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~ Leggendo ci si allontana dal mondo per comprenderlo meglio.

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Pianti funebri e funerali pubblici

24 venerdì Feb 2023

Posted by aitanblog in immagini, riflessioni, vita civile

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Tag

funerali, lutto, pianto funebre, social

Lacrime di coccodrillo e altri animali

Il fatto é che quando sono morti Bach, De Falla, Ellington, Mingus, Jobim, Tenco, Piazzolla, Modugno, Demetrio Stratos e Miles Davis non avevamo Facebook.
E se faccio bene i conti, il nostro chiacchierio in rete non c’era nemmeno ai tempi in cui sono finiti Kurt Cobain, Jaco Pastorius e Fabrizio De Andrè.
Avremmo per certo scritto coccodrilli strappalacrime anche per loro.
E l’avremmo fatto soprattutto per noi stessi: un modo goffo è piuttosto disperato per elaborare il lutto e non rimanere sopraffatti dalla triste certezza che non ci sarebbero state nuove note provenienti da quelle mani e da quelle bocche ormai consumate da vermi e formiche o già trasformate in mucchietti di cenere.

Giorno dopo giorno,
Perdita dopo perdita,
Vita dopo vita,
I nostri ricordi
Si sradicano dalla terra
Per finire chissà dove.

Perché, in fondo, più che per il morto, ai funerali ed alle commemorazioni sulle reti sociali (quelle piene di pianti e rimpianti per le persone e per i personaggi che abbiamo più o meno ignorato per una vita e scoperto o riscoperto nel giorno della loro pubblica dipartita), più che per il morto, dicevo, mi pare che si pianga per se stessi: per quello che ci viene a mancare; per quello che abbiamo perso con l’avanzare degli anni; per il rimpianto di quello che eravamo quando entrammo in contatto col morto ai tempi in cui era ancora vegeto e vivo; per l’amore, per le considerazioni e per le emozioni che non potrà più darci e, non di meno, per il fottuto timore che prima o poi toccherà anche a noi (avevamo la stessa età…; abbiamo lo stesso sangue…; frequentavamo lo stesso bordello…; un giorno ci incontrammo a un altro funerale…; abbiamo mangiato lo stesso piatto di funghi avvelenati…; dottore, dottore, sento anch’io un dolore allo stomaco e mi gira la testa come se fossi al Luna Park…; dottore, mi dica quanto mi manca; non finga con me; ne ho viste già tante; ma tante, tante, tante che neanche lei sa quante…).



Poi a volte ci capita pure di piangere per persone lontane e sconosciute: vittime di catastrofi, incidenti memorabili, guerre, stermini e genocidi, e, nel farlo, seguiamo più o meno gli stessi meccanismi delle proprietà transitive e delle assimilazioni che finiscono immancabilmente per ritorcersi su noi stessi, sulla nostra fragile caduca e mortalissima persona (poteva capitare anche al mio amico Jules, a Pierre o a Juliette, oppure a Fulano, a Mengano o a Zutano che vivono da quelle parti e, se poteva capitare a loro, poteva capitare anche a me; e puoi scommetterci che capiterà, capiterà prima o poi, pure a te, a me e a tutti noi. Mannaggia ‘a miseria, mannaggia ‘a morte e mannaggia ‘a vita va c’è tene ‘nterra!).

Detto ciò, mi pare che si pianga anche a comando o per contagio. Se piangi tu, piango anch’io, che di certo la mia sofferenza non è minore della tua e neanche a me mancano le buone ragioni e le giuste dosi di dolore per versare fiotti e fiumi di lacrime su questa valle lacrimosa in cui risiede la nostra vita reale e virtuale. Oltre al fatto che in quei momenti ci viene da riflettere sull’impatto che quella vita sfumata ha avuto ed ha sulle nostre vite ancora pulsanti.
E qui la rete esercita un meccanismo di amplificazione in cui il lutto viene anche rappresentato, teatralizzato, finto così completamente che si arriva a fingere che è dolore il dolore (esistenziale e consustanziale alla finità dell’uomo) che davvero si sente.




(Lo so che vi suono antipatico e che voi gli volevate bene davvero. Anche se non lo conoscevate o lo avevate conosciuto di striscio. Ma piangetemi ai miei funerali. Anche se mi avete conosciuto di liscio, di sguincio o di striscio e mi avete capito poco o non mi avete capito per niente. Piangetemi, piangetemi lo stesso. Almeno un po’. Io sarò impegnato in altro e non potrò farlo da solo.)

