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Il mestiere di insegnare

08 domenica Gen 2023

Posted by aitanblog in riflessioni, vita civile

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Tag

educazione, formazione, scuola

Un mucchio di opinioni sulla scuola, sulla formazione e sull’istruzione

Ensinar não é transferir conhecimento, mas criar as possibilidades para a sua própria produção ou a sua construção.

ovvero (traducendo ed ampliando molto liberamente il pensiero di Paulo Freire):

Insegnare non consiste nel travasare sapere, ma nel creare le possibilità per l’apprendimento e lo sviluppo di nozioni utili per sopravvivere ed orientarsi nella realtà e per la produzione o la costruzione di idee e di conoscenze che ci servono per cambiare il mondo e noi stessi.



Sulla scuola tutti abbiamo un’opinione. Bene o male un po’ di scuola l’abbiamo fatta tutti e tutti abbiamo congiunti, discendenti, madri, figli o figlie che la stanno facendo, da un lato o dall’altro della cattedra. E poi la scuola offre un servizio pubblico pure quando è privata e gli insegnanti, di riffa o di raffa, li paghiamo noi. E anche i bidelli, gli impiegati di segreteria, i funzionari, i ministri e gli ispettori…

Eccheccacchio, qua tutti abbiamo il diritto di dire la nostra, di esprimere critiche e affastellare punti di vista, idee e ricette risolutive.

La scuola è di tutti, mica del personale scolastico, dei presidi e dei legislatori!

La scuola è il volano della società; anzi, no, è un suo specchio; no no è un luogo di educazione e di rieducazione, un laboratorio di diffusione del sapere, una caserma ben organizzata, una palestra per la vita, uno spazio di competizione che ti prepara per la giungla che sta là fuori; no, no, non ci siamo proprio, la scuola è tutt’altro da quello che dici, è uno spazio di condivisione che ti abitua a convivere e a collaborare con gli altri; seee se, tutte stronzate: leggere, scrivere e far di conto, e poi patria, famiglia e religione, per preparare il cittadino di oggi e di domani, dare competenze per il mondo del lavoro; ad ognuno a seconda delle sue capacità, ad ognuno in merito al suo merito; la scuola deve abituare al cambiamento, deve sviluppare il senso critico, la scuola; educare, formare, inculcare i valori, questo ed altro deve fare la scuola.

Insomma, chi considera gli alunni come dei vasi vuoti, chi come un fuoco da accendere; chi la scuola la vuole ben cotta, chi al sangue e chi nuda e cruda. E poi ci sono quelli che vogliono la scuola statale e quelli che la vogliono cattolica e confessionale, quelli che la vogliono pubblica e quelli che la vogliono privata; privata di tutto.



Per quello che mi riguarda, come insegnante, non credo di dover riempire vasi né ritengo di dover indicare ai miei alunni cosa pensare; ma ho la velleità di dare alle nuove generazioni qualche strumento per scoprire, capire e cambiare qualcosa del mondo immenso che sta fuori e dentro ciascuno di noi.
Insegno loro che se davvero vogliono essere donne e uomini liberi, debbono continuare a liberarsi dalla loro ignoranza e cominciare a pensare in modo critico e autonomo. Li esorto a non diffondere il pensiero altrui senza prima rifletterlo in sé stessi e farlo loro. Mostro che la cultura è una chiave e un grimaldello, ma anche un’arma letale che, se non impariamo ad usare in modo proprio, può essere usata contro di noi da chi ci manipola e ci sfrutta col nostro placido consenso.
Cerco di convincerli a rispettarsi e rispettare se stessi e il mondo in cui conviviamo. Ripeto che chi è civilizzato riconosce la piena umanità degli altri e quindi li tratta nella stessa maniera e con la stessa attenzione che vorrebbe per sé.
Insisto sul fatto che abbiamo qualcosa da imparare da tutte le persone in cui ci capita di imbatterci (se guardiamo le cose in prospettiva, i peggiori maestri ci sono serviti da insegnamento quanto i migliori, dato che hanno costituito per noi dei modelli da evitare, degli esempi negativi che mostrano con tutta evidenza quello che non va fatto).
Cerco di non far confondere i mezzi e gli strumenti con i fini e con il senso della realtà. La vita è la vita e un telefonino è un telefonino. Dentro la vita ci può essere un telefonino, ma non si può identificare l’una con l’altra o l’altro con l’una.
Di tanto in tanto creo con i miei studenti anche dei conflitti, perché credo che lo scontro generazionale li aiuti a crescere e a diventare adulti e responsabili.
E poi cerco di sparire.
Un proverbio, credo sia un proverbio turco, dice che un “un buon insegnante è come una candela, si consuma per illuminare la strada per gli altri”. Un buon insegnante (e in fondo anche un padre buono e un buon padre) insegna come imparare, e quando gli alunni hanno davvero imparato a muoversi da soli, diventa inutile la sua guida e può rintanarsi in un angolo e sparire; si spegne come si spegne una candela che ha fatto già il suo tempo e svolto la sua funzione.
Mi illudo, infine, che da alunni autonomi e responsabili non possano venire fuori rigurgiti fascisti; sogno che nella vita cercheranno figure autorevoli, più che figure autoritarie. (Fin dai primi anni, li educo a non chiedermi il permesso neanche per andare in bagno. Spiego loro che se non si esce uno alla volta si crea il caos nei corridoi, cerco di convincerli che durante le spiegazioni non è il caso di allontanarsi dalla classe – a meno che non si abbia l’illusione di aver capito già tutto -, e poi li faccio uscire uno alla volta liberamente, senza chiedere niente a nessuno, senza interrompere il dialogo formativo e dopo essersi assicurati che non sia uscito qualcuno prima di loro).
E poi mi adopero affinché siano e si sentano meno soli in un’epoca di narcisismo, disperate solitudini e conformismo esasperante.



