La strage di Melilla (37 morti ammazzati nella calca a seguito di un brutale intervento della polizia marocchina mentre cercavano di entrare nell’enclave spagnolo) è figlia di un patto scellerato tra il Marocco e la Spagna.
“Io riconosco la tua sovranità sul Sahara Occidentale e tu, Marocco caro, fai pulizia etnica alle frontiere e non ci fai entrare altri neri a Melilla, che è territorio spagnolo…. Eccheccacchio, ‘o vonnecapìche chesta è Europa e nun è Africa!?”
Ho sovrapposto alcune immagini di questa tragedia (mi scuso con gli autori delle foto originali per la manipolazione).
Un po’ come la Svezia e la Finlandia che si impegnano a mandare in Turchia un bel gruppetto di attivisti curdi, affinché Erdogan tolga il veto alla loro entrata nell’alleanza atlantica.
“‘A Turchi’, tu lasciaci entrare nella NATO senza fare questioni; po’, che vuo’?, ‘e curde?, ‘e terroriste? …Pigliatelle e fanne chello che vuo’, indifferentemente.“
Si fa mercato dei corpi altrui, delle altrui vite. Scambi internazionali che impongono le loro scelte a popoli terzi. Uomini ridotti a pedine di uno scacchiere perverso.
Altri si lasciano morire nelle acque del Mediterraneo o asfissiati nei tir. Un modo per regolare i flussi migratori sulla pelle di chi cerca fortuna o vuole allontanarsi dalla fame, dalla guerra e dall’oppressione.
Gli effetti collaterali della ragion di Stato. Piccoli sacrifici umani sull’altare dell’interesse e del profitto.
…
Afammocca la Realpolitik! Ridatemi le ideologie e un’utopia per cui valga la pena combattere.
Vedo da più parti cristiani che costruiscono muri dove c’erano ponti, cattolici che criticano il Papa per il suo presunto “populismo immigrazionista” e politicanti che affermano il valore dei porti e delle porte chiuse.
Va be’, nulla di strano. Ognuno vede il mondo e interpreta la realtà a suo modo e a sua misura. Però su un punto non transigo: la storia può essere ignorata, fraintesa, frammentata, commentata, ma non negata.
Insomma, il fatto che nelle questioni ideologiche ognuno cerchi di tirare la coperta corta dal suo lato del letto è cosa risaputa ed a tutti evidente, ma non vedo proprio come dei sedicenti cristiani possano negare che nella storia del popolo eletto della Bibbia si siano susseguite continue migrazioni che, peraltro, evitavano l’assoluta assimilazione con i popoli e i Paesi ospitanti (anche perché, se questa assimilazione ci fosse stata, i discendenti di Mosè avrebbero abbracciato la religione politeistica e zoolatrica fondata sul culto di Ra, Amon, Iside, Osiride e compagnia egizia anziché venerare il Dio unico e trino dell’Antico e del Nuovo Testamento).
Mi pare di ricordare anche che, da Abramo in poi, tanti profeti siano stati nomadi e pastori (spesso spinti a lasciare le loro terre per sfuggire alla fame ed alle carestie) e che, dopo l’esodo, l’intero popolo biblico si sia messo in cammino alla ricerca della Terra Promessa. Inoltre, se la memoria non mi inganna, hanno migrato in terre straniere per diffondere la buona novella (e non certo per assimilarsi alle religioni e ai valori altrui) anche i pescatori di anime del Nuovo Testamento; senza contare che erano stati migranti (di nuovo in Egitto) anche Maria e Giuseppe, dopo aver appreso che Erode intendeva fare strage di tutti i bambini della zona (in fin dei conti, un’altra fuga per necessità). Il che, come ricorda Bergoglio, fa di Gesù, fin dalla prima infanzia, un profugo che vive sulla sua pelle l’angoscia della persecuzione ed una vittima delle ingiustizie umane.
Infine, da Paolo di Tarso in poi, la storia del cristianesimo è tutta una sequela di viaggi di evangelizzazione, missioni e colonizzazioni in terre vicine e lontane. Non certo una storia di genti stanziali che se ne stanno fermi in casa propria senza contatti con il mondo esterno.