La vita dispersa

04 sabato Giu 2022

Posted by aitanblog in idiomatica, recensioni, riflessioni, vita civile

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Tag

smartphone, social

e lo sguardo fisso sullo schermo

Passiamo ormai più tempo a osservare e mettere in scena la vita sui social che a vivere la vita nel flusso reale delle nostre esistenze. Tanto che si è persa anche ogni linea di demarcazione tra reale e virtuale (se mai ce ne sia stata una).
Ma prima ancora che con i social questa dispersione della vita è cominciata con la diffusione massiva dei cellulari.

15 anni fa, già ce li avevano tutti, gli apparecchietti.
Ma io resistevo.
Avevo quarant’anni.
E resistevo.
Resistevo.
Resistevo, mentre vedevo il mondo cambiare intorno e all’interno di me. Attonito. (Perché vista da fuori, sembrava assurda e perfino sconvolgente questa perdita di contatto col mondo fisico, questa intermediazione costante del digitale tra noi e il mondo, tra noi e gli altri, tra noi e noi stessi, perfino.)

Ad un dato momento, sembravano tutti impazziti. Amici che erano a tavola con me parlavano ad alta voce con altri, distanti, come se io non fossi lì accanto a loro. Suonerie che risuonavano ovunque. Sguardi puntati tutto il tempo sugli schermi. In ogni luogo e in ogni ora del giorno e della notte. Squilli e conversazioni a cinema, a teatro, sui treni e in chiesa. Selfie in casa, sul cesso, sull’orlo di un precipizio, in biblioteca, alle udienze papali o davanti a stragi e conflitti armati. Telefonini su ogni scrivania, su ogni cruscotto, su ogni cattedra e su ogni banco di scuola.

E tanti di loro, con gli apparecchietti accesi nelle mani, a chiedermi come facessi a farne senza. (La stessa identica questione che pongo io ora a mia madre, una resistente di 80 anni passati con lo sguardo stravolto dalla nostra dipendenza di massa.)

Ricordo sconosciuti che appena mi si avvicinavano e scambiavano con me quattro chiacchiere, mi chiedevano il numero di telefonino e l’account MySpace. Io dicevo di non avercelo, l’apparecchietto. Loro sgranavano gli occhi e osservavano preoccupati che mi sarebbe potuto capitare di tutto, senza il cosetto:
– avrei potuto avere l’improvvisa esigenza di consultare un dizionario o un’enciclopedia, o di comprare indispensabili oggetti online
– avrei potuto avere il bisogno impellente di chiamare qualcuno per chiedere informazioni, scambiare opinioni e dirgli che sentivo l’urgente necessità di sentire la sua voce
– mi sarei potuto trovare all’improvviso davanti a una situazione che doveva essere fotografata
– ma, soprattutto, avrei potuto trovarmi da solo, con l’automobile in panne, di notte, in un luogo sperduto e deserto, senza poter chiamare nessuno in soccorso.

Io ribattevo che non mi sarei mai potuto perdere da solo in una selva scura, perché, oltre al telefonino, non avevo nemmeno la macchina.
E loro, giustamente, mi prendevano per un barbaro, per uno zombie, per un alieno.


Più di cento anni fa il grande fumettista e caricaturista inglese William Kerridge Haselden (nato a Siviglia nel 1872) provò a immaginare cosa sarebbe successo se avessero inventato un telefono tascabile. La vignetta fu pubblicata da “The Mirror” a marzo del 1919 ed è arrivata qui attraverso la pagina Facebook di Emy Canale, che ringrazio pubblicamente per questo gioiello di meravigliosa capacità visionaria.
È la stessa Emy Canale, traduttrice anglofona, a spiegare il gioco di parole che appare ‘virgolettato’ nella didascalia finale: “We shall be ‘rung up’ at the most awkward moments in our daily lives!“, laddove ring up (telefonare, pp. rung up) e wring (pp. wrung, torcere e fig. stressare, costringerebbe a fare qualcosa di non voluto) hanno la stessa pronuncia. Il che la dice lunga sulla capacità che aveva W.K. Haselden di prefigurare lo stress e il cambiamento dello stile di vita che avrebbe comportato l’invenzione dei “pocket telephones“.

Ora ho sia la macchina che il telefonino.
Dopo i quarant’anni li ho presi entrambi e
sono entrato nei ranghi.
Così adesso mi trovo anche io
– con lo sguardo fisso sull’apparecchietto quando attraverso la strada
– e distratto da chi mi sta di fronte mentre metto in scena una comunicazione con gente distante
– e col telefono che squilla in classe o durante una conferenza
– e a controllare i like su Facebook, a impegolarmi in discussioni inutili su WhatsApp, a mandare messaggi davanti a un semaforo diventato verde con i clacson che mi suonano dietro
– e a parlare dei problemi dei social, da dentro i social, sui social.