Roba difficile, in verità, il mestiere di insegnare. Ma quando si riesce, sono soddisfazioni impagabili (per quanto mal pagate, a dire il vero. Ma questa è un’altra storia che non voglio affrontare nemmanco in parentesi, per il momento).

Il potere buono (o, per lo meno, meno cattivo)

05 domenica Apr 2020

Posted by aitanblog in versiculos, vita civile

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Tag

educazione, formazione, politica


Schegge di paternalismo antiautoritario


Un buon padre
e un padre buono
insegna al figlio
a camminare,
ma non gli indica
la strada che deve fare.

Un vero maestro
e un maestro vero
mi aiutarono
a sapere e a fare
quello
che dovevo
sapere e fare.
Ed ogni cosa
fecero e facevano
perché sapessi
fare a meno di loro
e buttarmi
da solo nella mischia
ed avanzare.*

Un buon politico
ed un politico buono
(se mai ve me fosse uno)
non distribuisce pesci e pane**
ma canne da pesca
e strumenti per panificare.


* Dopo di allora,
se passai di nuovo
per le loro stanze,
fu solo per salutare
e restituire un po’
dell’affetto
che avevo
preso e reso
sotto altre forme
e in altri luoghi
in cui formarmi
e altrui formare.

** (Per quelli c’è già stato il Messia.)

***Piccole parentesi prenatalizie***

15 domenica Dic 2019

Posted by aitanblog in riflessioni, vita civile

≈ 4 commenti

Tag

formazione, scuola

(Il rito della pausa didattica nel sistema scolastico italiano)

Ogni anno, a ridosso delle festività natalizie, le scuole superiori si mettono in “stand by” per seguire il trito rituale della “settimana dello studente”, ed ogni anno la riproposizione dell’evento si trascina in modalità più vuote e stanche. Una storia che si ripete in farsa e che ogni anno io postillo con mie riflessioni via via più sconsolate e affrante.
(Come andare allo stadio e sapere già in partenza che ne uscirai sconfitto e con meno punti in classifica, ma non riuscire a cambiare direzione, cambiare squadra o cambiare sport.)

Non escludo che questo crescente pessimismo che mi assale puntuale tra il 15 e il 25 dicembre, derivi anche dall’avanzare della mia età; e, tuttavia, quello che vedo, almeno nelle scuole che frequento, è innegabilmente un quadretto pre-natalizio sempre più squallido, finto e desolante.

Peraltro, a mio modo di vedere, questa riproposizione in stile farsesco dei più ferventi periodi di autogestione e occupazione degli scorsi decenni, rappresenta un grande autogol degli adolescenti italiani, in quanto:
– decreta il mancato protagonismo delle nuove generazioni nel sistema educativo (se questa è la settimana dello studente, il resto dell’anno, le altre settimane… di chi sono?)
– dimostra l’incapacità di proporre modelli nuovi ed alternativi (i rari corsi organizzati dal basso ripetono gli schemi di gioco imposti dai peggiori professori della vecchia guardia, lasciando scarso spazio alla creatività ed all’innovazione)
– sostituisce il sistema repressivo della scuola tradizionale con la repressione (spesso arbitraria) di servizi d’ordine affidati (nella maggior parte dei casi) agli alunni più incontenibili, nel tentativo (vano) di tenerli a freno mettendogli addosso una casacca da arbitro o da guardalinea (e loro, quasi sempre, la indossano, questa uniforme, con l’inflessibilità iniqua e vessatoria di un secondino che agisce indisturbato in un sistema autoritario e oppressivo); oltre al fatto che queste casacche da guardiano dell’ordine e della sicurezza vengono elargite con i peggiori metodi nepotistici e clientelari dal potente di turno, il rappresentante dell’immobilismo di un sistema basato sul favoritismo, l’iniquità, lo scambio e la (malintesa) amicizia.

