Vecchio e il Mare – Ernest Hemingway 53 Don Chisciotte della Mancia – Cervantes 54 I Dolori del Giovane Werther – J. W. Goethe 55 Le Avventure di Pinocchio – Collodi 56 L’ombra del vento – Carlos Ruiz Zafon 57 Siddharta – Hermann Hesse 58 Il mondo nuovo – Aldous Huxley 59 Lo strano caso del cane ucciso a mezzanotte – Mark Haddon 60 L’Amore ai Tempi del Colera – Gabriel Garcia Marquez 61 Uomini e topi – John Steinbeck 62 Lolita – Vladimir Nabokov 63 Il Commissario Maigret – George Simenon 64 Amabili resti – Alice Sebold 65 Il Conte di Monte Cristo – Alexandre Dumas 66 Sulla Strada – Jack Kerouac 67 La luna e i Falò – Cesare Pavese 68 Il Diario di Bridget Jones – Helen Fielding 69 I figli della mezzanotte – Salman Rushdie 70 Moby Dick – Herman Melville 71 Oliver Twist – Charles Dickens 72 Dracula – Bram Stoker 73 Tre Uomini in Barca – Jerome K. Jerome 74 Notes From A Small Island – Bill Bryson 75 Ulisse – James Joyce 76 I Buddenbroock – Thomas Mann 77 Il buio oltre la siepe – Harper Lee 78 Germinale – Emile Zola 79 La fiera delle vanità – William Makepeace Thackeray 80 Possession – AS Byatt 81 A Christmas Carol – Charles Dickens 82 Il Ritratto di Dorian Gray – Oscar Wilde 83 Il Colore Viola – Alice Walker 84 Quel che resta del giorno – Kazuo Ishiguro 85 Madame Bovary – Gustave Flaubert 86 A Fine Balance – Rohinton Mistry 87 Charlotte’s Web – EB White 88 Il Rosso e il Nero – Stendhal 89 Le Avventure di Sherlock Holmes – Sir Arthur Conan Doyle 90 The Faraway Tree Collection – Enid Blyton 91 Cuore di tenebra – Joseph Conrad 92 Il Piccolo Principe– Antoine De Saint-Exupery 93 The Wasp Factory – Iain Banks 94 Niente di nuovo sul fronte occidentale – Remarque 95 Un Uomo – Oriana Fallaci 96 Il Giovane Holden – Salinger 97 I Tre Moschettieri – Alexandre Dumas 98 Amleto– William Shakespeare 99 La fabbrica di cioccolato – Roald Dahl 100 I Miserabili – Victor Hugo
Personalmente ne ho letti una trentina, qualcuno l’ho cominciato e poi lasciato in sospeso e, in casa, ne ho più della metà. Almeno una sessantina.
In ogni caso, ogni volta che mi è capitato tra le mani questo elenco, ho sentito nell’aria un olezzo di bufala. Fin dal principio ho avuto l’impressione che non fosse un’autentica produzione della BBC ed ho immaginato che, al limite, si potesse trattare di una lista nata lì nella British Broadcasting Corporation, ma modificata e rimaneggiata nei vari passaggi di rete da lettore a lettore. Peraltro, mi pareva molto strano che la più celebre tra le emittenti televisive inglesi, su 100 testi, avesse inserito ben 17 titoli italiani (e neanche di quelli più noti a livello internazionale); e che tra i romanzi di Dickens avesse preferito Casa desolata a Grandi Speranze, Il Circolo di Pickwick e Tempi Difficili; strano, poi, che mancassero Middlemarch di George Eliot e L’Isola del Tesoro e Dottor Jekyll di Stevenson; inoltre, si parlava di Harry Potter come di un solo libro e si citava una volta l’opera omnia di Shakespeare e poi il solo Amleto (come se il tutto non comprendesse la parte)…
E allora, alla luce di questi ed altri dubbi, ho deciso di attuare un controllo facendo la cosa più facile del mondo. Ho cercato nella web di lingua inglese la presunta lista e, in un attimo, mi sono imbattuto nel sito (autentico) dei 100 libri della BBC.
La lista c’era. Suddivisa in due pagine web di 50 titoli ciascuna. Ma effettivamente, come sospettavo, si trattava di un elenco notevolmente differente da quello che gira nel web di lingua italiana.