“Non molesterai il forestiero né lo opprimerai, perché voi siete stati forestieri in terra d’Egitto” credo di aver letto da qualche parte.
Ma forse significava che ognuno deve starsene al posto suo a morirsene di fame in silenzio, mentre genti diverse provenienti dal Nord (ma ora anche dall’Est estremo) continuano a depredare le loro terre e riempirle dei rifiuti del mondo opulento. Se davvero volessimo aiutarli a casa loro (che di certo sarebbe la cosa migliore e più giusta da fare e l’unico vero argine alle migrazioni di massa), dovremmo prima restituire loro il maltolto, poi smettere di sfruttarli e imbrattarli. Nessun popolo lascia in massa la sua terra se non è in uno stato di necessità, e spesso si tratta di necessità indotte da fattori esterni riconducibili ai Paesi più ricchi del mondo occidentale e, ora, anche della Cina Pigliatutto.
Insomma, anche in questo specifico caso, fuori di ipocrisia, vale quella regola semplice che dice: se mi vuoi aiutare, levati dalle palle (e, per l’amor di Dio, abbi la bontà di non chiudermi la porta in faccia, quando busso e ho davvero bisogno di te)!
Oppure dillo che ti fai vedere in chiesa tutte le domeniche, ma non sei cattolico e non sei cristiano.
Eran le sei ed erano tanti,
non c’era spazio per tutti quanti;
pronti gli alunni per la partenza
con dieci tate in assistenza.
“Un guasto brutto ad un motore”,
disse, ansimando, il direttore,
“aveva in un attimo bello e distrutto
un progetto perfetto in tutto e per tutto.”
Di due bus era giunto sol uno
e ci voleva adesso qualcuno
pronto a proporre una soluzione
per far calare l’ingente tensione.
“Prima i nostri, qui siamo a Milano!”,
gridò d’emblée un padre padano
buttando fuori un bimbo lucano,
quattro ghanesi ed un indiano.
“Prima i nostri, in terra italiana”,
faceva eco una siciliana
tenendo basso il tono e l’accento
nel proferire il proprio commento.
“I primi posti agli italiani,
se poi ve ne è, ai napoletani,
ai filippini, agli americani…,
e in second’ordine agli africani.”
“Più spazzio al bianco e al cristiano e a chi palla pebbene ‘taliano, nel rispetto della costituzzione e di ogni nomma d’educazzione.”
“Nessun sedile per i musulmani,
i rom, i sinti e i talebani
che tiran sangue, soldi e risorse
dal nostro sangue e le nostre borse.”
“Prima i nostri, per lor non v’è posto!”,
diceva una parlando del “costo
versato dall’intera nazione
per finanziare l’immigrazione”.
“Prima i nostri e i nostri prima”,
si riscaldava sempre più il clima,
mentre stavan muti e in disparte
venti migranti senz’arte né carte,
tristi, delusi ed anche arrabbiati
per come furon tratti e trattati.
E ancor più tristi i loro figli
messi da parte come conigli…
Ma càpita a volte che la sventura
si volga di scatto e cambi andatura
spingendo sopra chi sta in basso
e giù per terra l’altivo gradasso.
Si volse la ruota della fortuna,
si volse il vento, si volse la luna
che quella notte s’alzò sopra un monte
e spintonò nei pressi di un ponte
tutti insieme in fondo a un abisso
tate, bambini e un crocifisso
ch’aveva al collo l’autista italiano
di quel catorcio di settima mano.
Non funzionò lo sterzo ed il freno,
cadde giù il bus nel terrapieno
e con lui cade codesto finale
che mesto scivola lungo il crinale.
In breve la colpa fu attribuita
alla massa che non era partita
e senz’alcun rischio s’era salvata
da morte certa e assicurata.