E così ti può capitare di vedere arbitri e guardalinee giocare nei corridoi con le carte che hanno appena sequestrato in classe, perché “durante la settimana dello studente a carte non si può giocare”. Una vaga rievocazione dei professori che ci dicevano che a scuola era vietato fumare con la sigaretta penzolante dalla bocca e il fumo che gli nascondeva la faccia di bronzo. Una lezione di ipocrisia, sopruso e abuso di autorità, seguita quasi sempre dalla minaccia di interrompere la festa a fronte di eventuali proteste. “Il pallone è mio e decido io chi gioca, come si gioca e se e quando giocare!”

Infine, dato che queste “settimane di pausa didattica” vengono concesse dall’alto come un automatismo che lascia poco spazio alla discussione, impediscono l’innesco di un sano scontro generazionale (quello che serve a crescere, a imparare a negoziare e ad argomentare, per segnare le differenze con le vecchie generazioni e per affermare la volontà di un reale cambiamento rispetto allo “status quo ante”).

Questo scrivo nella speranza che qualche ragazzo legga, rifletta e, magari, confuti le mie parole con argomenti convincenti ed un dribbling da applauso. Magari anche con storie di pause didattiche di alto valore formativo o ri-creativo.

(E, mentre scrivo, continuo a chiedermi e a chiedervi cosa potremmo fare noi vecchi per favorire la formazione di nuove leve più capaci, dinamiche e innovative.)

[In quest’altra parentesi di forma quadrata mi scuso per aver (ab)usato, in varie occasioni, (di) un gergo calcistico che domino poco, con la velleitaria intenzione di rendere più accattivanti e appetibili le mie tesi e le mie antitesi.]

Exemplorum vis (‘o pesce fete d’a capa)

31 mercoledì Lug 2019

Posted by aitanblog in idiomatica, riflessioni, vita civile

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Tag

bambini, formazione

(Piccole lezioni di pedagogia pratica.)

Dice che bisogna insegnare ai bambini la legalità, la condivisione, l’inclusività…, dice che bisogna insegnare la tolleranza e perfino la giustizia, dice.
Dice che bisogna dirgli che siamo tutti uguali, dice che bisogna dirgli che non bisogna rubare e che non bisogna dire e fare male, dice.
Io dico che queste cose non si dicono, queste cose si fanno, e dico che, se si fanno davanti ai bambini, poi anche loro le fanno; ma dico, soprattutto, che ci sono cose che davanti ai bambini non andrebbero mai fatte né dette, perché se si fanno o dicono davanti ai bambini certe brutte cose, poi quelle brutte cose pure i bambini le fanno e le dicono, aggiungo. (Tipo, per dire, imprecare contro i più sfortunati, calpestare le aiuole e i diritti altrui, dire menzogne e mezze verità, approfittarsi degli altri e del proprio ruolo di potere, prendersela con i più deboli e sbattere la porta in faccia a chi ci chiede un aiuto o anche solo un sorriso, un conforto o una parola gentile, aggiungo.)
Insomma, io dico che i bambini sono buoni accoglienti e giusti di loro (abbastanza buoni, intendo, forse non proprio buoni per natura, insomma, ma abbastanza buoni, dico), solo che poi ci sentono parlare dell’uomo nero, della donna schiava, del maschio forte, del potere del denaro, della necessità della corruzione e della sottomissione al più forte e acquisiscono sul campo le nostre fottute lezioni di intolleranza, ingiustizia, sopraffazione, sessismo, razzismo e omofobia.
Dico, insomma, che, come tante cose, l’inclusività, la tolleranza e perfino la giustizia vanno insegnate con la forza dell’esempio e, ancor più, non esponendo le nuove generazioni a modelli di intolleranza, ingiustizia e mancanza di rispetto per l’altro. Non chiacchiere, insomma, ma opere di bene fatte bene per il bene proprio e per il bene altrui, intendo.
Questo dico e, mentre lo dico, mi dico e vi dico che, se le cose stanno così, stiamo messi proprio male, soprattutto mo che il pesce puzza dalla testa e dà continue lezioni del suo fetido fetore, e certe scorregge in pubblico le fa con iattanza, protervia e arroganza, aggiungo, tra gli applausi della folla e il fragore della rete e dei giornali, a quanto vedo e sento (mentre i bambini stanno a guardare e assimilano, aggiungo preoccupato).
Perciò, io dico tutte queste cose che dico, perché, se il pesce puzza dalla testa, dico io, bisogna tagliargliela quella testa oppure girarsi dall’altra parte e scegliere un altro pesce; se uno crede che esistano pesci buoni, intendo. Se no, zucchine, melenzane e puparuoli, dico. Oppure tanta carne per tutti e per ognuno, aggiungo io.

