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((( aitanblog )))

~ Leggendo ci si allontana dal mondo per comprenderlo meglio.

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esodi, espatri e colonizzazioni

23 giovedì Lug 2015

Posted by aitanblog in da lontano, vita civile

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da lontano, vita civile

Si va dove si crede di poter migliorare la propria vita. Come i meridionali che andavano a Torino. Come i laureati italiani che vanno a Londra o a Berlino. Come gli ebrei del vecchio testamento con il loro lungo tragitto che li vedeva dentro e fuori da Israele e dall’Egitto. Come i colonizzatori europei in Africa, in America e ovunque li portasse la loro voracità economica. Altro che chiacchiere, altro che polemica.

amara terra mio e amaro mare

16 giovedì Apr 2015

Posted by aitanblog in versiculos, vita civile

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da lontano, versiculos

ogni giorno un numero maggiore di cadaveri galleggiano nel mare

e poi vanno a fondo quando le cavità si riempiono d’acqua
e l’aria e i gas fuoriescono dai corpi in decomposizione

–

ogni giorno un numero maggiore di cadaveri galleggiano nel mare

in cui avremmo tutti voglia di sciabordare e dimenticare

perché se ti fermi a pensare ti muore dentro la voglia di remare o rimare
con rime facili e scarpe marinare

Tra Storia e Memoria (tutta roba presa da Wikipedia)

27 martedì Gen 2015

Posted by aitanblog in da lontano, idiomatica, vita civile

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da lontano, idiomatica

«Dicebat Bernardus Carnotensis nos esse quasi nanos gigantium humeris insidentes, ut possimus plura eis et remotiora videre, non utique proprii visus acumine, aut eminentia corporis, sed quia in altum subvehimur et extollimur magnitudine gigantea» (Giovanni di Salisbury, XII secolo)

ovvero

«Diceva Bernardo di Chartres che noi siamo come nani sulle spalle di giganti, così che possiamo vedere più cose di loro e più lontane, non certo per l’acume della vista o l’altezza del nostro corpo, ma perché siamo sollevati e portati in alto dalla statura dei giganti.»

___

“If I have seen further it is by standing on ye sholders of Giants.”
Isaac Newton, Letter to Robert Hooke (15 Febbraio 1676)

Varianti modernizzate:
“If I have seen further it is by standing on the shoulders of giants.”
o
“If I have seen further it is only by standing on the shoulders of giants.”

Ma, insomma, ci siamo capiti…

___

E lo so che Aldous Huxley aggiunge che “That men do not learn very much from the lessons of history is the most important of all the lessons that history has to teach.”, sì… il fatto che gli uomini non imparino molto dalla storia è la lezione più importante che la storia ci insegna, ma oggi è il giorno della memoria, no?

Quando eu morrer

23 mercoledì Apr 2014

Posted by aitanblog in da lontano, idiomatica, musiche, recensioni

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da lontano, idiomatica, musiche, recensioni

Tutto questo parlare negli ultimi tempi di impianti crematori, di ceneri, di polveri e di testamenti, mi ha fatto venire in mente questi versi:

Quando eu morrer
não me dêem rosas
mas ventos.

Quero as ânsias do mar
quero beber a espuma branca
duma onda a quebrar
e vogar.

Ah, a rosa dos ventos
a correrem na ponta dos meus dedo
a correrem, a correrem sem parar.
Onda sobre onda infinita como o mar
como o mar inquieto
num jeito
de nunca mais parar.

Por isso eu quero o mar.
Morrer, ficar quieto,
não.
Oh, sentir sempre no peito
o tumulto do mundo
da vida e de mim.

E eu e o mundo.
E a vida. Oh mar,
o meu coração
fica para ti.
Para ter a ilusão
de nunca mais parar.

“Quando eu morrer” è una poesia testamento del poeta angolano Alexandre Dáskalos, nato a Huambo nel 1924.
Pare che Dáskalos l’abbia scritta nel 1961, poco prima di morire in un ospedale di Guarda, nella regione montagnosa di Beira Alta, a nordest del Portogallo.
Nel 1988 il popolare cantautore portoghese Fausto l’ha messa in musica.
Come quella di Dáskalos, la vita di Fausto (al secolo Carlos Fausto Bordalo Gomes Dias) si è svolta tra l’Africa e l’Europa. Pensate che il cantautore è nato nel 1948 in una nave che dal Portogallo andava proprio in Angola, dove ha trascorso la sua infanzia; ma la famiglia di sua madre veniva dallo stesso distretto di Guarda in cui è morto Dáskalos e lui stesso risulta registrato all’anagrafe di una cittadina di quella zona (precisamente, a Vila Franca das Naves).

