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Cercando pace in Egitto

16 giovedì Dic 2021

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avvento, egitto, immigrazione, profughi

Sei anni fa mi inventai una specie di “calendario dell’avvento controtempo” realizzato mettendo insieme, giorno per giorno, una trentina di rappresentazioni della Fuga in Egitto della sacra famiglia di profughi di Nazareth.
Un calendario che si muove in direzione ostinata da Oriente a Occidente e arriva al giorno della nascita di Gesù, rappresentando una collezione di immagini della fuga della sacra famiglia dalla furia infanticida di Erode (a Cristo già nato, dunque).

https://aitanblog.wordpress.com/2015/12/01/cercando-un-altro-egitto/

Nella XVI puntata della serie c’erano cinque capolavori dei Tiepolo padre e figlio che ripropongo ora, qui, alla vostra attenzione.
Sono due dipinti e un disegno di Giovanni Battista (1696–1770), il padre, e due acqueforti del figlio Giandomenico (1727–1804).

I due artisti veneti hanno dedicato molto ingegno (in tele, disegni e incisioni) al tema della fuga in Egitto.
Spesso nelle loro rappresentazioni ricorre il barcone con tanto di asino a bordo ed angelo scafista (e volesse il cielo che fossero pervasi da tanta cura e da tanta protettiva bontà anche gli scafisti del XXI secolo che imperversano nell’Egeo e nel Mediterraneo); Giuseppe, dal canto suo, è sempre rappresentato come un vecchio dalla folta barba bianca (un alter ego dell’immagine archetipica di Dio e di Mosè che abbiamo assimilato da tanta iconografia artistica e cinematografica).

Tra quelle qui rappresentate (e tra tante altre che ho vagliato dei due Tiepolo), l’opera che preferisco è il disegno di papà Giovanni Battista (il secondo riquadro qui in alto), ma trovo che anche le opere del figlio – che spesso riproducevano con la tecnica dell’acquaforte opere e soggetti paterni – abbiano una loro dignità e forza.

È probabile che queste ultime due tavole, precedano di qualche anno le ventiquattro incisioni dell’album delle “idee Pittoriche sopra la fuga in Egitto di Gesù, Maria e Giuseppe…” che nel 1753 Giandomenico dedicò, a Würzburg (in Baviera), a Karl Philipp von Greiffenklau, principe vescovo del Sacro Romano Impero. Andatevi a cercare anche queste incisioni bavaresi: sono un’efficace illustrazione della fuga e la seguono passo passo come una “graphic novel” senza parole.



Poi, magari, attualizzate la visione con qualche foto delle famiglie di profughi e rifugiati in cerca di miglior vita nei nostri tempi.
Il mondo ne è pieno. Ed anche la rete che ne rappresenta uno specchio, per quanto deformato.

Il parallelo è fin troppo facile e ha la forza della sofferenza e della verità.
Le ultime due foto di profughi del collage sono dell’agenzia AFP©, delle altre ignoro la fonte. Mi scuso preventivamente con chi ne abbia la proprietà. I quadri rappresentati sono invece, nell’ordine, di Vittore Carpaccio (1465-1520), José Ferraz de Almeida Júnior (1850-1899), Jean-François Millet (1814-1875), William Blamire Young (1862-1935) e Noël Hallé (1711-1781). Una piccola selezione composta un po’ alla buona e piuttosto in fretta. Ma credo che l’insieme ci restituisca il senso dell’eterna fuga di profughi di diversi spazi e tempi verso una realtà meno dura e più proiettata verso un futuro migliore per sé e per i propri figli.