I chiodi, il martello, le martellate e il martellare

05 sabato Mag 2018

Posted by aitanblog in riflessioni, vita civile

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Tag

competenze, conoscenze, formazione

Imperversa nelle scuole, in rete e sulle riviste di didattica un dibattito che contrappone conoscenze e competenze; un luogo comune della retorica dei nostri tempi che finirà per diventare una sottospecie di genere letterario, una sorta di disputa medievale, tipo la “Razón de amor y los denuestos del agua y el vino“, la “Disputa dell’anima e del corpo”, il dibattito sulla superiorità dei chierici sui cavalieri o la superiorità dei cavalieri sui chierici, la “querelle des Anciens et des Modernes“, il sostegno a Bartali versus il sostegno a Coppi, la doccia di sinistra contrapposta al bagno di destra (o era il contrario?)…

Insomma, si cerca di affermare una parte annullando o escludendo l’altra, come se potesse esistere una competenza assoluta che prescinda da ogni conoscenza o come se si potessero acquisire delle conoscenze senza mettere in moto tutta una serie di competenze che servono a far sì che le conoscenze diventino parte stabile e integrante della nostra enciclopedia personale.

Mi viene in mente l’apologo indiano dei sei saggi ciechi che si trovarono per la prima volta nella loro vita al cospetto di un elefante e, per descriverlo, cominciarono a toccarlo.
Il primo saggio, avendogli toccato l’orecchio, definì il pachiderma come un grande farfalla.
Il secondo gli toccò la zampa e pensò al tronco di un albero.
Il terzo, con ancora la coda tra le mani, disse che l’elefante era simile a una corda.
Il quarto, dalla punta della zanna, pensò a una lancia acuminata.
Il quinto, palpandogli gli enormi fianchi, affermava che si trovavano al cospetto di una muraglia movente e il sesto, toccandogli la proboscide, assicurava che si trattasse di una specie di serpente.
Tutti illusi che la loro parziale rappresentazione potesse descrivere la totalità e la complessità dell’elefante.

Mi pare che, escludendo nel processo formativo una volta la conoscenza (il sapere) e un’altra la competenza (il saper fare), ci comportiamo proprio come i sei ciechi dell’apologo indiano.

Cerco di spiegare cosa intendo con degli esempi.
1. Un bambino che impara a vedere l’ora acquisisce una competenza che non può prescindere dal sistema numerico decimale e dalla numerazione per 5 (poco importa se parliamo di numerazione, progressione aritmetica, tabellina o tavola pitagorica).
2. Similmente, fare in modo che gli alunni sappiano fare un’analisi testuale non può prescindere dal far acquisire loro la conoscenza dei generi letterari, delle figure retoriche, della metrica e, al limite, anche delle coordinate culturali che ci permettono di riconoscere l’appartenenza di un autore a una determinata corrente letteraria…
3. Imparare i verbi della propria lingua o di una lingua straniera presuppone una serie di competenze molto raffinate che servono a inserirli in categorie che grosso modo chiamiamo tempi e modi e in sottocategorie che definiamo tempi semplici e tempi composti, voci attive e voci passive, modi definiti e modi indefiniti… E credo che non ci sia dubbio che comprendere il sistema verbale di una lingua aiuti anche alla sua memorizzazione ed all’uso corretto della consecutio temporum e dell’attrazione modale, in un naturale intreccio di competenza e conoscenza.

D’altronde, nemmeno la tanto vagheggiata buona scuola dei tempi che furono era tutta basata sulle conoscenze. Il vecchio liceo classico (quello che formava la classe dirigente), non insegnava solo le declinazioni greche e latine e la vita e le opere di Cicerone e Demostene, ma soprattutto offriva agli alunni le competenze per leggere un testo in lingua latina o greca, ragionare sulla sua struttura e tradurlo in buon italiano. E anche lo studio della filosofia e della letteratura non si basava su semplici nozioni da mandare a memoria, ma tendeva a fornire capacità di ragionare sui sistemi, operare confronti, esprimere giudizi critici…

Non ha senso parlare di scuola della conoscenza o di scuola della competenza. A scuola si imparano cose e si impara a fare cose. Come nella vita. Dove appendiamo quadri al muro dopo aver conosciuto il muro, i quadri, i chiodi e il martello e dopo aver imparato a martellare senza puntarci il martello sul dito. Ahi!

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