L’altro ieri è morto Minà. Ieri Lolli avrebbe compiuto 73 anni. (Era nato a Bologna il 28 marzo del ’50.) Oggi sono 10 anni che è morto Jannacci e non so quanti da che è schiattato pure Zi’ Frungillo.
‘Nu juorne ‘e chiste me ne vaco pure je. Zittu zitto. Ma, quanno e’ vero Iddio – ca po’, je, che ne saccio quanno e’ vero Iddio? Boh? – nun ‘o scrive cca’ ‘ncoppa ca me ne songhe jute. Me ne vaco, me ne vaco e basta. Senza fa rummore, ca si no s’ascetene ‘e criature.
Grazie a Basquiat, Bruegel il Vecchio, Repin, Bosch, Caravaggio, Annella di Massimo, de Chirico, Capa, anonimo viennese, Ivanauskas, Millais, Munch1, Courbet, Munch2, Picasso, Munch3, Nolde, Munch4, Lowry, Munch5, Munch6 e Legros per le immagini, e grazie anche alla Banda Jonica per la Marcia Funebre di sottofondo.
Francesco, non ho fatto in tempo. Non ti ho detto neanche che l’ho trovato bellissimo “Piume“, che bisognava trovare subito qualcuno che avesse la forza di mettere in scena un’opera così delicata, intensa e coraggiosa. Pensiamo sempre che c’è tempo. Ci facciamo sopraffare dagli eventi. Pensavo di tornare a farti visita in questi giorni. Ti avevo anche scritto che avevo perso il tuo numero di telefono. Ma non ho fatto in tempo. Nell’ultimo vocale che mi hai mandato mi chiedevi di venire. Dicevi che ci saremo fatti un sacco di risate. E ci saremmo fatti un sacco di risate, se avessi fatto in tempo. Avremmo ricordato gli anni ’90. Avremmo ricordato quella volta che ti facesti accompagnare a un corso di drammaturgia e poi, a tradimento, mi presentasti come un esperto di teatro e disabilità e mi facesti parlare per due ore, dimostrandomi sul campo che potevo tenere la scena. Avremmo ricordato i tempi dell’allestimento di “Streghe da Marciapiede” al Teatro Nuovo. Avremmo ricordato la sera in cui ti ho conosciuto. Recitavi nel tuo “Angeli all’Inferno” con Enzo Moscato e Isa Danieli. Non so dire se fu Antonio Seller o Antonio Natale a presentarci. Forse tu te lo ricordi. Ma non puoi dirmelo più.
Avremmo ricordato le cene che facevamo parlando di teatro e progetti futuri e i viaggi in Cumana verso il Teatro dell’Edenlandia o qualche scuola di periferia. Ma non ho fatto in tempo. Non ho fatto in tempo a ricordare i corsi che ci inventammo per insegnare ai professionisti napoletani a parlare in pubblico e le giornate trascorse a creare progetti per la Fiera del Fantastico e il Cantiere dell’Immaginario. Avremmo ricordato le chiacchierate che diventarono “Senza orgoglio né pudore” e quella sera che mi facesti vedere la versione cinematografica de “Le cinque rose di Jennifer” in cui eri protagonista nel ruolo che fu di Annibale Ruccello. Eri un attore perfetto e meticoloso, un drammaturgo di primo piano e un bravo maestro di teatro. Ma ti hanno dimenticato. Hanno dimenticato quel capolavoro che è “Saro e la Rosa” e l’arguzia di un teatro per bambini ed adulti come “La guerra di Martin“. Hanno dinenticato i tuoi premi IDI per la scrittura drammaturgica e l’UBU come migliore attore non protagonista nella messa in scena di Servillo di “Sabato, domenica e lunedì” di Eduardo De Filippo (Luca, invece, ti aveva prodotto “Angeli all’inferno“). Hanno dimenticato i tuoi insegnamenti di drammaturgia alla Scuola Holden di Baricco e le lezioni di recitazione nella tua Accademia Clarence. Il teatro dimentica presto. Hanno dimenticato anche “Il topolino Crick“, “Il bambino palloncino” e “Fratellini“. Hanno dimenticato tanto, a quanto pare. Ma io non voglio dimenticare.
Quando tua sorella Silvana mi ha detto che eri andato via da un’ora mi sono venuti in mente mille ricordi e rimpianti. Hai deciso di uscire di scena definitivamente nel bel mezzo dei cenoni di Natale. Un colpo di teatro e un colpo al cuore di chi ti vuole bene; anche se forse eravamo tutti troppo distratti per fartelo sentire ora che tu ti sentivi più solo e dimenticato. Dimentica presto il teatro. E anche la vita. Ma io non voglio dimenticare. Ci eravamo riacchiappati da poco attraverso i social. Quando hai pubblicato “Lezioni di scrittura teatrale” a quattro mani con Marco Andreoli mi hai condiviso un post in cui hai scritto, generosamente assai, “dedico la parte del volume da me redatta a Gaetano Vergara perché neppure lui sa quanto mi ha insegnato. Grazie.”