[…] nessuno affida i propri bambini ad una barca / a meno che l’acqua non sia più sicura della terra.
chi sceglierebbe di passare giorni / e notti nel ventre di un camion / a meno che il tragitto percorso / significhi più di un viaggio.
nessuno sceglierebbe di strisciare sotto recinti / essere picchiata fin quando la tua ombra non ti abbandona, / violentata, annegata, costretta al fondo / della barca per il colore della pelle, esser venduta, / ridotta alla fame, venir sparata alla frontiera come un animale ferito, / essere compatita, perdere il proprio nome, perdere la propria famiglia, / chiamare casa un campo profughi per un anno, o due, o dieci, / spogliata e perquisita, in prigione ovunque / e se sopravvivi venire accolta dall’altra parte / con andatevene a casa neri, rifugiati / sporchi immigrati, richiedenti asilo / parassiti / scuri, con le mani pendule / odorano strano, di selvaggio – / guarda cosa hanno fatto dei loro Paesi, / cosa faranno al nostro?
il disprezzo negli sguardi per strada / più lieve rispetto ad un arto strappato, / l’umiliazione quotidiana / più dolce di quattordici uomini che / assomigliano a tuo padre, tra / le tue gambe, gli insulti più facili da inghiottire / che le macerie, che il corpo del tuo bambino / a pezzi – per ora, dimentica l’orgoglio / sopravvivere è più importante.
voglio andare a casa, ma casa è la bocca di uno squalo / casa è una canna di pistola / e nessuno lascerebbe casa / a meno che non sia la casa a cacciarti a riva / a meno che la casa stessa ti dica / di lasciare dietro di te ciò che non puoi, / anche fosse umano.
nessuno lascia casa finché casa / non diventa una voce angosciosa all’orecchio che dice / parti, scappa da me adesso, non so cosa / sono diventata.


Questo è il brano finale della poesia di Warsan Shire intitolata “Home”, nella traduzione che Tina Magazzini e Giovanni Gugg hanno fatto per WOTS Magazine qualche anno fa.
Warsan Shire è una poetessa somala nata in Kenya nel 1988 ed emigrata a Londra quando aveva solo un anno.
Nel 2016, la cantante Beyoncé ha utilizzato alcune sue poesie nel film che accompagnava il concept album “Lemonade“, un’opera multimediale che si prefiggeva l’obiettivo di smuovere nelle donne afroamericane un sentimento di consapevolezza e auto-coscienza.
E così siamo partiti da Tiepolo e siamo approdati a Beyoncé passando per Erode, Vittore Carpaccio e Jean-François Millet.

Il bello di Internet.

Un Papà Noel palestino-olandese del XVII secolo

25 venerdì Dic 2015

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egitto, immagini, vita civile

Rembrandt, Fuga in Egitto e buon Natale

Ieri si è concluso il mio progetto dedicato alla “Fuga in Egitto” nell’arte e nella realtà dei profughi di ogni tempo e religione, ma gli auguri di Buon Natale di oggi ve li ho voluti fare sfruttando una delle tante immagini che mi sono avanzate.

È un’acquaforte del grande Rembrandt (1606-1669) con un bizzarro Giuseppe che trascina il classico ciuchino con un abbigliamento che sembra quello di un Babbo Natale ante litteram.

A questa immagine involontariamente natalizia affido i miei migliori auguri di giustizia, bellezza e pace in terra; e rivolgo questi auguri a tutte le donne e a tutti gli uomini di buona volontà e buone azioni. Agli altri non dico niente.


P.s. Visto che siamo nel pieno delle feste, vi mando un link a tutto il mio piccolo progetto dedicato alla “Fuga in Egitto” di cui parlavo all’inizio di questo post. Prendetevi un momento di pausa e lasciate che un po’ di arte vi accarezzi gli occhi e la mente.
Se siete anche religiosi, c’è di che inginocchiarsi e meditare; se non lo siete, potete meditare anche in piedi.

https://aitan.tumblr.com/tagged/egipto

X-Vittore-Carpaccio-XVI sec

Vittore Carpaccio, XVI secolo


Per concludere, in appendice all’appendice, un piccolo albero di parole:

*

Cola

Coca&

made in

o a un babbo rosso

davanti a un presepe

con gli occhi pieni di gioia

Ma è sempre bello vedere un bambino

Questi son giorni di abeti, diabeti e che palle.



Fuga in Egitto via Inghilterra ed Australia (per non parlar del cane)

14 lunedì Dic 2015

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egitto

1924, Blamire Young flight to Egypt Blamire Young, Flight into Egypt (1924)

La quattordicesima puntata della serie Cercando pace in Egitto (Quasi un calendario dell’Avvento) è una curiosa chicca degli anni ’20 del ‘900.

L’autore è William Blamire Young (1862-1935), delizioso artista australiano che è un’altra delle scoperte che devo a queste mie ricerche tra le decine e decine di rappresentazioni della Fuga in Egitto dei profughi palestinesi Giuseppe, Maria e Gesù bambino che ho spulciato in questi giorni.