Come mi è capitato anche con l’Antologia di Spoon River e con Il Giovane Holden,* ho conosciuto prima la versione cantata e poi l’opera che l’ha ispirata. Era la fine degli anni ’80 o l’inizio del ’90, non ricordo bene, e mi trovavo a Lisbona in un periodo in cui i Madredeus non erano ancora popolari in tutta Europa e Wim Wenders non aveva messo mano a Lisbon Story. Essere in Portogallo era ancora essere altrove e Lisbona non era stata assalita da decine di centri commerciali, catene di fast food e multisale.
Saltando rapsodicamente da un disco all’altro, scoprivo in piccoli negozietti del Bairro Alto il meraviglioso mondo canoro di Pedro Ayres Magalhães, Rodrigo Leão e Teresa Salgueiro (“O pastor” mi lasciava senza fiato), di José Afonso (il padre dei cantautori portoghesi, anche lui in bilico tra l’Africa e il Portogallo), di Vitorino e di Né Ladeiras, di Sérgio Godinho e, appunto, di Fausto Bordalo Dias.
Con “Quando eu morrer” fu amore a prima vista. Mi accorsi che mi stavo commuovendo prima ancora di riuscire ad afferrare tutte le parole e comprai di corsa l’album “A preto e branco” (A nero e bianco) che si chiude proprio con questa poesia-canzone.

Il portoghese non l’ho mai studiato organicamente; l’ho imparato per strada in quegli anni e nel corso di altri viaggi. È da molto che non lo pratico. Ma voglio offrirvi una mia traduzione molto libera di questi versi. L’ho fatta in fretta, senza consultare vocabolari o dedicare il giusto tempo a cercare di riprodurre il ritmo e le suggestioni dell’originale. Se passa di qui qualche lusofono che capisce l’italiano, emendi pure senza ritegno le cose che devono essere emendate.

Quando morirò
non datemi rose,
ma vènti.

Voglio l’inquietudine del mare,
voglio bere la schiuma bianca
di un’onda fragorosa
e galleggiare.

La rosa dei venti
scorra sulla punta delle mie dita,
scorra,
scorra senza fermarsi.
Onda su onda infinita
come il mare,
come il mare inquieto
nell’animo che
non vuole mai avere freni.

Io voglio solo il mare.
Non morire né restare quieto.
Sentire sempre nel petto
il tumulto del mondo
della vita e di me stesso.

Io e il mondo
e la vita,
Mare,
il mio cuore
resta tuo
per avere l’illusione
di non fermarsi mai.


* Cfr. Fabrizio De André, “Non al denaro non all’amore né al cielo” (1971) e la canzone di Francesco Guccini “La Collina” tratta da “L’isola non trovata” (1970), la cui title track era a sua volta ispirata a Gozzano.

Schegge di paradiso terrestre prima del rientro nell’inferno quotidiano.

01 domenica Set 2013

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da lontano, immagini

paradise

Los Calamento interpretan una bulería

01 lunedì Ago 2011

Posted by aitanblog in da lontano, musiche, recensioni

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da lontano, musiche, recensioni

28 de Julio 2011 – Los Calamento interpretan una bulería en el HJC

Il giorno che ballammo sui tavoli dell’Harlem Jazz Club di Barcellona.

((( Vedere per credere! )))

Estate a Madrid tra lo Yemen e l’Italia

22 venerdì Lug 2011

Posted by aitanblog in da lontano, immagini, musiche, recensioni, vita civile

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da lontano, immagini, musiche, recensioni, vita civile