Con l’ausilio di Google Lens ho trasformato le due immagini in un elenco testuale simile a quello che ho inserito prima in italiano, per agevolare il confronto tra le due liste (che ho realizzato con l’ausilio di un foglio elettronico).
Risultato: le corrispondenze tra le due liste sono meno di 40. I testi della lista made in BBC sono quasi tutti appartenenti al panorama letterario inglese, rari anche quelli della letteratura angloamericana. Ma, soprattutto, a ben leggere, quella lista non è stata redatta da esperti, critici o professoroni di Oxford o Cambridge, è solo il risultato di un sondaggio tra gli spettatori della BBC realizzato nel 2003.
In April 2003 the BBC’s Big Read began the search for the nation’s best-loved novel, and we asked you to nominate your favourite books.
Abbastanza ovvio, allora che manchi tutta la letteratura francese, spagnola e italiana e che non ci siano nemmeno opere che, personalmente, considero fondamentali come Le mille e una notte, i Frammenti di Eraclito, l’Antigone di Sofocle, L’Idiota di Dostoevskij, Casa di Bambola di Ibsen, Finzioni di Borges, tutto Proust (che io, tuttavia, non ho letto), le poesie di Leopardi, il Libro delle Inquietudini di Pessoa, i racconti di Chekov, i romanzi di Verne e quelli di Salgari, il Diario di Anna Frank, le opere di Céline e Celan, La Divina Commedia di Dante Alighieri e Cecità di Saramago. D’altro canto ci sono nella lista farlocca italiana capolavori assoluti che mancano nella lista inglese, come l’Odissea, il Don Chisciotte di Cervantes, Il Processo di Kafka, Moby Dick di Melville e Le Affinità Elettive di Goethe. Ma probabilmente la mancanza più vistosa sarebbe la completa assenza di opere di Shakespeare, se non si facesse attenzione al fatto che, nella lista originale inglese, siamo al cospetto di soli romanzi (così come richiesto dal gioco; il che, a questo punto, giustifica anche l’assenza di una Divina Commedia o di un Paradiso Perduto, tanto per fare un paio di esempi di capolavori della letteratura universale non scritti in forma di romanzo).
Insomma, il gioco è simpatico, ma lascia il tempo che trova se non serve almeno a spronarci a lasciare un po’ da parte questi social per dedicarci alla lettura di uno di questi 100 o di quegli altri 100mila capolavori della letteratura universale che ci aspettano nei nostri scaffali, sulle mensole delle biblioteche e delle librerie o nella memoria digitale del nostro e-reader.
Pare che ogni giorno nel mondo vengano pubblicate tremila novità librarie. E noi non ne leggiamo nemmeno tre in trecento giorni. Pare.
D’altronde, come diceva il Massimo comico napoletano nato dopo Totò: “Io non leggo mai, non leggo libri, cose… pecché che comincio a leggere mo’ che so’ grande? Che i libri so’ milioni, milioni, non li raggiungo mai, capito? pecché io so’ uno a leggere, là so’ milioni a scrivere, cioè un milione di persone e io uno, mentre ne leggo uno…” (Citato in Massimo Troisi. Il mondo intero proprio – Pensieri e battute a cura di Marco Giusti, Mondadori, 2004).
Sono sempre stato restio a partecipare a concorsi e premi di poesia, ma questa volta avevo fatto un’eccezione; questo era il premio dedicato al mio amico Pietro, morto due anni fa senza darci nemmeno il tempo di rendercene conto. E per tanti versi non ce ne rendiamo conto ancora.
Per molti anni Pietro mi aveva invitato a mandare qualche verso al premio da lui fondato per la sezione Roma Tevere del Rotary, ma io sono stato a sentirlo solo ora, quando lui se ne è già andato. Credo di averlo fatto soprattutto come un modo per onorare la sua memoria, ora che quel premio il Rotary lo ha giustamente intitolato a lui.
…
A fine marzo, avevo mandato tre miei testi con insistiti a capo, scegliendoli tra quelli più brevi scritti in oltre quaranta anni di poesia solitaria o social.
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1. Non esiste più la primavera
È stata un’estate estasiante, passerà lesto l’autunno: e mentre era agosto sarà già natale.
Ormai a cinquant’anni il futuro non è più quello che era e appena ti svegli senti già incombere la sera.
2. In punta di piedi
Quando entri nei miei sogni, fallo in punta di piedi.
