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Un racconto frammentario e diacronico già pubblicato su carta nella raccolta “Ora ed allora”

In attesa della nuova raccolta di racconti dell’Associazione ex Alunni del Liceo Classico “Francesco Durante”, posto qui il mio racconto pubblicato nell’antologia dello scorso anno e dedicato alla città di Lisbona e ad alcuni dei ricordi che mi tengono legato alla capitale della nazione e della lingua portoghese.

I – 1988, Bozza per un racconto portoghese
A volte, la voglia di raccontarla ti salva la vita.

Primavera, ore 17:00.
A. sale sul “Castelo de San Jorge”. È il suo II giorno a Lisbona. La gente è affabile, ma, comunicazione intermittente + comprendere e non comprendere + pochi turisti: totale, solitudine totale.
D’altra parte, era questo che cercava dopo i casini e le boiate.
A. sale; passa distratto i negozi di souvenir, uguali in tutto il mondo; ripassa il giorno precedente e la mattinata alla Fundação Gulbenkian, le esplosioni di colori acrilici dell’arte contemporanea / Fuori la natura (la Natura) sposata con le forme della nuova scultura.
Lo riassale una sensazione di pace e tranquillità – come quando era nel giardino della fondazione. Un vento fresco lo avvolge, sente un fruscio d’acque. Vede le prime mura; sale, gira intorno a quelle pietre e alle piante, all’acqua che sgorga dai punti più impensati; pensa agli Arabi e ai loro miracoli architettonici in Europa; pensa all’America, ai marinai portoghesi, l’Oceano, la circumnavigazione del mondo; e sale, sale e si lascia perdere tra quelle mura e l’acqua e i cigni in uno stagno artificiale e gli uccelli che svolazzano tra le piante.
Ormai non pensa più a nulla che alla natura e oltrepassa un ponticello: leggera salita, il sole si affaccia tra le piante e si proietta sui suoi occhi; lui si ferma, fissa i raggi nell’acqua fluente. Si siede sul muretto del ponte. L’acqua che scorre cristallina riflette i raggi tra le pietre bianche e il verde delle piante. Il fruscio del fiumiciattolo accompagna il leggero crepitio delle foglie. Il “locus amoenus”, il “locus amoenus” ripete, senza neanche pensarci; poi si gira alla sua destra e vede i torrioni del castello ergersi nell’aria.
Decide di salire, corre forsennato pensando a battaglie e conquiste, agli orrori occidentali nel mondo. Guarda verso ovest il ponte, il Tago, le case e più in là l’Oceano e l’America. Gli orrori occidentali nel mondo.
Si sposta sull’altro lato del torrione quadrato e fissa le chiese bianche di “San Vicente” e “Santa Engracia”, marmoree e candide sembrano un unico perfetto edificio. Si siede tra due merli, fissa la parte sottostante; è alto; lì sotto un uomo cammina piccolissimo tra sentieri silenziosi e deserti.
Pensa di buttarsi; gli trema la testa; pulsa il cervello; fissa stravolto un sentiero in basso tenendo le due mani attaccate alla pietra; si scorge contratto e tremante (gli orrori occidentali nel mondo). Poi torna a ergersi, guardando vuoto la chiesa di Santa Engracia, la cupola perfetta e il Tago – ACQUA CHE SCORRE.

Poi si perse, felice di perdersi, nel dedalo di Alfama; tra i panni stesi, nel saliscendi di strade e scale, nel mormorio della gente; tra bicchieri di vino e di birra, vecchi che vendono pane e ricotta, le donne che pregano e preparano il da mangiare in bassi che sembrano invitarti ad entrare; le mille chiese, le case bianche e i brusii.

II – 2019, Fuga da Lisbona
“Se non le scrivo, le cose non arrivano al loro compimento, sono state solamente vissute.”
Annie Ernaux