(breve recensione di un concerto di Antonello Salis e Furio di Castri)
Madrid ha sempre qualcosa di nuovo da regalare, un trucco che ti ammalia, una nuova carta per sorprendere anche uno che, come me, sono vent’anni che ci ritorna un’estate sì e tre no.
Un paio di giorni fa mi sono lasciato catturare da un suggestivo concerto blues-funky-world ebreo-yemenita nella cornice magica del tempio egizio di Debod, ieri è stata la volta di un meraviglioso duo sabaudo-sardo che suonava jazz e affini in un bel vicoletto del Paseo del Prado.
Quando ho letto sulla Guía del Ocio che c’era quel magnifico pazzoide di Antonello Salis con Furio di Castri nello spazio antistante il Caixa Forum, ho fatto carte false per convincere mia moglie a cambiare i nostri programmi (che, a dire il vero, cambiano così spesso che sembrano scritti da un primo ministro italiano), e ben ce ne ha incolto. Il concerto, ispirato a brani d’opera legati (a nodi larghi) dal filo rosso del vino, ha affascinato anche lei (che normalmente preferisce il reggaeton e la musica latina).
Lo spettacolo è cominciato con un brano scoppiettante in cui i due compari italiani hanno subito messo in mostra le loro trascinanti doti di invenzione e dominio strumentale. Salis saltellava sui tasti del pianoforte come un forsennato, esibendo i suoni che possono uscire da un coda “preparato” quando sulle corde si appoggiano pentole, monete e buste di plastica (che suonava anche da sole, davanti al microfono, stropicciandole in funzione percussiva): così, sembrava a volte di ascoltare un clavicembalo, altre di sentire una kalimba, una tastiera elettronica o delle percussioni orchestrali. Furio di Castri gli faceva da contrappunto e sostegno, raddoppiando sul contrabbasso le note che uscivano dalla mano sinistra del compagno oppure offrendo un tipico accompagnamento jazzistico in stile walking bass. Bellissimo l’interplay, anche fisico, tra l’agitazione da folletto indemoniato del pianista e la rilassatezza apollinea del contrabbassista, che in un momento dello spettacolo si è avvicinato con aplomb torinese al coda e si è messo ad ascoltare ammirato l’assolo del sodale.
Il secondo brano era una suite che partiva da un’aria tratta dal Così fan tutte di Mozart e arrivava a un brano originale di Furio di Castri via Puccini Giacomo. E qui Salis ha messo in bella mostra anche le sue doti di fisarmonicista, mentre il suo compagno di bevute creava dei loop, registrando un paio di note sovracute del suo contrabbasso e suonandoci sopra.
A seguire, altre arie ebbre e inebrianti ispirate a Rossini, a Verdi, a Doninzetti e di nuovo a Puccini (a un certo punto, si è sentita una bella citazione di E lucean le stelle in una versione tenebrosa in cui Salis suonava il piano dopo aver messo sulle corde delle pentole, mentre di Castri alternava il pizzicato all’archetto. Erano due, ma sembravano otto o venti.)
Io mi sono divertito ed esaltato con questo Vino all’Opera e perfino inorgoglito in quanto italiano (cosa che, purtroppo, capita sempre più di rado).
A proposito, ma che dite, al mio rientro a fine mese, don B e  la sua cricca saranno finalmente andati via e liberemo nei lieti calici oppure li troveremo ancora lì, con un bastone infilato nel culo per tenerli in piedi e fingere che tutto vada bene e il governo non cade, non cade ancora, malgrado le tempeste internazionali e i perfidi attacchi anarco-insurrezionalisti di giudici, giornali, giovanotti giocherelloni e giureconsulti giudeo-massonici?


Altre note (aggiornamento del 24 luglio)Ieri Puerta del Sol era gremita di giovani e meno giovani indignati, una cosa da far accapponare la pelle, e io me la sono accapponata; però poi mi ha assalito il dubbio che molti erano lì per presenzialismo, per dire io c’ero, e me ne sono andato a Plaza del Carmen, dove mi sono messo a ballare per strada insieme con mia moglie, tre ragazze madrilene e un andaluso che avevano improvvisato una discoteca callejera, pompando a palla reggaeton dall’autoradio della loro utilitaria.