Ci capita, talvolta, che, nel momento stesso in cui affiorino certi fenomeni di massa, abbiamo l’impressione che qualcosa non vada. Poi, però, ci troviamo ad assumere anche noi atteggiamenti e comportamenti che avevamo deprecato il giorno prima.

Come in una bolla virale che continua a gonfiarsi e sembra essere sempre sul punto di scoppiare e scaraventarci tutti nello spazio come schegge impazzite e fuori controllo (finalmente).

…

Al margine, un’osservazione linguistica.
Ho utilizzato, in questo breve testo, per ben cinque volte l’aggettivo inglese “social” come sostantivo (plurale) in sostituzione dell’espressione social network(ing), che “identifica un servizio informatico on line che permette la realizzazione di reti sociali virtuali” per consentire agli utenti “di condividere contenuti testuali, immagini, video e audio e di interagire tra loro”. (Treccani online)
È un uso attestato in Italia da almeno dieci anni, uno pseudoanglicismo che scaturisce da un meccanismo di abbreviamento che risulterebbe incomprensibile per un parlante di lingua inglese (al pari di night usato al posto di night club, silver al posto di silver plate(d), smoking invece di smoking jacket, reality invece di reality show, basket per basketball, water per water closet e fake in pigra sostituzione di fake news).
In fondo, si tratta di un principio di economia linguistica antico come la cattiveria (da cattivo, che a sua volta deriva da captivus mali, prigioniero del male, espressione latina da cui noi italiani abbiamo preso la prima parte – quella del prigioniero – e gli spagnoli la seconda – quella del male – per definire l’opposto di ciò che è buono, una persona malvagia, insensibile, incline al male o una cosa dannosa, dolorosa, spiacevole, sgradita, come spero non sia stata per voi la lettura di questo testo. E con questo vi saluto e vi auguro un felice “finde“).

Il simulacro

27 lunedì Dic 2021

Posted by aitanblog in immagini, riflessioni, vita civile

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Tag

plagio, rete, scrivere, social

La scrittura nella rete

Ho l’impressione che scriviamo e continuiamo a scrivere qua sopra (qua dentro) per sconfiggere la nostra solitudine e la solitudine degli altri.
Scriviamo per cercare partecipazione, per denunciare quello che ci fa male e per condividere quello che ci produce gioia o piacere.
Scriviamo per soddisfare intime necessità di comunicazione e di comunione col mondo.
Scriviamo per provare agli altri e a noi stessi che esistiamo e, scrivendo, cerchiamo una riprova della nostra esistenza nel numero dei pollici eretti che riceviamo.
Anche quando non facciamo altro che copiare e incollare parole altrui oppure quando intasiamo i social per comunicare e ipercomunicare che non abbiamo nulla da dire, ma abbiamo l’impellente necessità di farlo sapere a tutti, che non abbiamo nulla da dire.

Poi tante volte la rete intrappola le nostre parole e lascia che il ragno fagociti i nostri pensieri senza alcun segno di interesse o attenzione.
Tante volte abbiamo l’impressione che la distrazione regni sovrana e che quei pollici eretti abbiano poco o nessun senso.
Tante volte ci rendiamo conto di essere isole legate dalle acque che ci separano e finiamo per sentirci più soli e inascoltati, dopo aver lanciato nel mare magnum del web il nostro ennesimo messaggio in bottiglia sotto forma di sussurro, di riflessione o DI GRIDO.
Abbiamo la sensazione di aver scritto una lettera che non riceve risposta.
E forse non ci rendiamo nemmeno conto di star scrivendo a una moltitudine più o meno indistinta e non a un singolo destinatario degno delle nostre confidenze e attenzioni.



E intanto Zuckerberg & Co. raccolgono i nostri dati e ne fanno mercato. Perché a loro solo questo interessa. Tenerci intrappolati nella loro rete e fare in modo che non mettiamo la testa fuori di qui e da qui intravediamo la realtà e ci approvigioniamo e soddisfaciamo i nostri desideri e bisogni. Loro vivono delle nostre impronte e dei segni che lasciamo in giro come una serie di pollicini clonati che inseguono i pifferai digitali di Gafam.