Così che il popolo dei migranti
fu accusato dai padri ululanti
d’aver esecrato e maledetto
il sacro gruppo del popolo eletto,
che ottemperò ai propri doveri
mettendo al rogo tredici neri
per atti osceni non ben definiti,
cattivi pensieri da starne allibiti,
imprecisati ulteriori misfatti
ed altri fatti ancora più brutti
per il buon ordine della nazione
e la difesa della popolazione
di pura razza ario-italiana
e cieca fede catto-cristiana.
Il capitalismo crea Il capitalismo distrugge E poi ti vende a caro prezzo La medicina e il rimedio
Un gruppo di persone spietate e avide, che chiameremo capitalisti, dopo aver spolpato tutto quello che potevano spolpare a casa loro, vengono da te e prosciugano ogni ricchezza della tua terra. Tu, non avendo di che mangiare, ti sposti, in cerca di cibo e di lavoro, nel territorio da cui provengono queste persone avide e spietate, visto che la loro terra si arricchisce in modo inversamente proporzionale all’impoverimento della tua.
Ma lì ci sono già altre persone sfruttate da queste stesse persone spietate e avide che difendono il loro diritto a essere sfruttati nella loro terra ricca e opulenta e mettono argini alla tua invasione del loro territorio; anche perché tu, essendo più pezzente di loro, offri il tuo lavoro a prezzi stracciati che fanno la gioia dei capitalisti avidi e spietati che hanno prosciugato ogni tua ricchezza e abbassano i diritti conquistati da quelli che vivono degli scarti del capitale nelle terre più ricche e opulente del pianeta.
Intanto, questi capitalisti spietati e avidi costruiscono sempre più cose da vendere sia ad altri capitalisti spietati ed avidi che ai pezzenti dei loro territori ed anche a te, che prima vivevi con poco, ma ora ti accorgi di avere sempre più necessità e desideri e, insieme, sempre più frustrazioni.
A questo punto si chiudono le frontiere e si conta il numero di persone della tua terra che serve alla loro terra per mantenere in piedi il meccanismo di questa ingiustizia planetaria e salvare il capitale.
Ormai tu e buona parte dei tuoi compaesani siete destinati a crepare nel tragitto o nella vostra terra prosciugata.
“Il capitalismo per il suo autosostentamento avrà bisogno nel tempo di sempre più schiavi e che questi lottino furiosamente l’uno conto l’altro per far sì che diminuiscano progressivamente sia le loro retribuzioni sia i loro diritti…”
(Frase attribuita – e per certo attribuibile – a Marx; anche se, per il momento, non sono riuscito a trovare la fonte precisa. Ma, oggi che va di moda fare la lotta alle migrazioni usando l’argomento dell’incremento del marxiano “esercito industriale di riserva”, sarebbe il caso di rileggere i passi sull’immigrazione irlandese in Inghilterra e sulla colonizzazione inglese dell’Irlanda contenuti nella lettera di Marx a Sigfried Meyer e August Vogt scritta ad aprile del 1870. Scoprireste che il vecchio barbuto, piuttosto che auspicare la chiusura delle frontiere, caldeggiava la coalizione tra gli operai autoctoni e quelli stranieri, ovvero, la sostituzione della lotta tra poveri con la guerra contro i ricchi. Una cosa marxista e di sinistra, insomma; una cosa che suona bene anche alle orecchie e agli occhi di un vecchio anarchico come me. Un’altra soluzione sarebbe una localizzazione spinta, il rifiuto di ogni tipo di globalizzazione: l’Occidente smette di aiutarli a casa loro con le sue aziende petrolifere, l’estrazione del coltan, la vendita di armi, lo sfruttamento intensivo del suolo e gli scarti industriali sotterrati in Africa…, e gli africani se ne stanno buoni buoni a casa loro a coltivare la loro terra e a prendersi cura dei loro territori, dei loro vecchi e dei loro figli. Inshallah, ojalá e fosse ‘a Maronna!)
“You can take the monkey out of the jungle, but you can’t take the jungle out of the monkey.“
“Puoi portare via la scimmia dalla giungla, ma non puoi portare via la giungla dalla scimmia.”
