A Blanes, tra il Passeig de Cortils i Vielta e il Passeig de Dintre, c’è questo edificio modernista neoclassico (né bello né brutto, in verità) costruito negli anni ’20 del secolo scorso come centro culturale, sociale e ricreativo. Si chiama la Casa del Poble (la Casa del Popolo), ma durante il lungo periodo della dittatura franchista dovette cambiare nome e destinazione d’uso e fu chiamato Residencia de Trabajadores Luis Rodríguez Ballou.
Sulla facciata principale un richiamo ai valori repubblicani ed agli ideali democratici di igualtat, llibertat i fraternitat attraverso una scultura raffigurante la Marianne, tradizionale personificazione della Repubblica e della Rivoluzione Francese.
Tuttavia, più che sulla scultura, oggi lo sguardo cade su un enorme striscione che campeggia sul balcone e sulle insegne di un grande negozio che occupa tutta la facciata del piano terra. Lo striscione indipendentista e repubblicano definisce Blanes come un municipio della Repubblica Catalana in un Paese da 600 anni monarchico (salvo un paio di brevi parentesi storiche nell’800 e nel ‘900). Con tutta probabilità sono stati i militanti del partito Esquerra Republicana Catalana (dove esquerra vuol dire sinistra) a mettere lì quella scritta antimonarchica, visto che l’ERC ha la sua sede politica proprio nella Casa del Poble. Insomma, si tratta di uno dei molteplici esempi, tipicamente catalani, di insubordinazione allo Stato centrale espresso sulla facciata di un palazzo istituzionale.
Ma il bello è che il negozio che sta sotto lo striscione è del marchio Springfield, catena di negozi di abbigliamento appartenente al gruppo Tendam. Ora è il caso di spiegare che il gruppo Tendam è stato fondato nell’odiata Madrid alla fine dell’800 col nome di Cortefiel e, attualmente, nel settore tessile, risulta inferiore in fatturato solo alla Mango – di origine catalana – ed al megagruppo Inditex (quello di Zara, Bershka, Stradivarius, Pull and Bear, Tempe, Oysho, e Massimo Dutti, nato a La Coruña, in Galizia, e diventato in pochi anni il principale produttore di abbigliamento del mondo). Insomma, quando parliamo di Springfield e di Tendam stiamo parlando di una piccola e antica multinazionale dell’abbigliamento spagnolo e sovranazionale nata nel bel mezzo della penisola iberica. Quanto di più madrileno e globalista si possa immaginare. Altro che Cataluña sovrana, autonoma e repubblicana!
Insomma, al piano di sopra l’indipendentismo e il sovranismo catalano, al piano di sotto il centralismo di Madrid e la forza globalizzatrice del capitale. L’importante è che paghino l’affitto! La Catalogna è così. Piena di contraddizioni. Come me e come voi.
Da una parte, una civiltà post illuministica democratica, tollerante e solidale e, dall’altra, la ricerca spasmodica del benessere materiale e del profitto. Costi quel che costi.
La Catalogna tra democrazia, tolleranza, utilitarismo, indipentismo e sovranismo
Per la seconda volta in una decina di giorni, ieri, nell’hotel che ci ospita a Blanes, nel pieno della Catalogna indipendentista, uno spettacolo di danza flamenca. Come se fossimo in Andalusia, nel profondo sud della penisola.
Il popolo catalano è un popolo tollerante, democratico e civile, ma è anche un popolo concreto, capace di sfruttare i propri talenti e quelli altrui per farne mercato; un popolo pronto a vendersi tutto il vendibile per aumentare il proprio benessere materiale; fino agli estremi della gentrificazione che hanno trasformato interi quartieri popolari di Barcellona in zone spersonalizzate, piene di migranti e turisti, con conseguente aumento del prezzo degli affitti, degli immobili e dei beni di prima necessità. Lucía Lijtmaer, nel romanzo che sto leggendo in questi giorni di mare e rilassamento, osserva che già una ventina di anni fa Barcellona si stava trasformando in una grande Lloret de Mar…
“In due anni qui si è riempito di guiris [turisti stranieri] come se fosse Lloret, dice qualcuno, ed è vero, il centro è como la Lloret della mia infanzia, lo stesso odore di cipolla fritta e waffle riscaldato, lo stesso mare di pelli bruciate, la stessa sensazione di nausea e stordimento per la quantità di gente e sole, combinati, gente e sole, gente in scatole di latta, sole in scatola, la latta che ti brucia la pelle quando cerchi di sederti sul cofano di una macchina vicino alla spiaggia e tua madre ti diceva: togliti di lì, non vedi che ti stai per scottare, togliti di lì, ti dice ora il tuo istinto e non tua madre, ogni volta che scendi dalla ronda di Sant Pere.” [Lucía Lijtmaer, “Cauterio“, 2022, p.81. La traduzione è mia.]
Ma torniamo allo show Flamenco e alla capacità dei catalani di sfruttare a più non posso tutti i luoghi comuni del turismo iberico per farne una redditizia fonte di guadagno.