Figlio di un ricco colonnello, Blamire Young seguì studi classici a Cambridge, si laureò in matematica e si dedicò all’insegnamento, prima di consacrare la sua vita all’arte, sia come pittore che come studioso e critico (tra l’altro ha scritto un saggio dedicato ai Disparates di Goya).
Lo studioso australiano J. F. Bruce lo descrive come un bell’omino virile che univa modi eleganti con uno spirito bohémien, una figura pittoresca e paradossale, come molti suoi quadri (aggiungo io), che erano per lo più dipinti con la tecnica dell’acquerello (“6’ 3” high, aesthetic, virile, uniting the Cambridge manner with the Bohemian Spirit, a picturesque and paradoxical personality“).

Qui di seguito vi mostro un’altra sua opera di tema egiziano (Rameses II buries his Queen, 1913-34) e un delizioso acquerello che materializza una meravigliosa bagnante avvolta in un’atmosfera rarefatta e liquida (The Bather 1920 ca.).

Blamire Young, RAMESES II BURIES HIS QUEEN (1913-34) Blamire Young, Rameses II buries his Queen (1913-34)

Blamire Young, The Bather, 1929 ca. Blamire Young, The Bather, (1929 ca.)

Ma torniamo a questa curiosa opera che situa la fuga evangelica in un paesaggio vagamente britannico con tanto di pecore e vecchio signorotto con cane sullo sfondo.
La vergine dai capelli rossi è abbigliata come una zingara, qualcosa tipo una profuga rumena, mentre Giuseppe è il tipico gentleman inglese di epoca vittoriana con tanto di tuba, pastrano e borsone di pelle di coccodrillo (un uomo in frack). Il bambino è nascosto tra i coloratissimi drappi della madre. L’unico elemento tradizionale cui siamo già abituati scorrendo l’iconografia della Fuga in Egitto sembra essere l’asino.
Giuseppe e il signorotto di campagna guardano lo spettatore (come còlti dall’apparizione improvvisa di un fotografo), la madonna, il cui volto è al centro della composizione, ha lo sguardo basso rivolto verso il suo grembo e sorride.

Il cielo blu elettrico, i corpi privi di ombre, il mulino celeste, i tetti viola, il bislacco abbigliamento di Giuseppe e Maria contribuiscono a conferire al quadro una atmosfera surreale e umoristica. Più che la fuga dall’Egitto sembrerebbe un sogno o un feuilleton in cui Giuseppe viene cacciato dalla famiglia vittoriana per aver sposato una zingara, che se la ride della famiglia di benpensanti del marito, tanto lei a vivere vagando tra i campi ci è già abituata.

Che distanza dalle ultime opere riportate in questa collezione di fughe: i profughi al vento di Noël Hallé, la sofferenza di Gustave Doré, il realismo dolente di José Ferraz de Almeida Júnior, la devozione e gli abbigliamenti da poveri popolani delle opere di Wolf Huber, Dürer e Murillo…

“Flight to Egypt” di un Afroamericano a Parigi

07 lunedì Dic 2015

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egitto

1899-1923-huida-a-egipto-henry-ossawa-tanner-

Per la settima puntata della serie Cercando pace in Egitto (Quasi un calendario dell’Avvento) ho messo insieme – un po’ alla cazzo di cane (absit inuria verbis (riferito a eventuali cani in ascolto o in lettura)) – ben 5 dipinti di Henry Ossawa Tanner, un pittore che ha operato tra l’America, l’Europa e l’Africa a cavallo tra il XIX e il XX secolo e che io, prima di mettermi a inseguire la fuga di Maria, Giuseppe e il bambeniello, non conoscevo affatto (sebbene, dopo aver approfondito le ricerche, mi sia reso conto che avevo già visto e ammirato in non so più quale libro di musica afroamericana il suo “The Banjo Lesson“).

