A tutto c’è rimedio, mi dicono. A tutto ci son rime, dico io! Al rotto c’è rammendo, aggiungono. A lutto anche il regime, dio mio!
[Un putto mostra il medio ed il fio distrutto dal tedio, eziandio, distante dagli uomini e da dio.
Ma a tutto c’è rimedio, ripetono.] A tutto, a tutto, riecheggia lo zio che è il fratello di tutti i vizi ed il padre di tanti sfizi da percorrere e ribaltare senza contare le sillabe o fare eco alle parole sì come il cuore desidera et tradizione vuole.
Ma il traduttore si perderà tra i suoni che non suonano e la rima che non rima sì come rimava prima, nella versione originale.
Se i versi vi suonano troppo ostici, soffermatevi sul disegnino. Oppure abbandonatevi al suono. Come se fosse una canzone di Panella e Battisti da ascoltare senza musica.
Io, dal canto mio, volevo parlare di rime, rimedi e problemi di traduzione.
Quanti saccenti che non sanno niente Quanti visionari Quanti veggenti Che riempiono di fiamme e di fumo le loro parole E offuscano il senso e la direzione del loro percorso Per sembrare più interessanti Innanzitutto a se medesimi Dando l’impressione che hanno da dire Molto di più di quanto hanno da dire
Guardateli Stanno dicendo ora stesso Molto di più di quello che stanno dicendo Ma il mondo distratto Non riesce a sentire Tutto quello che hanno da dire Signora mia
Ascoltateli La gran parte di loro Non ha nulla da dire Ma lo dice Andando insistentemente da capo Prima che si arrivi alla fine del rigo
Pare che questo sia Il primo motore della poesia Signora mia Immutato dal tempo che fu (Ancor prima che sia nato Gesù) Con tutto lo spreco di carta Che ne deriva e comporta
Ma questo Alla poesia Cosa diavolo importa? Il buon poeta e il poeta buono Sono poco versati nelle circostanze effimere dell’attualità e Nelle problematiche della vita sociopolitica della gente comune
È d’uopo altresì rifuggire la rima Che conferisce al testo Un sapore di buone cose di pessimo gusto
E poi Per l’amor del cielo Nessuna citazione Poco linguaggio figurato E spruzzi di parole desuete scelte a cazzo di cane con acribia e convinzione
“Meglio un albero senza fusto Meglio un ramoscello o un arbusto Che un caffè dall’aroma robusto Infarcito di un linguaggio frusto trito e ritrito Fatto di formulette che puoi ripetere a menadito Per sfornare il tuo piatto adusto” E fare in modo che Come da rito Nessuno legga Con dovuta attenzione Né possa esservi qualcuno che regga Tutta intera La lettura della composizione
E poi è d’obbligo suonare esoterici e oscuri Ma questo credo di averglielo già detto Signora mia
Oppure giocare a fare i banali Per nascondere quanto banali si sia per davvero Dietro un muro di simpatiche anafore Infarcite di battute ad effetto E colpi di teatro Fatti per essere detti in pubblico Tra il rumore dei bicchieri e qualche rutto che dia ritmo alla serata
O anche (E con questo passo e chiudo) puntare a più amplie platee Discettando di natura a chi vive in città E darsi pose da provinciale universale Essendo trito ed essendo banale Come il pane senza sale Che ti danno in ospedale Per accompagnare la pastina e il merluzzo (E se ti va bene Arriva anche una mela Avvolta in una bustina di plastica Trasparente ma opaca )
Per il resto Le consiglio di seguire il mio laboratorio di poesia Costa pochissimo e le assicura un posto in prima fila Nel nulla della poesia contemporanea Nel quale m’onoro di naufragare Come chi ha di fronte un bicchiere E si sente nel mare
Piacemi pensare che il primo rimatore
fu un omino sordo o un suo imitatore
che tu gli facevi: “C’è posto qui a fianco?”
E lui ribatteva: “No, no, non conosco Franco”.
“Mi dica per favore se mi posso sedere…”
“Mica sono cacchi miei se ha rosso il sedere!”
“Parbleu, le chiedevo solo se è libera la sedia.”
“Ma che mi importa a me se una vipera l’assedia?”
E tu, ancor più disperato:
“Insomma, c’è o non c’è un posto qui?”
E lui, sempre più alterato:
“Chee-e!? Falla a casa tua la pipì!”…
Fino all’infinito si potrebbe continuare,
ma nel finito intanto mi fermo a pensare
come siano dalla sordità scaturite
le prime rime nell’aldiquà concepite.
Il che spiega l’oscurità e l’incongruenza
che di tanta poesia son forma ed essenza,
giacché ricercando l’uguale fonè
si perde il senso, il senno e il cos’è.
Indi per cui la quale il concetto
è mezzo del poeta, mezzo della rima,
come dicea Leo in su la vetta dell’antica cima
e come ripeto io quaggiù
cercando affetto e stima
per quanto ho detto ora e vieppiù
per quanto ho detto prima
rivolto a questi magnifici spettatori
cui eviterò altri papielli e romori
poiché mi starò cheto, muto e zitto
come sta un killer dopo un delitto.
“Ne’ versi rimati, per quanto la rima paia spontanea, e sia lungi dal parere stiracchiata, possiamo dire per esperienza di chi compone, che il concetto è mezzo del poeta, mezzo della rima, e talvolta un terzo di quello, e due di questa, talvolta tutto della sola rima. Ma ben pochi son quelli che appartengono interamente al solo poeta, quantunque non paiano stentati, anzi nati dalla cosa”.
Piacemi pensare che il primo rimatore
Fu un omino sordo o un suo imitatore
Che tu gli chiedevi: “C’è posto qui a fianco?”
E lui ribatteva: “No, no, non conosco Franco”.
“Volevo sapere se mi posso sedere…”
“Son mica cacchi miei se ha rosso il sedere!”
“Le chiedevo solo se la sedia è libera.”
“Ma che m’importa a me che Velia è una vipera?
E tu riprovavi disperato: “‘Nsomma, c’è posto qui?”
E lui, sempre più alterato: “Cheee? Falla lì la pipì”…
Le prime rime verrebbero da questo fatto qua
Il che prova che l’incongruenza e la sordità
Son tipicamente mezzi della rima
Com’annunciavo e dicevo già prima.