Non vorrei che mi svegliassi dal sonno o mi distraessi dal sogno in cui sogno che ti sogno.
3. semi ricordi e radici
schiere di persone che vanno via ingabbiate in lastre di marmo e lasciano in noi semi ricordi e radici piantati tra i vuoti le mancanze e le stanze buie
Io preferivo, la prima. Mia figlia, la seconda. È stata premiata la terza. Con un terzo posto. Ed è giusto così.
Le poesie premiate con medaglie d’oro e d’argento (metaforiche, si intende) erano molto belle, la mia molto legata al ricordo di Pietro e di tanti cari che se ne sono andati in questi anni lasciando in noi semi, ricordi e radici. E non escludo che tra le poesie solo menzionate ieri, e non lette, ce ne fossero di più vibranti, sentite e intense delle mie.
(Poi c’è anche una targa, ma l’ho già messa in valigia e non l’ho fotografata.)
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Nonostante la nota costante di dolore, è stata una bella serata, piena di ricordi belli condivisi con le sorelle di Pietro, la moglie e tanti suoi amici che non conoscevo.
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Ora scrivo da un hotel di Roma, aspettando che la bambina si svegli per farci un giro tra i miei ricordi e le sue novità.
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E conto di rivederlo, di rivedervi, e sentire risuonare tra le pietre le sue parole.
Passiamo ormai più tempo a osservare e mettere in scena la vita sui social che a vivere la vita nel flusso reale delle nostre esistenze. Tanto che si è persa anche ogni linea di demarcazione tra reale e virtuale (se mai ce ne sia stata una). Ma prima ancora che con i social questa dispersione della vita è cominciata con la diffusione massiva dei cellulari.
15 anni fa, già ce li avevano tutti, gli apparecchietti. Ma io resistevo. Avevo quarant’anni. E resistevo. Resistevo. Resistevo, mentre vedevo il mondo cambiare intorno e all’interno di me. Attonito. (Perché vista da fuori, sembrava assurda e perfino sconvolgente questa perdita di contatto col mondo fisico, questa intermediazione costante del digitale tra noi e il mondo, tra noi e gli altri, tra noi e noi stessi, perfino.)
Ad un dato momento, sembravano tutti impazziti. Amici che erano a tavola con me parlavano ad alta voce con altri, distanti, come se io non fossi lì accanto a loro. Suonerie che risuonavano ovunque. Sguardi puntati tutto il tempo sugli schermi. In ogni luogo e in ogni ora del giorno e della notte. Squilli e conversazioni a cinema, a teatro, sui treni e in chiesa. Selfie in casa, sul cesso, sull’orlo di un precipizio, in biblioteca, alle udienze papali o davanti a stragi e conflitti armati. Telefonini su ogni scrivania, su ogni cruscotto, su ogni cattedra e su ogni banco di scuola.
E tanti di loro, con gli apparecchietti accesi nelle mani, a chiedermi come facessi a farne senza. (La stessa identica questione che pongo io ora a mia madre, una resistente di 80 anni passati con lo sguardo stravolto dalla nostra dipendenza di massa.)
Ricordo sconosciuti che appena mi si avvicinavano e scambiavano con me quattro chiacchiere, mi chiedevano il numero di telefonino e l’account MySpace. Io dicevo di non avercelo, l’apparecchietto. Loro sgranavano gli occhi e osservavano preoccupati che mi sarebbe potuto capitare di tutto, senza il cosetto: – avrei potuto avere l’improvvisa esigenza di consultare un dizionario o un’enciclopedia, o di comprare indispensabili oggetti online – avrei potuto avere il bisogno impellente di chiamare qualcuno per chiedere informazioni, scambiare opinioni e dirgli che sentivo l’urgente necessità di sentire la sua voce – mi sarei potuto trovare all’improvviso davanti a una situazione che doveva essere fotografata – ma, soprattutto, avrei potuto trovarmi da solo, con l’automobile in panne, di notte, in un luogo sperduto e deserto, senza poter chiamare nessuno in soccorso.
Io ribattevo che non mi sarei mai potuto perdere da solo in una selva scura, perché, oltre al telefonino, non avevo nemmeno la macchina. E loro, giustamente, mi prendevano per un barbaro, per uno zombie, per un alieno.