Era il 26 ottobre del 2021. Fu lì che riallacciammo i nostri contatti e seppi dell’infarto e degli acciacchi. Solo quest’estate sono passato da te e ho cominciato a dire in giro che avevi bisogno di noi, dei tuoi amici, che non bastavano i like sotto i tuoi post. Ma neanch’io sono riuscito ad essere abbastanza presente. Non ho fatto in tempo a dirti che “Piume” è un testo immaginifico, da un ritmo serrato e mozzafiato. Una vera sfida per la messa in scena. Ma una sfida che vale assolutamente la pena. E non ho fatto in tempo nemmeno a ridirti che ti voglio bene e neppure tu sai quanto mi hai insegnato e quanto mi hai dato. E che ho conosciuto per altre strade Silvana. Che le tue sorelle ti vogliono bene. Che c’è ancora tempo. Avrei dovuto ripetertelo che c’è ancora tempo quando c’era ancora tempo, porca miseria! Ho interrotto il cenone quando ho saputo. Mi sono messo a cercare i tuoi libri, i tuoi dattiloscritti, segni delle cose che avevamo fatto insieme. Ho buttato tutto a terra. Poi ho ordinato alla meno peggio e ho fatto questa foto.
Dentro ci sono alcuni dei nostri comuni ricordi. E al centro il libro che ha scritto Vittorio Albano sulla tua scrittura teatrale. Si intitola “…E poi sono morto“. Il sottotitolo è “La drammaturgia non postuma di Francesco Silvestri”.
Uno di quei paradossi che ti sarebbe piaciuto assai.
In ogni modo, tra qualche minuto è Natale. E tu non ci sei più.
C’è vita prima della morte? C’è vino dopo la morte? C’è vita dietro quelle porte?
Sento voci distorte che arrivano chiare dalla collina.
Prima voce Il giorno che mi ammazzai i treni subirono qualche minuto di ritardo. Il tempo di spazzare il mio corpo dai binari.
Seconda voce Sono morto nel sonno. Tranquillo. Eravamo in cinque. Gli altri che erano in macchina con me gridavano come degli ossessi.
Terza voce Bussarono. Bussarono. Ma io non potevo aprire. Quando decisero di buttare giù la porta, ero già saltato giù dalla finestra.
Quarta voce “Per evitare sorprese, devi sempre aspettarti tutto da tutti “, disse mio padre prima di trafiggermi il cuore con la forchetta ancora unta dell’olio di un’insalata condita male.
Quinta voce All’ultima riga mi gettai giù dalla torre. Pensavo che lui fosse sul punto di abbandonarmi. I miei pollici coprivano un NON e un MAI che racchiudevano quel maledetto TI LASCERÒ come un’insulsa parentesi.
Sesta voce Quando mi disse che l’importante è essere belli dentro, non avrei mai potuto pensare che mi avrebbe squartata viva.
Settima voce Con una lunga falce tra le mani, mi si avvicinò e mi chiese: – Se potessi scegliere una sola cosa, che vorresti prima di morire? Gli dissi – Un minuto ancora. In loop… Fece finta di non aver capito.
Tra quante sorti ancora si gioca la partita? Di quante morti ancora sarà fatta la mia vita?
Perché non importa la data segnata sui calendari, qualunque sia l’anno il giorno e l’ora è sempre troppo presto per partire e troppo lunga la fila già schierata sulla scogliera
come condannati in attesa di giudizio.
The Cure, “The Holy Hour”, 1981
Achille era il più eccentrico ed inquieto della nostra inquieta ed eccentrica famiglia. Non passava inosservato, Achille. Negli anni ’80 fu il primo dark di Frattamaggiore. Tutto vestito di nero, con la faccia ricoperta di cerone, occhi contornati di matita, lunghi capelli corvini da medusa e unghia smaltate di nero. Con la sua bella figura alta e dritta, le mani lunghe e affusolate, lo sguardo intenso da miope senza occhiali, non sarebbe passato inosservato neanche ‘cu ‘nu jeans e ‘na maglietta, in verità. Aveva sei o sette anni meno di me, Achille. Da ragazzo mi faceva leggere terzine scritte in una lingua antica e misteriosa e mi parlava di magia e riti gotici.