Insomma, a me pare che in fondo e in superficie la scrittura sui social riunisca in sé varie motivazioni che sono comuni allo scrivere tout court: l’impulso di fermare il tempo e costringere il passato a non cacciarsi in un buco nero senza vie di uscita; l’esigenza di comunicare con se stessi e cercare chiarezza nei propri pensieri; il desiderio di scrivere a una moltitudine; la ricerca dell’intimità; la necessità di sentirsi esistenti e perfino vivi… E però, alla fine dei conti, quella che instauriamo qua dentro e qua sopra è tutta una comunicazione illusoria che crea dipendenza e può perfino allontanarci dalla realtà. Alla fine dei conti, quello che instauriamo qua sopra e qua dentro è solo un simulacro, ma un simulacro che è sempre meglio di un silenzio senza vie di uscita o soluzioni.

¿Ma poi, non è forse un simulacro anche la scrittura e perfino la parola; ogni singola parola che si sforza ogni momento, anche ora, di rappresentare la realtà che rappresenta?

I fiori che non colsi

02 sabato Ott 2021

Posted by aitanblog in inter ludi, riflessioni

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Tag

arte, multimedia, social

Il meglio e il peggio dell’arte immersiva


Le nuove frontiere dell’arte digitale, come era ovvio che sarebbe successo, possono produrre opere francamente brutte e imbarazzanti che sembrano imitare il peggio di un Disneystore ed esperienze immersive suggestive e avvolgenti, come il Floating Flower Garden del teamLab di Tokyo, che ti fa ritrovare tra tredicimila orchidee che, mentre cammini o quando cerchi di toccarle, si allontanano dal tuo corpo.

Orchidee vere collegate a cavi digitali e moltiplicate da specchi ed altre diavolerie.

Che poi anche di questo video dimostrativo del collettivo giapponese apprezzo molto la prima parte, quella del campo di orchidee, il resto lo trovo tutto molto… boh!?

Forse kitch, camp, flarf, postmodernamente ridondante, digitalmente compiaciuto; eccessivo, futile…

Non so.

Resto dubbioso, titubante e sospeso.

A tratti anche irritato.

Forse, come capita spesso, bisogna entrarci dentro e restarne invischiati, per capirne di più.

Càpita più o meno così anche con le droghe o altre dipendenze.

Tipo i social.

Finché li vedi dall’esterno, non capisci come sia possibile… Poi ti immergi e non riesci più a venirne fuori, anche se ti sembra tutto così futile, irritante, ridondante ed eccessivo.

Nuovi contatti

27 giovedì Mag 2021

Posted by aitanblog in immagini, riflessioni, vita civile

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Tag

social

(La conoscenza nel tempo dei social)

Oggi le alunne del primo anno mi hanno spiegato come funziona.

Primo approccio su Houseparty. Lo conosci in una stanza perché è un contatto di un contatto di un contatto.
La stanza, praticamente, è al buio. Non lo vedi, non sai come è fatto, né se è vera l’età, il sesso, la provenienza e le cose che ti dice di sé e del mondo che gli gira intorno. L’unica cosa di cui sei certa è che trovi simpatico quello che scrive e il modo in cui si presenta in stanza. Al massimo senti la sua voce, ma difficilmente (da quello che mi dicono) si fanno videochiamate direttamente da quelle stanze. Soprattutto in presenza di sconosciuti e nuovi arrivati.

Nel caso in cui tu e il tuo nuovo interlocutore del “party” vi rendete conto che il piacere è reciproco, vi scambiate i vostri contatti Instagram e cominciate a sbirciare tra le foto.

A questo punto, se vi intriga quello che vedete, vi passate i vostri numeri di telefono e continuate a contattarvi su WhatsApp o su Telegram.
Ma siete consapevoli che potrebbe essere ancora tutta una finzione, per cui cominciate a chiedervi l’un l’altro prove di verità e verifiche di presunta autenticità.

Solo dopo le forche caudine di tutti questi ed altri passaggi si può arrivare alla videochiamata o perfino a vedersi da vicino, nella realtà extra-virtuale. Ma sempre con la mascherina, beninteso.

Alla faccia del faccialibro di s’odio

18 lunedì Gen 2021

Posted by aitanblog in idiomatica, recensioni, riflessioni

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Tag

social, urlo

«Ho visto le migliori menti della mia generazione distrutte da Facebook, trascinarsi per la rete all’alba in cerca di consenso […].»

«I saw the best minds of my generation destroyed by Facebook, dragging themselves through the Web at dawn looking for likes, likes and likes […].»

Da Aitan G., “Il Faccialibro d’aprés Allen G.”, Gennaio 2021

L’ermo schermo in cui mi perdo e perdo i contatti col mondo

26 giovedì Dic 2019

Posted by aitanblog in riflessioni, vita civile

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Tag

digitale, rappresentazione, social

(Ovvero, il predominio della rappresentazione)

“…no connection
with the daily world,
only with dreams
and fantasies.”