Più di cento anni fa il grande fumettista e caricaturista inglese William Kerridge Haselden (nato a Siviglia nel 1872) provò a immaginare cosa sarebbe successo se avessero inventato un telefono tascabile. La vignetta fu pubblicata da “The Mirror” a marzo del 1919 ed è arrivata qui attraverso la pagina Facebook di Emy Canale, che ringrazio pubblicamente per questo gioiello di meravigliosa capacità visionaria. È la stessa Emy Canale, traduttrice anglofona, a spiegare il gioco di parole che appare ‘virgolettato’ nella didascalia finale: “We shall be ‘rung up’ at the most awkward moments in our daily lives!“, laddove ring up (telefonare, pp. rung up) e wring (pp. wrung, torcere e fig. stressare, costringerebbe a fare qualcosa di non voluto) hanno la stessa pronuncia. Il che la dice lunga sulla capacità che aveva W.K. Haselden di prefigurare lo stress e il cambiamento dello stile di vita che avrebbe comportato l’invenzione dei “pocket telephones“.
Ora ho sia la macchina che il telefonino. Dopo i quarant’anni li ho presi entrambi e sono entrato nei ranghi. Così adesso mi trovo anche io – con lo sguardo fisso sull’apparecchietto quando attraverso la strada – e distratto da chi mi sta di fronte mentre metto in scena una comunicazione con gente distante – e col telefono che squilla in classe o durante una conferenza – e a controllare i like su Facebook, a impegolarmi in discussioni inutili su WhatsApp, a mandare messaggi davanti a un semaforo diventato verde con i clacson che mi suonano dietro – e a parlare dei problemi dei social, da dentro i social, sui social.
Ci capita, talvolta, che, nel momento stesso in cui affiorino certi fenomeni di massa, abbiamo l’impressione che qualcosa non vada. Poi, però, ci troviamo ad assumere anche noi atteggiamenti e comportamenti che avevamo deprecato il giorno prima.
Come in una bolla virale che continua a gonfiarsi e sembra essere sempre sul punto di scoppiare e scaraventarci tutti nello spazio come schegge impazzite e fuori controllo (finalmente).
…
Al margine, un’osservazione linguistica. Ho utilizzato, in questo breve testo, per ben cinque volte l’aggettivo inglese “social” come sostantivo (plurale) in sostituzione dell’espressione social network(ing), che “identifica un servizio informatico on line che permette la realizzazione di reti sociali virtuali” per consentire agli utenti “di condividere contenuti testuali, immagini, video e audio e di interagire tra loro”. (Treccani online) È un uso attestato in Italia da almeno dieci anni, uno pseudoanglicismo che scaturisce da un meccanismo di abbreviamento che risulterebbe incomprensibile per un parlante di lingua inglese (al pari di night usato al posto di night club, silver al posto di silver plate(d), smoking invece di smoking jacket, reality invece di reality show, basket per basketball, water per water closet e fake in pigra sostituzione di fake news). In fondo, si tratta di un principio di economia linguistica antico come la cattiveria (da cattivo, che a sua volta deriva da captivus mali, prigioniero del male, espressione latina da cui noi italiani abbiamo preso la prima parte – quella del prigioniero – e gli spagnoli la seconda – quella del male – per definire l’opposto di ciò che è buono, una persona malvagia, insensibile, incline al male o una cosa dannosa, dolorosa, spiacevole, sgradita, come spero non sia stata per voi la lettura di questo testo. E con questo vi saluto e vi auguro un felice “finde“).
Vedo orde crescenti di adolescenti e preadolescenti indossare magliette, felpe e cappellini con scritte inquietanti che ammiccano alla criminalità e al traffico di stupefacenti, tipo: Narcos, Pablo Escobar, Cartel de Medellín, Cocaine, Pusher, Plata o Plomo, che letteralmente significa Argento o Piombo, ma, nei fatti, corrisponde a una più violenta e assonante versione del nostrano “O la borsa o la vita”. Tipo: mi dai i tuoi soldi o preferisci prenderti il piombo delle mie pallottole?