In fondo (e anche in superficie), questi esercizi intellettualoidi che pretendono di costruire cataloghi su argomenti dati, servono anche a questo, a scoprire nel mare magnum della creatività universale piccoli capolavori o curiosità artistiche di cui si ignorava del tutto o parzialmente l’esistenza.
E Henry Ossawa Tanner, se non proprio un produttore di capolavori assoluti, è, quanto meno, un straordinario esponente della storia dell’arte americana e internazionale che vale la pena conoscere un po’ anche in Italia (dato che presumo e desumo che qui da noi se ne sappia davvero poco).

Le sue biografie lo indicano come il primo pittore afroamericano a conquistare un posto di rilievo nella storia dell’arte degli Stati Uniti e ad avere una certa risonanza anche in Europa (almeno nell’epoca della Belle Époque).
Il padre, pastore dell’African Methodist Episcopal Church e attivista politico, pare avversasse la sua propensione per l’arte, ma, a 13 anni, Henry Ossawa decise ugualmente di intraprendere la carriera di pittore e, intorno ai 30 anni, decise di trasferirsi a Parigi (il fascino indiscreto della bohème). Da qui fece viaggi in Medio Oriente e in Nord Africa che dovettero accentuare una sua certa propensione all’orientalismo a la Delacroix, che sembra risaltare anche in queste 5 opere 5 (e non escludo che possano esserci anche altre fughe egiziane che sono sfuggite alla mia piccola ricerca).

Le cinque rappresentazioni della Fuga della Sacra Famiglia sono state realizzate in un arco di tempo che supera i venti anni, tra il 1899 e il 1923 (colgo l’occasione per scusarmi se, avendole messe insieme alla cazzo di cane (c.s.), non ho rispettato un ordine cronologico e le ho trasformate in una sottospecie di vignette in sequenza; ma la verità è che, fin dal primo momento, le ho viste come dei frammenti di un fumetto d’arte, delle incantevoli pagine di una graphic novel mai scritta sul viaggio del povero cristo Gesù bambino e della sua famiglia per sfuggire dalle grinfie del vilain Erode e dei suoi sgherri a caccia di innocenti).
In ogni modo, quattro dei cinque dipinti sono dominati da un blu notturno che conferisce loro un fascino esotico e tutte e cinque sono pervasi da un’atmosfera che parla inequivocabilmente arabo (o almeno suona come suona l’arabo ai nostri orecchi occidentali che poco hanno digerito le lezioni di Edward Saïd o le pre-visioni di Juan Goytisolo – altro che Fallaci e Houellebecq; ma questa è indubbiamente un’altra storia).

I quadri che ho pubblicato finora in questa disordinata collezione inserivano i tre fuggitivi in ambientazioni rarefatte (Guido da Siena e l’Anonimo Bizantino) o in panorami che sembravano più europei che mediorentali o egiziani (l’anonimo veneto del XVI secolo, Vittore Carpaccio, Blasco de Grañén insieme con Martín de Soria e Giotto duplicato (non scriverò mai “Giotto al quadrato”, perché il quadrato di 1 è 1)); qui siamo sicuramente tra il Medio Oriente e l’Africa, fino al falso storico-geografico dell’ultimo dipinto in basso a destra, dove è il Palazzo di Giustizia di Tangeri a fare da sfondo ai tre profughi in cammino.


Detto questo, mi piace sottolineare che tutte queste meravigliose rappresentazioni della fuga evangelica in Egitto che sto raccogliendo in questi giorni sono più che altro un pretesto per riflettere e parlar d’altro, per parlare d’arte, di civiltà e, soprattutto, per ricordare che, mentre si avvicina il Natale, ci sono ancora migliaia di migranti, di profughi, di camminanti in fuga dalla propria terra natale, in cerca di un altro Egitto, di un’America o di una Parigi senza bombe e attentati.

Cercando pace in Egitto

01 martedì Dic 2015

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egitto

Da oggi, fino al 24 dicembre, posterò ogni giorno sulla mia “webteca” una rappresentazione della Fuga in Egitto. Episodio evangelico che fa di Maria, Giuseppe e Gesù tre profughi che scappano da una strage. Quella degli innocenti.

Fuga in Egitto, Guido da Siena, XIII secolo

Fuga in Egitto, Guido da Siena, XIII secolo

Sarà il mio personale calendario dell’avvento in controtempo, ma anche una piccola riflessione sulla fuga nell’arte e nella realtà dei migranti di ogni tempo e religione.

link al sito personale di Gaetano "Aitan" Vergara

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