In Catalogna hanno abolito la corrida ed hanno trasformato l’Arena di Barcellona in un mega-centro-commerciale, eppure continuano a vendere tori di plastica a orde di turisti in cerca di sapori autentici e prodotti tipici e topici. In Catalogna si sentono altri dal resto della Spagna, ma poi, a ben vedere, è tutto un proliferare di ventagli, banderillas, chitarre, nacchere, paellas valencianas, sangría e gazpacho andaluso. A Barcellona e nel resto della comunità autonoma, hanno in spregio i “charnegos” (gli spagnoli che vivono in Catalogna, ma non sono figli di catalani), ma hanno catalanizzato Picasso, un genio di Malaga (Andalusia) vissuto per la maggior parte della sua vita in Francia.
Il finto tablao flamenco di ieri, che ho solo sentito da lontano perché la bambina non è voluta scendere e ha preferito tenere a sottofondo delle sue letture, è parte di questo sfruttamento mercantile dell’idea di Spagna sedimentata nelle teste degli stranieri che da due o tre secoli cercano la Carmen in ogni angolo o anfratto della penisola iberica (allo stesso modo in cui i gondolieri veneti cantano “‘O sole mio” e “Simme ‘e Napule, paisà” ai turisti tedeschi e giapponesi che questo vogliono sentire, per avere la sensazione di trovarsi in acque italiane e vivere le emozioni del popolo degli spaghetti, della pizza, delle tarentelle, delle mafie, dei Sorrentino, dei pulcinella e della camorra di Gomorra).
D’altronde, la relazione della Catalogna col flamenco viene da lontano. Già alla fine dell’800 proliferavano a Barcellona spettacoli di danza gitana in café chantant che spesso, non a caso, avevano nomi che si richiamavano alla realtà andalusa, come Café Sevillano, Café Concierto Sevilla e Café Concierto Triana. Tuttavia, è innegabile che, col tempo, si formò una vera e propria tradizione flamenca catalana. Carmen Amaya, una delle più grandi e innovative danzatrici di flamenco del secolo scorso, era una gitana nata a Barcellona nel 1913.
Questo attiene, insomma, anche alla capacità dei popoli mediterranei di assimilare culture estranee e lasciarsi contaminare dall’altro. La cucina catalana è un’ulteriore riprova di questa tendenza ad aprirsi a gusti, a prodotti e a sapori provenienti da mondi vicini e lontani.
Insomma, niente di male, per carità. Un po’ di flamenco, anche incelofanato, non fa male a nessuno. Anzi. A me piacciono pure i Gypsy King, gitani andalusi residenti in Francia che hanno inventato una versione pop e commerciale della rumba flamenca. Questa è una musica nomade, che probabilmente ha mosso i primi passi nella lontana India e poi si è andata mischiando con i suoni di mezzo mondo già prima di approdare tra Cordova, Siviglia e Granada. E da quel momento il processo di contaminazione e commercializzazione non è mai finito.*
Sento solo qualche nota stridente tra questa musica senza frontiere e la Catalogna autonomista, indipendentista, sovranista e (vivaddio) pure, sempre e comunque, antifa e antifascista.
Ma la Spagna e il mondo intero si nutrono di queste contraddizioni. E io pure, che sono del Mediterraneo e sento che questi e solo questi sono i tre colori della mia bandiera (insieme col giallo del sole, il verde degli ulivi e il rosso del sangue e della lava vulcanica).
“Mi contraddico“, “contengo moltitudini“. (W.W.)
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Se volete saperne di più del nomadismo del flamenco, leggete qua.
Dal 31 luglio sono a Blanes, con la piccola, in Costa Brava. Nel pullman dall’aeroporto del Prat all’hotel ci sono persone di ogni provenienza, ma si sente solo parlare napoletano. La solita orda di adolescenti convinti di venire a conquistare un popolo da cui è sempre stato soggiogato. In tutta l’ora e mezza del tragitto sbraitano, bevono, urlano e cantano, e in ogni frase, muggito o mugugno appare due o tre volte la parola Napoli o suoi derivati. Due o tre volte l’autista li riprende, ma loro continuano imperterriti a bere e a disturbare. Me ne vergogno. E non è solo vergüenza ajena. Mi vergogno proprio di essere italiano e napoletano come loro. Anche Stefania esprime la stessa vergogna e lo stesso disagio. Quando arrivo a destinazione mi scuso con l’autista in loro vece. Lui si mostra comprensivo e rassegnato. Sono anni che accompagna questi flussi scostumati di ormoni a Tossa e a Lloret de Mar. Per fortuna, vanno tutti negli stessi posti in cerca di droga, figa, cazzi e discoteche. Basta evitarli. Loro e i posti che frequentano. Spero che si divertano, comunque, senza fare troppi danni a se stessi e agli altri. Per fortuna, qui sono tutti abbastanza indulgenti con questa guagliunera. Come l’autista. Ma non so dire se sia più tolleranza o convenienza.