Sono stato rapito da Lisbona tra la fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90.
La prima volta ci sono stato poco prima dell’incendio del Chiado che cominciò a segnare un cambio e un ammodernamento della facciata della città.
Confronto i miei diari con le notizie della rete e ricostruisco che era l’88. Mi trovavo a Madrid per scrivere i primi capitoli della mia tesi di laurea e un bel giorno decisi di concedermi una vacanza dalla baldoria e dai bagordi turistici della movida spagnola. Pochi anni dopo, io e i miei amici degli ASA (Abusivi Spazi Acustici), avremmo cantato: “Fuggirò a Lisbona / Mi verranno a cercare”…
Arrivai alla Estação do Oriente di mattino presto, in pullman, ed ebbi subito l’impressione di trovarmi altrove. L’Europa, dopo gli anni ’70, stava diventando tutta uguale: stessi negozi, stesse metropolitane, medesimi centri commerciali e stessi manifesti pubblicitari a imbrattare i muri e le menti. Ma il Portogallo no, il Portogallo nella sua dignitosissima povertà non era così, si trovava altrove e ti faceva sentire in un posto differente da tutto il resto che veniva prima e dopo. Eri arrivato alla fine dell’Europa e di fronte all’estremo del fronte occidentale, e lo sentivi anche nell’aria che respiravi. A quei tempi nessuno fuori da Lisbona e zone collegate conosceva i Madredeus e Wim Wenders non aveva messo mano a Lisbon Story. La città non era stata ancora invasa da catene di fast food e multisale. Ogni quartiere aveva una sua personalità ben definita e i bar, le librerie e le salumerie erano popolate da persone del posto che erano in confidenza con i proprietari. Di turisti ce n’erano ben pochi; tanto più in comparazione con le orde di stranieri che assalivano Madrid.

Ci sono tornato più di una volta in Portogallo, fino al ’94, poi ho cominciato ad avvertire che qualcosa stava cambiando: i tram e i ristoranti erano affollati di stranieri (me compreso, of course), aumentavano i discopub e spuntavano dappertutto finti locali tipici dove ascoltare il fado, bere una bica, seguire le orme di Tabucchi, immaginarti Pessoa o mangiare pastéis de nata tra copas de moscatel e azulejos.
Quell’anno a Lisbona mi sono anche innamorato di un amore che mi ha fatto parlare portoghese per più di dieci anni, ma in Portogallo non ci sono più tornato. Avevo paura di confrontarmi con i miei ricordi.

Oggi leggo che Lisbona è una delle città più gentrificate d’Europa e del mondo. Sento parlare di una città e di un Paese invasi da capitali stranieri. È scoppiato il Lisboom e il Portogallo non sarà di certo più lo stesso, non sarà se stesso e sarà lo stesso di tanti altri luoghi di questo piccolissimo villaggio globale.
Neanche io sono più lo stesso, ma sono assalito da una profonda nostalgia che ha il sapore dolce e salato delle acque del Tago e delle lacrime compiaciute e strazianti di un fado suonato in un localaccio del Bairro Alto. Se non avessi paura delle parole maiuscole parlerei di Sehnsucht e di Saudade.

III – Primo ottobre 2022, Fuga a Lisbona

Domani mio nipote ha un aereo per Lisbona alle 6 del mattino.
Al rientro confronterò i miei ricordi con i suoi.
Ha più o meno la stessa età del mio primo viaggio in Portogallo.
Sono curioso di sapere se hanno ancora lo stesso sapore i pastéis de nata nelle pasticcerie dei bar di Belém.
Ma non potrei saperlo nemmeno se fossi io stesso ad assaggiarli.
Nei ricordi si opacizzano i sentimenti e i sapori. Nei ricordi si distilla la vita. Ma cambiano i saperi e i profumi.
A volte quando leggi i tuoi ricordi impressi su una pagina scritta ti sembra di leggere la vita di un altro.
Altre volte l’urgenza di raccontarla te la salva la vita.
A volte il tuo passato è quello che ricordi della vita che hai vissuto e in fondo tu stesso sei quello che gli altri ricordano di te.
A volte penso che ci siano in giro tanti te stesso quante sono le persone che si ricordano di te, e un giorno potrebbero incontrarsi tutti insieme in un bar di Lisbona. Forse non si riconoscerebbero nemmeno, oppure potrebbero generare un corto circuito delle memorie, o una serie di altre storie degne di essere raccontate da un eteronimo di Pessoa; oppure da un nuovo Saramago. (A volte penso che anche i miei ricordi si confondono con le pagine che hanno scritto loro, e che tutte le mie memorie vengano da una biblioteca distante 2698 chilometri da Lisbona.)

“La vita non è quella che si è vissuta,
ma quella che si ricorda e come la si ricorda per raccontarla.”
Gabriel García Márquez, “Vivere per raccontarla”


Un video con foto dei tram di Lisbona rubate dalla rete alternate con pagine sparse dei miei taccuini di quei tempi e quei viaggi.
In sottofondo la musica dei primi Madredeus.