Le vedo, le vedo crescere queste orde di sponsor inconsapevoli dei narcotrafficanti e della mala vida; le vedo crescere a fiotti, a mucchi e a ondate, e mi chiedo se i loro genitori si rendano conto di cosa ci sia stampato in petto (o sulla schiena e sulla fronte) degli abiti con cui i loro figli vanno in giro orgogliosi. Non escludo neanche la possibilità che in qualche caso siano le loro stesse madri (o i papà, o i nonni e gli zii) a comprare quegli attraenti indumenti (quasi sempre tinti di nero; che affina, è elegante e va bene su tutto, come il ketchup, il Movimento Cinque Stelle, le mascherine e la maionese). Immagino che comprino le loro oscure magliette in qualche centro commerciale o su una traballante bancarella del mercato affollata di gente in cerca di affari e di pezzi unici; pezzi unici che – sia chiaro – sono unici come quelli di tutti gli altri. E mentre vedo, intravedo e immagino, me li prefiguro tutti in fila che avanzano come zombie nerovestiti in cerca di una dose. Tutti con un coltello in tasca pronto per l’uso. Ché in questa giungla devi imparare a difenderti da solo e da solo devi saperti prendere quello che è tuo e quello che vuoi tuo perché sì. THE WORLD IS YOURS! Argento o piombo. Tutti strafatti di cocaine made in Medellín. Per stare sempre de puta madre e sentirsi forti e potenti come Pablo Escobar.
(A volte chiedo espressamente ai ragazzi così abbigliati se sappiano che realtà rappresentino quelle scritte che imperversano sulle loro maglie; ma ricevo quasi sempre silenzi o risposte evasive. I pochi che farfugliano qualcosa, fanno riferimento a serie televisive alla moda e sostengono, col cuore gonfio di orgoglio, che si tratta di storie mozzafiato, con gente gasata e fica e ambientazioni più avvincenti e coinvolgenti dei quartieri squallidi e ordinari di Gomorra o di Suburra. Tutta roba che gira su Netflix, su Prime, su SkyTV.)
Cerco di farmene una ragione. Mi dico che è solo una moda. Un trend per vendere a caro prezzo magliette di scarsa qualità. Mi dico che, in fondo, anche ai miei tempi c’era chi portava t-shirt con su scritto The Godfather o Il Padrino… O Al Pacino Scarface, un prototipo sempre alla moda.
In fondo, a 15 o 16 anni è normale avere voglia di trasgredire e uscire dagli schemi, mi dico. A 15 o 16 anni (o giù di lì) chiunque, di qualunque generazione, rischia di cadere nella trappola di chi omologa la sua voglia di trasgressione, fa mercato della sua vita e lo fa abboccare come un pesce al suo amo. Dopo, con l’avanzare dell’età, …sarà lo stesso. O pure peggio. Mi dico. E vado a cercarmi la mia XL su Amazon. ¿Plata o plomo?
Oggi, 17 maggio, la chiesa, la tradizione e il culto cattolico celebrano San Pasquale Baylon, il frate francescano nato e morto in Spagna nel giorno della Pentecoste (1540-1592). Era di origini umilissime, Pascual Baylón Yubero; un piccolo pastore di pecore, diventato, in piena controriforma, pastore di anime e strenuo difensore del principio della presenza reale del Cristo nel sacramento eucaristico, che si voleva incarnato in ogni consacrazione attraverso le parole pronunciate dal sacerdote durante la messa. La fede incrollabile nella parola (“in principio era il verbo”) che Pascual aveva il bel coraggio di andare a sostenere fin dentro le case dei calvinisti francesi.
Oggi, però, San Pasquale, più che come patrono dei pastori e difensore dell’eucarestia, viene ricordato come protettore delle donne in attesa di un figlio o di un marito che non arriva. Ma da dove viene questa novella specializzazione verso il mondo femminile? È possibile che questo ruolo di santo sostenitore di donne insoddisfatte si sia sedimentato nella prima metà del ‘700, circa cento anni dopo la sua canonizzazione, proprio qui a Napoli e dintorni; da dove io scrivo ora. Pare che Don Carlo III di Borbone e sua moglie Doña Maria Amalia di Sassonia, visto che non riuscivano a dare un erede al Regno delle Due Sicilie, si rivolsero a un tale frate Serafín de la Concepción, e pare che questi consegnò ai monarchi una reliquia del santo spagnolo-aragonese. Passarono solo cinque giorni e già la regina sentì tre piccoli colpi nel ventre: poco meno di nove mesi dopo sarebbe nato il sospirato erede, il primo di 13 borboncini. Tuttavia, come osserva il mio amico Pasquale Vergara, è molto più probabile che questo Pasquale Bailonne protettore delle donne sia scaturito dalla facilità della rima in –onne, più che dai problemi di proliferazione dei re Borboni.