Alla ricerca del senso perduto

23 sabato Apr 2011

Posted by aitanblog in da lontano, texticulos

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da lontano, texticulos

Errare come i cavalieri erranti in cerca dell’arca. 
Sperimentare. Provare nuove esperienze. 
Interessarsi al processo più che alla meta. 
Navigare senza rotta sulle tracce di Serendip.
Quando mi affacciai la sesta volta vidi che c’era il mare. Decisi allora che sarei partito per l’Occidente. Cercavo il senso della vita. L’avevo già chiesto a Orbasawa e a Lao Tse, ma non capivo il loro dialetto; forse ero troppo vecchio per capire, quella volta che vidi il mare.
Sul sentiero del porto, rubai due stampelle ad un mercante zoppo. Imparai allora che a quattro gambe si cammina lento. Feci una croce con le due vecchie grucce e le piantai in cima ad un monte.
Il terzo giorno mi gettai nell’acqua tra il dondolio delle onde. E mi lasciai cullare.
Quando raccolsero il mio corpo, sorrisi felice; ma sul vascello mi spogliarono di tutto. Capii che non conviene fidarsi dei pirati bretoni. Eppure, senza di loro, non avrei mai visto l’Europa.
Venezia era molto bella, ma avevo paura a calpestare quelle strade lastricate d’oro e d’avorio. I gioielli richiedono troppa attenzione. Da Oriente a Occidente cominciavo a intuire che senza si è più liberi, si cammina meglio.
Decisi di riprendere da lì le mie indagini.
In una calle sielnziosa ed oscura, chiesi ad un folle il senso della vita. Mi fece segno di entrare, ma non capivo le sue parole. Più tardi mi disse che era muto. Quando cercai di uscire era già troppo tardi. Restai rinchiuso novantaquattro anni tra le mura di quel sanatorio caliginoso e umido.
Dal momento che non erano in grado di capire il mio accento, conclusero che non potevo essere sano.
Studiarono il mio caso fino alla notte d’agosto in cui scappai a Praga.
Risoluto ad integrarmi con loro, mi arruolai a caccia di non so che; ma sui roghi bruciarono in tante, e tante bellissime. Quando il tanfo dei cadaveri cominciò a pervadere ogni angolo del paese, sentii che era il momento di lasciare quella terra.
Le mie ricerche continuarono nei campi di Francia.
Nella legione straniera passai da un massacro all’altro, bevendo bordeaux per dimenticare. Ma nemmeno in quei bicchieri si leggeva il senso della vita.
Disertai all’ombra del Partenone il giorno in cui Sibilla la zingara mi parlò dell’Egitto.
La Sfinge era più muta del pazzo di Venezia e dei saggi d’Oriente.
Chiesi a una piramide perché non parlasse. Poi inciampai in un decalogo e mi svegliai in un giardino spagnolo. Si parlava di Aristotele e Platone. Ma avevano entrambi ragione, e io non capivo il senso di tanto dibattere, combattere e dialogare.
Ricordo che uno di questi secoli, chiesi asilo politico ad un prete di Roma.
Nella pace del chiostro di un monastero lessi di Cusano, Espinoza ed altri eroici furori. Qualcuno mi convinse che il senso era scritto da qualche parte, giù al Nord, inciso nella roccia in caratteri gotici e consonanti gutturali.
Volai in Germania alle 12 e 40.
Appena toccai terra, mi si avventarono addosso invocando la morte del giudeo, e mentre imprecavano altre incomprensibili parole, digrignavano i denti come cani rabbiosi. Tornai in Ispagna, ma le cose non volsero al meglio. Ormai ero marchiato a fuoco come le vacche che ogni notte si vedono nere. Per salvare la pelle mi aggregai alla ciurma dell’ammiraglio Cristóbal, quando stava già per tramontare il secolo decimoquinto dall’abbandono delle grucce sul monte.
Avevamo scoperto l’America. Ma i miei compagni erano ansiosi di ritrovarsi più in là.
Tutta quell’ampiezza sterminata mi rapiva, ma dopo che arrivarono i teutonici e tornarono i bretoni, trovai mattoni su mattoni piantati davanti alla vastità del mio sguardo. Triste e stanco, mi inerpicai fino all’ultimo piano dell’Empire State Building ansioso di vedere cosa ci fosse oltre le nuvole. Ma il cielo era molto più su.
Nell’ultima stanza avevano appeso una collezione di foto dell’Himalaya. Solo dall’alto si poteva inquadrare l’Everest in tutta la sua grandezza.
Fui felice di essere stato spogliato di tutto e di non avere più oro né stampelle.
Decisi che non avrei più cercato il senso della vita.
Feci un viaggio in Oriente.
©©1986-2011