È un proverbio bellissimo che, da quello che vedo nella rete, viene spesso usato con intenti razzisti nell’area WASP degli Stati Uniti, quella dei bianchi, anglosassoni e protestanti che votano Trump e hanno nostalgia degli schiavi piegati nelle piantagioni e inceneriti nei roghi del Ku Klux Klan.
A me, invece, questo concentrato di saggezza popolare fa pensare a un legame forte con le proprie origini, un discorso sacro di “roots“, di radici… Leggendolo mi viene da ripensare all’impossibilità di cancellare i profumi, i panorami, le favole, i suoni e i sapori della nostra infanzia; i luoghi della memoria che continuano ad abitarci per sempre, ovunque ci porti il cammino della nostra vita.
“You can take the man out of the place, but you can’t take the place out of the man.“
Un uomo, qualunque uomo, può essere allontanato o può andarsene di sua volontà dai luoghi della sua infanzia, ma quei luoghi non possono essere allontanati da lui in nessun modo.
’A canzone ’e Napule
(versi di Libero Bovio,
musica di Ernesto De Curtis)
Me ne voglio i’ all’America ca sta’ luntano assaie. Me ne voglio i’ addò maje te pozzo ‘ncuntrà cchiù.
Me voglio scurdà ’o cielo, tutt’e canzone, ’o mare, me voglio scurdà ’e Napule, me voglio scurdà ’e mammema, me voglio scurdà ’e te.
Nun voglio cchiù nutizie d’amice e d’e pariente… Nun voglio sapè niente ’e chello ca se fa!…
Ma quanto è bella Napule!… Stanotte è bella assaie!.. Nu l’aggio vista maje cchiù bella ’e comme a mò!..
Comme mme scordo ’o cielo? Tutt’e canzone e ‘o mare? Comme mme scordo ’e Napule? Comme mme scordo ’e mammema?! Comme mme scordo ’e te?!
“You can take a Neapolitan out of Naples, but you can’t take Naples out of a Neapolitan.“
Se po’ purta’ nu napulitane luntane ‘a Napule, ma nun se po’ purtà Napule luntane a ‘nu napulitane.
Soprattutto, quando si fa sera.
Perché lo dice pure “Santa Lucia luntana” che
Se gira ‘o munno sano, se va a cercá furtuna… ma, quanno sponta ‘a luna, luntano ‘a Napule nun se pò stá!
E so’ lacreme, lacreme napulitane…
Qui cercavo una bellissima sequenza di Catene di Raffaello Matarazzo, un filmone melodrammatico del 1949 in cui Roberto Murolo fa la parte di un emigrante ben intonato che canta Lacrime Napulitane su un bastimento diretto in America; ma, incredibile dictu, non l’ho trovata in rete. O meglio, su YouTube c’è il film intero, ma non avevo voglia di guardarmelo tutto per cercare quel paio di indimenticabili minuti di un video che, uno di questi giorni, mi piacerebbe montare con scene dei barconi del Mediterraneo zeppe di immigrati neri o molto abbronzati.
Infatti, immagino che questa profonda malinconia pervada anche le notti e i giorni di un magrebino, di un nigeriano, di un polacco, di un argentino, di un siriano, di un moldavo o di chiunque altro sia costretto a vivere lontano dalla sua terra…
Immagino che qualunque immigrato porti dentro di sé la geografia dei luoghi in cui è nato.
Immagino che anche un nomade abbia impressi nella sua memoria e in cuor suo il finestrino di una roulotte o di un treno, il panorama mutevole che correva in direzione contraria al suo sguardo e la voce di sua madre, di suo padre o dei suoi fratelli.
Очи чёрные, очи пламенны и мaнят они в страны дальные, где царит любовь, где царит покой, где страданья нет, где вражды запрет.
Occhi neri, occhi fiammanti, mi attirano verso terre lontane, dove regna l’amore, dove regna la pace, dove non c’è sofferenza, dove la guerra è bandita.
Forse ci separiamo tutti dalla nostra infanzia, ma è la giungla della nostra infanzia che non si separa mai da noi.