Infatti, nel sud Italia c’è tutto un affastellarsi di invocazioni e formulette magico-miracolistiche al santo in cui risuonano rime di questo tono e suono:
San Pasquale Bailonne, protettore delle donne, trovatemi un marito bianco, rosso e colorito. Come voi, tale e quale, o glorioso San Pasquale.
Non so quanti di voi ricordano che nel 1976 Luigi Filippo D’Amico diresse una commedia all’italiana intitolata: “San Pasquale Baylonne protettore delle donne”. Il film raccontava le peripezie di un tale Giuseppe Cicerchia, interpretato da Lando Buzzanca, che si proponeva come intermediario boccaccesco tra le donne e il santo. Ebbene, in una scene della commedia una processione di donne canta proprio una di queste celebri invocazioni (opportunamente reinventata):
San Pasquale Baylonne, protettore delle donne sei il più bello de li santi, ogni femmina accontenti.
San Pasquale Baylonne, protettore delle donne esaudisci le tante preghiere di chi figli ancora non può avere.
San Pasquale Baylonne, protettore delle donne, facce diventà più belle alle povere zitelle.
In America Latina, invece, la figura di San Pascual Baylón è associata soprattutto all’arte culinaria. Fin dai tempi delle prime colonizzazioni pare che le cuoche latinoamericane si rivolgessero a lui come “santo protector de los fogones y de los accidentes en las cocinas” (santo protettore dei fornelli e degli incidenti in cucina) e lo invocassero in formule di questo tipo:
San Pascual Baylón, báilame en este fogón. Tú me das la sazón, y yo te dedicó un danzón.
che traduco piuttosto liberamente:
San Pasquale Baylón, volteggiami tra i fornelli. Tu ci metti i mattarelli e io ti dedico un danzón.
(Nell’originale sazón sta per condimento; mentre il danzón è un ballo di origine cubana. In ogni modo, anche qua è probabile che tante invocazioni siano scaturite da questioni di rima; come ho detto anche prima.)
Per estensione, in molti Paesi di lingua spagnola, ogni volta che si desidera qualcosa ci si può rivolgere al buon Pasquale in questi termini:
San Pascual Bailón, San Pascual Bailón, … [Qui si dice quello che si desidera dal santo tipo: acaba con esa destrucción ovvero: falla finita con questa distruzione]. Si me lo concedes, te bailo un danzón o te canto una canción”.
Naturalmente, se il desiderio si compie, è d’uopo danzare e cantare così come promesso nell’invocazione. (Io direi di provarci.)
In Messico c’è chi assicura che rivolgendosi al nostro santo mentre si cucina (“San Pascual Bailón, ilumina mi sazón”), il piatto comincia ad assumere un aspetto appetitoso e arriva a piena cottura in tempi miracolosamente brevi. Similmente, in Colombia, si celebra una festa danzante in suo onore nella cittadina di Monguí caratterizzata dalla formula rituale:
San Pascualito, San Pascualito, tú pones tu granito y yo pongo otro tantito.
D’altra parte, anche in Italia, molti ricordano San Pasquale come il protettore dei cuochi e dei pasticceri e perfino c’è chi lo considera l’inventore dello zabaione. Una tradizione piemontese vuole che Pascual inventò questo dolce nella chiesa di San Tommaso a Torino, e, proprio per questo, i torinesi avrebbero denominato questa santa crema prima San Baylon e poi Sanbajon, fino ad arrivare all’odierno zabaione. Un’altra versione racconta che il Nostro portò la ricetta dell’uovo sbattuto con zucchero e vino passito dalla Spagna a Napoli e consigliò alle donne di prepararla per i loro mariti al fine di rinvigorirli e predisporli alle gioie dell’amore (soprattutto quando li trovavano un po’ pigri e inappetenti).
Sia come sia, pastore, predicatore, protettore delle donne, inventore dello zabaione, cuoco e pasticciere, a me piace ricordare di San Pasquale soprattutto questa frase tramandata di monastero in monastero e arrivata a me attraverso le maglie inesauribili della rete Internet:
“Nunca hay que negar el pan a nadie. Cuando hay generosidad y ganas de compartir, siempre se produce el milagro.”