Anaïs Nin, ‘Collages‘

Qui siamo andati molto oltre l’egocentrismo, il solipsismo e l’egolalia.

L’apparenza del sé ha preso il sopravvento. La rappresentazione di se stessi sul mercato dei consensi è diventata prioritaria anche rispetto all’affermazione del sé medesimo.
Le pareti della realtà sono state scardinate dalle quinte teatrali di un mondo che fa da sfondo al nostro apparire sul palcoscenico virtuale in cui rappresentiamo la vita invece di agirla.

La questione, dicevo altrove, non è più tanto essere (to be) o non essere (not to be), e neanche la dicotomia avere (to have) o essere (to be) regge di fronte al presente…, la questione ormai è, più che altro, essere (to be) o essere visti (to be seen).

Una ragazza di 16 o 17 anni esibisce in quindici secondi la pancia piatta e sostiene di essere incinta da due mesi chiedendo molti like per continuare a postare foto del suo pancione gravido.
Un’altra chiede al suo fidanzato di scriverlo su Facebook che lui le vuole bene e smetterla una buona volta di sussurrarglierlo in un orecchio o guardandola negli occhi come in un film dello scorso millennio.
Ragazzini e ragazzine ritoccano foto e video con occhi e labbra di dimensioni spropositate o si deformano fino a diventare cuccioli in cerca di cibo e affetto.
Nei video e nelle foto non si fa che ridere e sorridere o guardare la camera con sguardi ammiccanti (ve lo immaginate un selfie di Egon Schiele o di Van Gogh che ridono come ebeti a favore di telecamera?).

Donne e uomini di tutte le età controllano la curva dei consensi ai loro post, ai loro video, alle loro foto e perdono il contatto con la realtà che gli gira intorno.
Concerti, eventi, incidenti, feste, stragi e disastri vengono registrati in diretta da persone che assistono con gli occhi puntati sullo schermo di un telefonino.
Cosplayer e crossplayer à gogo.
Comunità virtuali pro-ana e pro-mia.
Binge watching, cyberbullismo, sexting, fake news, avatar e mondi paralleli…

E io che ne parlo e ne riparlo qui da qui, di fronte a uno schermo perenne che mi avvicina e mi allontana da me e da te impedendo qualsiasi contatto epidermico e il freddo e il calore del tatto e di una voce non registrata da mezzi elettronici.


(Rileggendo quanto ho scritto, noto molte parole tecnichesi e modaiole e immagino te, lettore, che, giustamente, le ignorerai e andrai avanti; oppure le cercherai su Google per dimenticarle un attimo dopo! Sempre che non ti fermerai prima di arrivare quaggiù oppure ci arriverai e penserai che sono stato troppo arrogante e presuntuoso nel pensare che tu potessi ignorare qualche tassello del lessico della contemporaneità. In fondo siamo tutti sull’orlo dello stesso abisso, alle soglie del terzo millennio. Un numero perfetto per finire la storia.)

Rete amorosa Rete

09 martedì Lug 2019

Posted by aitanblog in texticulos, vita civile

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Tag

social

Le alzò i capelli dall’orecchio e le sussurrò che l’amava e l’avrebbe amata per sempre. Il vento e il mare sembravano fare eco alle sue parole. La luna guardava sorniona.

Lei sorrise, lo fissò negli occhi e sbottò: “Avrei preferito che me lo avessi scritto su una storia di Instagram e ripostato su Facebook”.

“Scusami tanto!”, rispose lui, mentre prendeva dalla tasca il telefono.

Considerazioni (auto)critiche su una BACHECA di mezzo agosto

17 mercoledì Ago 2016

Posted by aitanblog in riflessioni, versiculos, vita civile

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Tag

network, rete, social, vacanze

essere < o > APPARIRE?

immergersi nel flusso mutevole della vita < o > MUTARE IMMAGINE SENZA MUTARSI DENTRO?

rivolgere gli occhi, le orecchie, il tatto (ma anche il gusto e l’olfatto) al mondo per cambiare insieme con la realtà in cui siamo immersi < oppure > USARE LA REALTÀ COME SFONDO PER I NOSTRI SELFIE?

amare e (qualche volta) odiare < o > METTERE IN SCENA L’ODIO E L’AMORE?

godersi la costa, il mare e il litorale < oppure > FOTOGRAFARE GLI OMBRELLONI SENZA TUFFARSI TRA LE ACQUE E LASCIARSI SCHIAFFEGGIARE DALLE ONDE?

vivere la vita < oppure > RAPPRESENTARE LA PROPRIA SUPPOSTA ESISTENZA ATTRAVERSO UNO SCHERMO?

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