In ogni modo, dopo questo brutto avvio, i primi giorni di vacanza in Costa Brava scorrono sereni, allegri e senza incidenti. Il mare è bello, le passeggiate mostrano scorci incantevoli, la ricezione alberghiera è impeccabile e gentile.
Blanes
Alla partenza, non ho messo nessun libro in valigia. Ho deciso di comprare qui qualche romanzo da leggere in spiaggia, sul balcone o al rientro a casa.
“Blanes se parece a sus playas, en donde se tuestan cada verano todos los valientes de Europa, los de aquí y los del otro lado de los Pirineos, las gordas y los gordos, los feos, los esqueléticos, las chicas más guapas de Barcelona, los niños de todo pelaje, las viejas y los viejos, los enfermos terminales y los resacosos, todos semidesnudos, todos expuestos al sol del Mediterráneo y a la mirada comprensiva de la torre de San Juan, y el olor que se desprende de las playas (es bueno recordarlo ahora, en el largo invierno) es el olor de las cremas corporales, de los bronceadores, de las pomadas de protección solar, que huelen a eso, evidentemente, pero que también huelen a democracia, a historia, a civilización.” Roberto Bolaño, “La Selva Marítima” in El El País, Gennaio 2000.
“Blanes somiglia alle sue spiagge, dove ogni estate si mettono all’arrosto tutti gli arditi d’Europa, quelli di qui e quelli dell’altro lato dei Pirenei, le chiattone e i chiattoni, i brutti, gli scheletrici, le ragazze più belle di Barcellona, i bambini di ogni provenienza e aspetto, le vecchie e i vecchi, i malati terminali e gli sbronzi, tutti seminudi, tutti esposti al sole del Mediterraneo e allo sguardo comprensivo della torre di San Juan, e l’odore che sprigiona dalle spiagge (è bene ricordarlo ora, nel pieno dell’inverno) è l’odore delle creme corporee, degli abbronzanti, delle pomate di protezione solare, che odorano di quello che sono, evidentemente, ma che sanno anche di democrazia, di storia, di civiltà.”
La traduzione è mia. Il testo di Roberto Bolaño. Stamattina sono stato alla libreria Sant Jordi. La libreria che lo scrittore sudamericano frequentò negli ultimi anni della sua vita. Dal 1985 al 2003, Bolaño si stabilì qui a Blanes con la moglie e i due figli. Prima che gli arrivasse il successo che meritava aprì anche un negozietto di bigiotteria.
In sottofondo due frammenti di “Blind” dei Talking Heads (1988)
In una guida che gli ha dedicato l’ufficio turistico cittadino leggo che voleva essere ricordato “come uno scrittore surdamericano più o meno decente, che visse a Blanes, e che amò questo paesino” di 30.000 abitanti fondato dai romani duemila anni fa e poi frequentato da persone di ogni tipo e colore.
Blanes, vista dal Jardín Botánico MarimurtraApparizioni a Blanes
Nella libreria c’è ancora Pilar Pagespetit i Martori, con cui lui si intratteneva a parlare mentre vagava tra i libri. O almeno, dalla veneranda età che dimostra nel suo fisico minuto e curato, a me piace immaginare che sia lei. Le chiedo se hanno disponibile qualche testo di Ernesto Cardenal, poi mi metto a curiosare tra i libri ammucchiati in colonne in ogni angolo della stanza. Per un momento credo di aver osato identificarmi con R.B. Dopo una lunga ricerca scelgo un testo di recente pubblicazione di Lucía Lijtmaer, scrittrice quarantenne nata in Argentina e cresciuta a Barcellona. Avevo sentito parlare del suo acume sia come romanziera che come critica letteraria e specialista di studi culturali.
Nelle prime pagine la voce narrante immagina un suicidio e vagheggia un’inondazione di Barcellona provocata dal cambio climatico e dallo scioglimento dei ghiacciai polari. È una descrizione potente e delirante.
A un certo punto mi rivedo in queste parole che mi riportano sul bus dell’arrivo a Blanes.
” […] primero morirán los pobres, los taxistas paquistanís del Raval, las chicas filipinas de la panadería de la calle Sant Vicenç, la señora Quimeta y su mercería, los guiris de la Barceloneta, todos, absolutamente todos, los holandeses, los franceses, los ingleses y los italianos -nadie echará de menos a los italianos-.” Lucía Lijtmaer, “Cauterio“, 2022
Traduco, non senza essere di nuovo assalito dalle fiamme della vergogna.
” […] prima moriranno i poveri, i tassisti pachistani del Raval, le ragazze filippine della panetteria di calle Sant Vicenç, la signora Quimeta la sua merceria, i turisti della spiaggia di Barceloneta, tutti, assolutamente tutti, gli olandesi, i francesi, gli inglesi e gli italiani – nessuno sentirà la mancanza degli italiani.”