“Non bisogna mai negare il pane a nessuno. Quando c’è generosità e voglia di condividere, sempre si ravviva il miracolo.”
E chesto e’. Con tanti auguri ai Pasquali, alle Pasqualine e pure a quelli che si fanno chiamare Paco o Paquito non sapendo che in Spagna questo è un diminutivo di Francisco, di cui ho già detto altrove e non mi voglio dilungare (si fa per dire).
Mamma, grazie, grazie mille per tutto quello che hai fatto per me da 55 anni e oltre. Lo so, lo so, sono stato cacacazzo fin dal principio, ma ti voglio bene. Un bene dell’anima. Grazie, grazie mille e infinite grazie, mamma, per quello che hai fatto e fai per me e per Stefania. Anche lei ti vuole bene; ma non te lo sa dire. E poi corriamo a mille all’ora e finiamo per dimenticare le cose più importanti e le persone che ci vogliono più bene, quelle che è tutta la vita che dedicano la loro a noi. Come fosse una cosa normale. Come fosse scontato o perfino naturale. Come fosse niente e niente ci fosse da risarcire, restituire o nemmeno, solamente, ringraziare.
Corriamo a mille all’ora senza pensare alle tue ginocchia e all’udito che va a diminuire, mamma, e ti passiamo davanti senza salutare o salutando con una fretta che tu non puoi sentire, mentre raccogli in te la tua forza per continuare a mettere ordine nelle nostre vite e a cucinare, a lavare e rammendare.
Corrono a mille all’ora anche tante sofferenze inaspettate. Sorprese al rovescio che non potevi immaginare nella tua semplicità di donna d’altri tempi calata in questo terzo millennio come da un altro pianeta (a cui, comunque, a modo tuo, ti sei saputa adattare, se non proprio adeguare).
Ma oggi Stefania e io te li vorremmo ripetere tutti insieme i grazie che abbiamo dimenticato o dato per scontato (indicibile errore). Se solo bastasse questo foglio, questo figlio o tutta un’enciclopedia e i suoi aggiornamenti in continuo divenire. E ti auguriamo tante altre pagine colme di gioia a compenso (parziale) di tanto dolore.
Grazie, mamma.
Grazie, nonnina del mio cuore.
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Tanti auguri a tutte le madri e a chiunque abbia dentro e metta fuori i suoi migliori istinti di generare, preservare e amare. Soprattutto in questi tempi cupi e distruttivi.
New Edition (ulteriormente ridotta, rammendata e riacconciata)
È primo maggio ed è pure domenica. Nun tengo voglia ‘e fa niente.
Vi riciclo i miei auguri di un anno fa che riciclavano quelli di due, tre, quattro e cinque anni fa diretti a tutti coloro che il lavoro lo creano, lo fanno o lo cercano. Aggiungo le miei maledizioni per quelli che il lavoro lo distruggono, lo disprezzano o lo sfruttano. E dedico le mie parole a chi di lavoro, pure quest’anno, è crepato.
Rap/sodia del Primo Maggio
Il lavoro mi piace mi incanta m’agguanta
Me ne starei ore ed ore ed ore davanti ad un cantiere a guardare la gente che fatica suda e travaglia
o le fimmine che fanno la maglia mentre gli uomini si allisciano la coglia tra le pieghe della vestaglia
È una storia antica Chi magna e chi fatica
La cicala e la formica
E io che sogno un primomaggio di lavoro veramente intelligente No di chi fa tanto e di chi non fa niente e ci guadagna pure tanto ed eccessivamente sulla schiena della povera gente che fatica suda sfuma si sfoglia trasuda rancore e travaglia
Dignità e Rispetto Lavorare per vivere e non vivere per lavorare
Dignità Rispetto e Sicurezza Lavorare per vivere e non morire per lavorare
Dignità Rispetto Sicurezza e Giustizia Distribuire i pesi e tutti equamente ricompensare
Lavorare bene e nessuno il lavoro d’altri sfruttare
Aprile è stato crudele Speriamo in un maggio migliore Ma di speranza non vogliamo morire
E nemmeno di lavoro di non lavoro o di lavorare
Grazie assai a T.S. Eliot, a Jerome K. Jerome a Enzo Del Re ed anche a me stesso per avermi dato inconsapevolmente in prestito qualche parola buona e giusta e qualche altra, di certo, un po’ meno (tra queste ultime, le mie di me medesimo, immagino).