A un amico straniero

28 venerdì Gen 2011

Posted by aitanblog in da lontano, invettive, vita civile

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da lontano, invettive, vita civile

A un amico straniero che non riesce a capacitarsi e agli italioti che non si capaciteranno

Per capire il caso B ci vorrebbero, tutti insieme e contemporaneamente,

  • Marx e Balzac, che ci ricordano che dietro ogni patrimonio c’è un delitto
  • Pirandello e la sua inafferrabilità della verità
  • le pulsioni sessuali di Freud e la volontà di potenza di Adler
  • Einstein e la teoria della relatività
  • il gattopardismo di Tomasi di Lampedusa
  • la televisione oppio dei popoli e le ricerche sul lavaggio del cervello di Edward Hunter
  • i Don Rodrigo e i don Abbondio manzoniani
  • l’espressione geografica di Klemens von Metternich
  • il familismo amorale di Banfield
  • il particulare di Guicciardini e i Fini machiavellici che giustificano sempre i mezzi
  • i quaquaraquà di Sciascia
  • e i tarallucci e vino di Pulcinella.

Ma tutto questo non sarebbe sufficiente, se non si sapesse che l’Italia è popolata da servili italioti proni al padrone e illusi di poter essere anche loro, un giorno, padroni di qualcosa o di qualcuno. E poi non va dimenticato che codesti italioti sono i genitori, i cugini e i figli dei Caligola, dei Borgia, dei Mussolini, degli Andreotti e dei Don B di turno, e morto un dittatore ne faranno sempre un altro, finché non saranno soppressi o cambieranno loro; dio sa come.

(Ma magari arriverà dal Maghreb o da qualche altro punto del Nord Africa un’ondata di protesta o un’orda invasiva che spazzerà via questo coacervo di crimini, soprusi e vizi che stanno imputridendo il paese in cui vivo.)


Trattandosi di questione complessa e intricata, ci saranno sicuramente altri cardini del pensiero e della storia che non ho tenuto presente e che sarebbe il caso di suggerire allo straniero che si rompesse la testa senza riuscire a capacitarsi di come tutto questo possa accadere in un paese dell’Europa Occidentale Democratica Cattolica e Cristiana.
Invito, pertanto, i dieci lettori di questa pagina a offrire altri elementi di valutazione e magari, perfino, altre vie di soluzione al caso B.
Mostriamo a noi stessi al mondo che, se non riusciamo a risolvere dall’interno i nostri problemi, siamo almeno capaci di analizzarli e capirli.


Gabbiani Procidani

23 venerdì Lug 2010

Posted by aitanblog in da lontano, idiomatica, immagini, versiculos

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da lontano, idiomatica, immagini, versiculos

I
(apologo napoletano)

‘E gabbiane song’ ‘e femmene ‘mmiezz’e vie ‘e Milano,*
Pe dereta ‘e vide e t’arrecrije pensanno ‘o pilo
Po’ volano vascio, ‘e guarde mmiezz’e cosce
e capisce…
e capisce…
…
e ca’ pisce

II
(hispánico haiku)

Y las gaviotas

y las gaviotas
no son otra cosa que
cerdas aladas

III
(sintesi impoetica in lingua italiana)

I gabbiani sono le donne per le vie di Milano,
da dietro le vedi e ti fanno esultare di gioia,
poi volano basso, le guardi tra le cosce
e capisci.

Sono solo
Scrofe con le ali
I gabbiani.

 


* La versione originale dice che i gabbiani song’  ‘e femmene ‘ncoppa ‘o Rettifilo (come si ascolta anche nel video girato a caldo su una spiaggia di Procida), poi, però, qualche giorno dopo, mi capitò di trovarmi tra le vie della capitale della moda italiana e non potetti fare a meno di notare che tra le milanesi questo fenomeno del quadro ‘e luntananza (cioè di chi – uomo o donna – visto da lontano e di spalle sembri molto migliore di quanto appaia a uno sguardo ravvicinato) era ancor più diffuso che dalle mie parti.

Ciò detto, in onore a un’impressione e ad una delusione ripetuta, ma senza alcun intento di offesa né alle milanesi, né alle napoletane né alle donne di ogni longitudine e latitudine che sono quanto meno belle dentro (come usava dire quel mio amico che le ammazzava in serie per ammirarne visceri e metri di intestino accuratamente avvoltolati).


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