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Lacrime di coccodrillo e altri animali
Il fatto é che quando sono morti Bach, De Falla, Ellington, Mingus, Jobim, Tenco, Piazzolla, Modugno, Demetrio Stratos e Miles Davis non avevamo Facebook.
E se faccio bene i conti, il nostro chiacchierio in rete non c’era nemmeno ai tempi in cui sono finiti Kurt Cobain, Jaco Pastorius e Fabrizio De Andrè.
Avremmo per certo scritto coccodrilli strappalacrime anche per loro.
E l’avremmo fatto soprattutto per noi stessi: un modo goffo è piuttosto disperato per elaborare il lutto e non rimanere sopraffatti dalla triste certezza che non ci sarebbero state nuove note provenienti da quelle mani e da quelle bocche ormai consumate da vermi e formiche o già trasformate in mucchietti di cenere.
Giorno dopo giorno,
Perdita dopo perdita,
Vita dopo vita,
I nostri ricordi
Si sradicano dalla terra
Per finire chissà dove.
Perché, in fondo, più che per il morto, ai funerali ed alle commemorazioni sulle reti sociali (quelle piene di pianti e rimpianti per le persone e per i personaggi che abbiamo più o meno ignorato per una vita e scoperto o riscoperto nel giorno della loro pubblica dipartita), più che per il morto, dicevo, mi pare che si pianga per se stessi: per quello che ci viene a mancare; per quello che abbiamo perso con l’avanzare degli anni; per il rimpianto di quello che eravamo quando entrammo in contatto col morto ai tempi in cui era ancora vegeto e vivo; per l’amore, per le considerazioni e per le emozioni che non potrà più darci e, non di meno, per il fottuto timore che prima o poi toccherà anche a noi (avevamo la stessa età…; abbiamo lo stesso sangue…; frequentavamo lo stesso bordello…; un giorno ci incontrammo a un altro funerale…; abbiamo mangiato lo stesso piatto di funghi avvelenati…; dottore, dottore, sento anch’io un dolore allo stomaco e mi gira la testa come se fossi al Luna Park…; dottore, mi dica quanto mi manca; non finga con me; ne ho viste già tante; ma tante, tante, tante che neanche lei sa quante…).
Poi a volte ci capita pure di piangere per persone lontane e sconosciute: vittime di catastrofi, incidenti memorabili, guerre, stermini e genocidi, e, nel farlo, seguiamo più o meno gli stessi meccanismi delle proprietà transitive e delle assimilazioni che finiscono immancabilmente per ritorcersi su noi stessi, sulla nostra fragile caduca e mortalissima persona (poteva capitare anche al mio amico Jules, a Pierre o a Juliette, oppure a Fulano, a Mengano o a Zutano che vivono da quelle parti e, se poteva capitare a loro, poteva capitare anche a me; e puoi scommetterci che capiterà, capiterà prima o poi, pure a te, a me e a tutti noi. Mannaggia ‘a miseria, mannaggia ‘a morte e mannaggia ‘a vita va c’è tene ‘nterra!).
Detto ciò, mi pare che si pianga anche a comando o per contagio. Se piangi tu, piango anch’io, che di certo la mia sofferenza non è minore della tua e neanche a me mancano le buone ragioni e le giuste dosi di dolore per versare fiotti e fiumi di lacrime su questa valle lacrimosa in cui risiede la nostra vita reale e virtuale. Oltre al fatto che in quei momenti ci viene da riflettere sull’impatto che quella vita sfumata ha avuto ed ha sulle nostre vite ancora pulsanti.
E qui la rete esercita un meccanismo di amplificazione in cui il lutto viene anche rappresentato, teatralizzato, finto così completamente che si arriva a fingere che è dolore il dolore (esistenziale e consustanziale alla finità dell’uomo) che davvero si sente.

(Lo so che vi suono antipatico e che voi gli volevate bene davvero. Anche se non lo conoscevate o lo avevate conosciuto di striscio. Ma piangetemi ai miei funerali. Anche se mi avete conosciuto di liscio, di sguincio o di striscio e mi avete capito poco o non mi avete capito per niente. Piangetemi, piangetemi lo stesso. Almeno un po’. Io sarò impegnato in altro e non potrò farlo da solo.)