Una trentina di estati fa non tornò da un viaggio in Calabria. Non tornò a settembre, a scuola iniziata, non tornò in autunno, non tornò per Natale né per Pasqua. Ogni tanto telefonava e diceva che stava bene, ma cosa facesse nessuno lo sapeva, e tutta la sua vita sembrava ammantata in uno spesso velo di mistero. Finché, attraverso una serie di investigazioni che non sto qui a raccontare, venimmo a sapere che Achille si trovava a Cirò, sulla costa ionica. Andammo zio Gennaro e io in spedizione persuasiva: Achille non aveva ancora 17 anni, ed in famiglia ci sembrava opportuno che concludesse almeno i suoi studi liceali. Scoprimmo che Achille in Calabria faceva il mago, ed aveva uno studio, diciamo così, ben avviato; era diventato uno di quelli che ti ipnotizzano col pendolino, ti leggono la vita in una palla di vetro e ti tengono legati al filo delle loro parole. Mi spiegò che una professionista della magia lo aveva notato, aveva avvertito i suoi poteri e l’aveva avviato sul cammino del paranormale. Non fu facile convincerlo a venire a prendersi il diploma a Napoli. In realtà, per un po’ fu lui a cercare di convincere me che anch’io c’avevo un certo carisma, un’aura, un sesto senso e non so che. Insomma per poco non aprimmo una ditta Vergara, cugini magici. Il diploma alla fine lo prese, Achille, ma continuò ancora per un paio di anni ad esercitare la professione occulta.
Poi se ne andò a studiare filosofia a Milano. A un dato momento, si stancò e si trasferì a Dublino, poi a Londra, dove ha fatto mille mestieri (ma meno di quanto ne abbia fatto il padre), poi rientrò qua, dove la sua vita si è conclusa troppo presto e senza magia.
– A man can fish with the worm that ate a king, and then eat the fish he catches with that worm. – What do you mean by that? – Nothing but to show you how a king may go a progress through the guts of a beggar. _____
AMLETO Un uomo, un uomo qualsiasi, qualsiasi uomo al mondo può pescare mettendo all’amo il verme che si è cibato delle spoglie di un re, di un governante, di un magistrato, ‘nu grand’omme. E poi mangiare il pesce che ha pescato usando quel verme.
CLAUDIO Che cazzo vuoi dirmi?
AMLETO Niente, quisquilie, pinzillacchere… Voglio solo farti vedere come un re possa passare per la gola di un pezzente…
Nun ‘mporta si si pesce, verme o sua maestà… Ccà dinte simmo tutte eguale, muorte si tu e muorte so pure je, ognuno comme a ‘n’ato é tale e quale.
Pecché ‘a morte ‘o ssaje che d’e?, …è ‘na livella.
CLAUDIO ….!?
AMLETO Claudio, Claudio, guarda là, lo vedi quel teschio, chella coccia ‘e muorte ‘ittata int’a ‘na fossa senza pietà? Primma teneva pure essa ‘na lengua pe’ parla’, e a capace che sapeva canta’ pure… Potrebbe essere il cranio di un politicante, di uno che si sarebbe sentito di ingannare anche Dio! E mo’, guarda là…
CLAUDIO E già… Una livella…
AMLETO Trasenno ‘stu canciello ha fatte ‘o punto c’ha perzo tutta ‘a vita e pure ‘o nomme… Tu nun t’he fatto ancora chistu cunto?
Nella vita non ho mai vinto niente, ma sono sempre stato un perdente di successo.
(Nella morte potrebbe anche andare diversamente, ma non ci sarò al mio decesso. Per cui alla fin fine, per quanto paia differente, vincere o perdere per me farà lo stesso.)
Una cosa è abbastanza certa, ma non sicura al cento per cento: fino a prova contraria, alla fine, moriremo tutti, stroncati o logorati dal tempo. Abbastanza certo pure che, al momento, la seconda categoria resta di gran lunga, più vasta della prima. E va bene così.
Moriamo poco a poco, un po’ alla volta, fino a quando non risuona la nostra ultima ora e moriamo per davvero. Fili spezzati. Rami divelti. Pensieri interrotti, corpi inerti e vite paralizzate e immobilizzate su quell’ultimo istante.
Qualcuno, però, era già morto prima di morire. È una cosa risaputa. Qualcuno muore a vent’anni, oppure a trenta, ma continua a portare addosso il suo cadavere come una croce che lo accompagnerà di lì all’ora in cui esalerà l’ultimo ansimo, oppure un urlo, l’estrema parola di una frase banale o una sentenza scolpita nella memoria dei vivi fino al loro ultimo respiro.
Qualcuno, dopo essere morto a venti o trent’anni, resuscita a nuova vita una o due volte. Ma sono casi rari destinati a scivolare comunque al fondo di un crinale che non si può ripercorrere in senso contrario.
Muoiono poco a poco o schiattano all’improvviso nel pieno delle loro futili finzioni, anche quelli che, fino a prova contraria, si sentivano immortali come la polvere. Come la polvere che prende ogni cosa.
I will be immortal like dust I will be immortal like dust I will be immortal like dust that takes everything